Tibet, dall’indipendenza all’assimilazione cinese, l’intervista a Giorgio Cuscito

13/2/1913 • Oggi è l’anniversario della sovranità proclamata dal XIII Dalai Lama sfruttando i disordini della Rivoluzione. Nel ’51 la fine del sogno.

Il 13 febbraio del 1913, il XIII Dalai Lama proclamava l’indipendenza del Tibet. Grazie ai disordini provocati dalla Rivoluzione cinese del 1911-12, i tibetani avevano ripreso il controllo del loro territorio, perso nel 1906 quando gli inglesi ne avevano riconosciuto la sovranità alla Cina. Il destino della Repubblica tibetana, però, fu breve: nel 1950 le truppe cinesi invasero la regione e, l’anno successivo, una delegazione tibetana fu costretta a ratificarne l’annessione alla Cina. Da allora, la storia del Tibet è segnata da una progressiva rassegnazione al dominio cinese, ciclicamente interrotta da proteste e rivolte: nel 1959, l’anno della fuga dell’attuale Dalai Lama, il XIV; nei tardi anni ’60, in coincidenza con la Rivoluzione culturale; durante gli ’80 e, infine, in occasione dei Giochi olimpici di Pechino del 2008.

La cultura tibetana rappresenta uno straordinario esempio di conservazione di usi e costumi: quando gli europei cominciarono a scoprirla, nell’Ottocento, si trovarono di fronte a una società rimasta intatta per quasi un millennio, una teocrazia feudale sviluppatasi in un cotesto orografico tanto difficile quanto spettacolare, il “tetto del mondo”, appunto. Ma che ne è oggi del Tibet, aldilà dei suoi monaci e dei monasteri? Per capire quali sono le concrete prospettive di questo popolo, è opportuno ricorrere alla geopolitica. Abbiamo dunque intervistato sull’argomento Giorgio Cuscito, consigliere redazionale della rivista Limes, analista e studioso di geopolitica cinese.

Come mai la Cina, da oltre un secolo, si ostina a volere dominare sul Tibet?

Questa storia risale a molto prima. I cinesi e i mongoli cominciarono a prendere il controllo della regione a partire dalla dinastia Tang, intorno al IX secolo d.C. Da allora in poi, a fasi alterne, il Tibet fu indipendente o fece parte della Cina imperiale. Durante la dinastia Yuan, il capo della scuola del buddismo tibetano ottenne per primo il titolo di “Dalai Lama”: Dalai, in mongolo, significa “grande”, mentre Lama è un termine tibetano che vuole dire “maestro”. Anche la massima autorità politicae religiosa tibetana, frutto di un accordo tra la popolazione locale e i mongoli della dinastia Yuan, è in fondo figlia del rapporto tra il Tibet e la Cina. Sebbene discontinuo, questo periodo storico è importante, perché servì alla Cina per legittimare il controllo sul territorio. Piuttosto che di Cina io, tuttavia, parlerei di Pechino: la regione, oggi, infatti, fa formalmente parte della Repubblica Popolare.

Le ragioni per cui Pechino vuole mantenere il proprio dominio sul Tibet sono almeno due. La prima è che la zona funge da cuscinetto protettivo del nucleo geopolitico del paese, quello a maggioranza “Han” (l’etnia dominante), che si trova nella parte centro-orientale del paese. Il Tibet, insieme allo Xinjiang, alla Mongolia interna e alla Manciuria, è una delle regioni periferiche a protezione della zona centrale della Repubblica Popolare. Controllando il Tibet, Pechino può contare sull’Himalaya come protezione naturale per il suo fronte sud-occidentale; ciò impedirebbe all’India (o a un’eventuale potenza straniera) di invaderla agevolmente. La seconda ragione, altrettanto importante, è che l’altopiano del Tibet è la fonte dei due principali fiumi che alimentano il paese: il Fiume Giallo e il Fiume Azzurro. E proprio lungo questi fiumi si sviluppa il nucleo geopolitico di cui si parlava prima; il Fiume Giallo, in particolare, è la culla della civiltà Han.

Pechino, però, non vuole limitarsi soltanto a controllare il Tibet: vuole assorbirne la minoranza etnica, indurla quindi con la forza ad adottare gli usi e costumi dell’etnia dominante. Questa, come le altre regioni periferiche, infatti, fungono sì da zone cuscinetto; ma sono anche fonti d’instabilità. E la strada che Pechino ha scelto per garantirsi la stabilità domestica è l’assimilazione delle minoranze, un metodo che serve per plasmare l’identità nazionale, ancora in divenire. Le minoranze etniche del Tibet, così come quella degli Uiguri nello Xinjiang (regione a maggioranza musulmana) o quella mongola sono fiorite in aree molto lontane dal cuore del paese e hanno sviluppato usi e costumi propri.

Il controllo di queste regioni serve dunque a mantenere quella stabilità interna necessaria per perseguire le ambizioni cinesi di lungo periodo all’estero. Il controllo dello Xinjiag, che è la porta di accesso all’Asia Centrale e al Medio Oriente, ad esempio, impedisce l’emergere di minacce come la penetrazione del fondamentalismo islamico, tramite i jihadisti provenienti dall’Afganistan e dal Pakistan (nella regione, qualche anno fa, fu lanciato l’allarme terrorismo). In Tibet, invece, la Cina temeva una possibile penetrazione da parte dell’India mediante il buddismo come strumento di influenza. Motivo per il quale la Cina continua a non tollerare che l’India ospiti il Dalai Lama: Dehli può sempre usare questo argomento come leva negoziale contro Pechino.

Il Dalai Lama, e con lui il suo popolo, sembra avere rinunciato a qualsiasi progetto di indipendenza, preferendo optare per forme di autonomia. Perché?

Perché non ci sono alternative. Perseguire l’indipendenza avrebbe significato continuare una guerriglia contro forze armate che presidiano fortemente il Tibet. Questa presenza, tra l’altro, è importante anche per monitorare i movimenti indiani al confine; e sappiamo che negli ultimi due anni ci sono stati scontri tra soldati indiani e cinesi. Il Dalai Lama cerca allora di tendere la mano a Pechino per guadagnare margine di libertà. Insomma, non ci sono altre soluzioni. Il dossier Tibet è stato a lungo discusso all’estero, soprattutto prima delle Olimpiadi del 2008. La Cina è stata a lungo criticata in materia di tutela dei diritti umani. Nonostante ciò, Pechino non ha cambiato la sua postura; anzi, negli ultimi anni il processo di sinizzazione si è rafforzato: un esempio sono i campi di rieducazione allestiti nello Xinjiang, ma pare che ci siano anche in Tibet dei centri di “formazione”. Molti tibetani vengono tolti dall’attività di pastorizia e di coltivazione per essere coinvolti nelle attività economiche e industriali. Questo serve per dimostrare che il Tibet, grazie all’annessione alla Cina, sta crescendo economicamente. E nel 2020, in effetti, il Tibet è stata la regione cinese che è cresciuta di più economicamente – un frutto di questa imposizione.

Non ci sono speranze, quindi, di vedere un Tibet libero?

In questo momento, oltre che appellarsi all’estero, per il Tibet non può fare molto, resta una regione della Repubblica Popolare. Certamente, però, il tema dei diritti umani è un punto di vulnerabilità per quanto riguarda il soft power della Cina. E il soft power, l’immagine che dà di sé un paese, è lo strumento più importante che una potenza ha per proiettare in modo stabile le proprie ambizioni all’estero. Non basta essere la seconda potenza economica per competere con gli Stati Uniti: bisogna attirare il consenso. Se gli altri paesi diffidano della Cina, la strategia di proiezione all’estero rischia di fallire. Gli Stati Uniti non sono la prima potenza mondiale solo perché sono all’avanguardia dal punto di vista militare e tecnologico: sono stati in grado di trasmettere all’estero l’immagine di un paese che porta libertà e che guida il mondo libero.

Quali sono gli altri Tibet della Cina?

Oltre a quelli menzionati (Xinjiang, Tibet, Manciuria e Mongolia interna), se vogliamo individuare un altro punto di instabilità, direi senza dubbio Hong Kong. Non è solo una città: è una regione ad amministrazione speciale sviluppatasi all’incrocio tra due imperi, quello britannico e quello cinese. Oggi, larga parte della popolazione di Hong Kong è contraria all’inglobamento in corso nei sistemi economico-politici della Repubblica Popolare. Di qui, tutte le proteste a cui stiamo assistendo. Pur essendo una regione amministrativa speciale e pur avendo maggiori libertà, incluso il diritto di manifestare, Hong Kong teme infatti di perdere la sua autonomia. Soprattutto, a seguito di una recente legge a tutela della sicurezza nazionale che, di fatto, rafforza la presenza di Pechino. È senza dubbi, al momento, regione più instabile. Nelle altre regioni, del resto, l’intervento militare è più duro; Hong Kong, invece, è sotto i riflettori dell’opinione pubblica mondiale e la popolazione ha maggiore libertà, tra le quali l’accesso ai social network. Tutto questo, al momento, vincola il margine di manovra di Pechino.

Federico Pani

Il Piccolo di Cremona, 13 febbraio 2021

Federico Traversa: «Reggae, rasta e marijuana? Bob Marley era molto di più»

06/02/1945 • Oggi il grande artista giamaicano avrebbe compiuto 76 anni. Intervista a Federico Traversa, che lo racconta in un libro

Quest’anno ricorrono i quarant’anni dalla scomparsa di Bob Marley, morto a Miami nel 1981. Se un tumore non lo avesse stroncato, proprio oggi avrebbe compiuto 76 anni. Per alcuni il ricordo di Marley è ancora vivido, per altri ciò che resta di lui è più un’icona o, peggio, una semplice moda, che significa una particolare acconciatura (i dreadlocks), la musica reggae e anche il consumo di marijuana. Per ricordare e rendere omaggio alla figura artistica e umana di Marley, abbiamo contattato Federico Traversa, che è uno dei maggiori esperti dell’argomento in Italia. È autore del libro “Bob Marley: in this life. Viaggio attraverso le parole del mito” (di Chinaski Edizioni, pubblicato con lo pseudonimo di T.S. Sandman), che è giudicata una delle pubblicazione più complete sul cantante giamaicano e ha parlato approfonditamente di Marley nel libro Rock is Dead – Il Libro Nero sui Misteri della Musica (scritto insieme ad Episch Porzioni ed edito da Il Castello Editore), da cui è tratto l’omonimo programma radiofonico in onda da sei stagioni su Radio Popolare.

Il Marley che conosciamo un po’ tutti è molto diverso da quello che conosce un esperto come lei?

Il Marley che è arrivato a noi – al pubblico nordamericano ed europeo intendo – è soprattutto quello del periodo con la casa discografica Island, che va dall’album Catch a Fire fino ad Uprising. È un Marley, diciamo così, leggermente annacquato per quanto sempre immenso. Fu proprio il fondatore della Island, l’inglese Chris Blackwell, che a partire dal 1973 cominciò a promuovere la musica di Marley come si faceva allora con le rockstar, tra concerti, album veri e propri e copertine di riviste. Fino a quel momento, alle nostre latitudini, il reggae lo si poteva trovare solo in qualche compilation estiva o nelle raccolte di musica caraibica. Quelli della Island, dicevo, sono gli album che contengono le canzoni che quasi tutti conoscono: Buffalo soldiers, No woman, no cry o Redemption Song. Per tornare al reggae più roots, bisogna risalire invece a qualche anno prima, quando il produttore di Marley era il suo conterraneo Lee Perry; sto pensando a dischi come Soul rebel o Soul Revolution. C’è da dire però che, anche quando ebbe successo, Marley non tradì mai il messaggio di fondo della sua musica, profondamente legato alla religione rastafariana.

Di che cosa si tratta?

Pochi sanno che l’origine del rastafarianesimo si deve al sindacalista e scrittore giamaicano Marcus Garvey (1887-1940), fondatore di UNIA, un’associazione nata per fornire istruzione alla popolazione di origine africana sparsa nel mondo. Fu proprio attorno a quest’associazione che nacque un vero e proprio movimento religioso, mirante a riunire tutto il popolo di origine africana. L’obiettivo era quello di farlo tornare in pieno possesso della sua terra natia, allora ancora in larga parte controllata dall’Europa. Garvey era un personaggio eccentrico e si comportava volentieri da predicatore. Sosteneva, infatti, che il primo re nero che fosse stato incoronato in Africa, sarebbe stato il nuovo messia. Il caso volle che, nel 1930, venne eletto re d’Etiopia Hailé Selassié, il quale veniva chiamato Ras Tafari; in aggiunta, era l’unico re libero in quel momento nell’intero continente africano. In Giamaica la cosa venne presa molto sul serio e Ras Tafari diventò, da allora, il simbolico messia della religione.

Perché questa religione fu così importante per Bob Marley?

Perché Marley la abbracciò, facendola diventare lo sfondo naturale della sua musica. A parte l’uso rituale della marijuana (su cui si ironizza spesso, ma al pari del vino per i cristiani è da considerarsi in tutto e per tutto un sacramento), il rastafarianesimo predicava la lotta per i propri diritti, per l’indipendenza personale e per un rapporto di equilibrio tra l’uomo e la natura; i rasta erano fieri oppositori morali dell’eccesso, così come dell’occidente consumista e capitalista, chiamato “Babylon” (la religione, peraltro, intrattiene singolari aspetti sincretici con la Bibbia). Bob Marley dedicò la sua vita a questa missione di redenzione: la sua musica divenne un potente strumento di emancipazione delle coscienze (“alzati, combatti per i tuoi diritti”, canta in Get up, Stand up). Non lo fece mai per i soldi, tantomeno per il successo: nel farlo, era animato, piuttosto, da un fervore religioso. Nel successo di Marley, del resto, c’è a mio avviso davvero qualcosa di messianico: quante possibilità poteva avere un povero orfano cresciuto in un angolo remoto del pianeta di diventare l’artista più conosciuto al mondo? Già, perché se qui in occidente fatichiamo un po’ ad accettarlo, basta andare nel resto del mondo per rendersene conto: non esiste artista musicale più famoso di lui.

Oggi la musica sembra una cassa di risonanza dell’individualismo, nulla di più distante dall’idea che ne aveva Marley. È così?

Bob Marley cantava: “emancipatevi dalla schiavitù mentale” (è la bellissima Redemption Song, ndr). Nella sua idea, liberarsi da questa schiavitù significava aprire la propria mente e scoprire che gli esseri umani sono una cosa sola, un solo cuore, tutti figli della stessa terra. Da quest’idea l’empatia scaturisce naturalmente. Se la visione invece si restringe solo su sé stessi, sul proprio ego, allora è naturale parlare o cantare soltanto delle piccole cose che ci riguardano. Marley, al contrario, ha cercato di parlare davvero alle coscienze di tutti. Lo ha fatto sullo sfondo di una credenza religiosa, ma con in testa ben chiara anche una missione sociale. Sapeva bene cosa voleva dire essere e stare tra gli ultimi: era nato in un villaggio sperduto in Giamaica e si era poi trasferito nel quartiere di Trenchtown a Kingston, un posto di lamiere accatastate, strade impolverate e delinquenza.

Dove affondano le radici della musica di Marley?

La Giamaica era musicalmente molto influenzata dagli Stati Uniti, da cui si riuscivano a captare molti programmi radiofonici. I giamaicani ascoltavano prevalentemente la musica nera, ad esempio i The Temptations, Tina Turner e in generale i dischi della Motown. I musicisti locali incrociarono queste musiche con alcune sonorità tradizionali, come il calypso. Velocizzando il tutto nacque lo ska. Nel 1966 ci fu in Giamaica un’estate particolarmente calda: lo ska era diventato troppo faticoso da ballare, con quelle temperature. La musica tornò allora a rallentarsi; si decise anche di levare i fiati e mettere bene in evidenza i bassi e la linea della tastiera. Nacque così il rocksteady, i cui testi già cominciavano a trattare tematiche socialmente più impegnate. Quando il ritmo fu velocizzato giusto un po’ in levare sulla terza battuta nacque il reggae.

Che tipo di uomo era Bob Marley?

Parlava poco ed era molto sicuro di sé. Era una persona che aveva dovuto farcela praticamente da solo nella vita: suo padre lo abbandonò da piccolo poi, a cinque anni, si rifece vivo e lo portò in città con la scusa di farlo andare a scuola ma invece lo mandò a fare da badante a una anziana diabetica prima che la madre se ne accorse e lo riportò in campagna. Da più grande, Bob ritornò in città con la madre, che però se ne andò presto, lasciandolo in una situazione piuttosto strana, anche se non troppo per il costume giamaicano: il piccolo Bob conviveva con quello che era stato, per un certo periodo, il nuovo compagno della madre e sua moglie (si trattava di un uomo già sposato). In casa, va da sé, fu sempre trattato peggio dei figli naturali della coppia.

Era un uomo a cui piaceva divertirsi; amava molto le donne e l’amore e, per certi versi, il suo rapporto con il sesso femminile era in linea con il machismo culturale caraibico. Le donne, però, venivano sempre trattate con rispetto. Marley tradì spessissimo la moglie Rita, la quale però, a sua volta, ebbe due figlie che non erano di Bob, la seconda quando i due già erano sposati. Per capire che tipo di uomo fosse Marley, basta dire che si propose ben volentieri di riconoscere quella bambina, in modo che potesse occuparsi economicamente anche di lei. Come mi hanno raccontato i suoi figli, c’erano sempre interminabili file di persone fuori casa di Bob, il quale le faceva entrare e dava soldi a tutti. È impressionante vedere quante persone a Kingston raccontino di aver potuto studiare o di avere fatto studiare i propri figli proprio grazie alla generosità di Marley.

Non c’è mai stato un artista capace di intrecciare così tante cose, nella musica e nei suoi contenuti, così capace di toccare tanti cuori. A volte, mi viene perfino da pensare che, forse, un qualche dio lo abbia scelto per diffondere nel mondo il suo messaggio. 

Federico Pani

Il Piccolo di Cremona, 6 febbario 2021

Chiara Murru: «Vi spiego cos’è la Crusca e il mio lavoro al Vocabolario dantesco», l’intervista alla collaboratrice dell’Accademia

Chiara Murru è collaboratrice dell’Accademia della Crusca e assegnista di ricerca presso l’Università per Stranieri di Siena.

Cos’è e cosa fa l’Accademia della Crusca?

L’Accademia della Crusca è un’istituzione nata nel XVI secolo e che ancora oggi è il principale punto di riferimento della lingua italiana. Nello Statuto dell’Accademia, si legge che il suo compito è quello di sostenere la lingua italiana nel suo valore storico di fondamento dell’identità nazionale e di promuoverne lo studio e la conoscenza, in Italia e all’estero. La sua attività è, in primo luogo, la ricerca scientifica in diversi ambiti: storico-linguistico, dialettologico, filologico, lessicografico e grammaticale, in senso diacronico e sincronico.

La promozione della lingua si realizza in più forme: ad esempio,col servizio di consulenza linguistica sul lessico e sull’uso della lingua; una redazione di esperti riceve ogni giorno dei quesiti a cui risponde (le risposte sono tutte consultabili), in modo da ricostruire la storia del fenomeno in questione. Quella che viene data non è mai una risposta netta; piuttosto, si cerca di spiegare e documentare l’evoluzione del fenomeno e dare al lettore gli strumenti per capirne il senso.

Un altro esempio è la sezione “parole nuove”, uno strumento d’informazione sulle parole che si possono incontrare nella comunicazione di tutti i giorni: vengono scelte sulla base di un monitoraggio che avviene sui maggiori mezzi di comunicazione. È importante ricordare che la redazione di una scheda di approfondimento dedicata a una di queste parole non vuol dire che l’Accademia ne stia promuovendo l’ingresso effettivo nel lessico: ciò può avvenire solo secondo la naturale dinamica della lingua. Diciamo che l’Accademia studia e analizza la lingua, ma fornisce anche gli strumenti per orientarsi, per comprenderla e per usarla correttamente.

Perché si ritiene che una parola si possa usare correttamente solo se la Crusca dà l’avallo?

Bisogna chiarire una cosa: l’Accademia della Crusca realizzò effettivamente un vocabolario e, anzi, il binomio Accademia della Crusca e vocabolario sembra inscindibile nella mente di molte persone proprio perché fu un lavoro che fece per secoli, prima di interrompersi, con l’ultima edizione, nel 1923. Il vocabolario fu anzi il punto di forza dell’Accademia, modello e avanguardia della lessicografia in Europa e nel mondo. Questa è senza dubbio una delle fonti del suo prestigio. Anche oggi, del resto, si occupa attivamente di lessicografia, nell’ambito di vari progetti.

Aggiungo una cosa: la Crusca analizza i fenomeni dell’italiano, documenta le parole che si usano e si diffondono; ma ciò non vuol dire che ne autorizzi l’uso, quasi rilasciasse una specie di patentino. Deve senza dubbio prendere atto di alcuni fenomeni, sebbene ciò non significhi che siano, per questo, automaticamente corretti. Penso infatti che, trattandosi della massima autorità linguistica in Italia, sia giusto che spieghi che alcuni usi non sono corretti. Ci sono fenomeni linguistici, di cui certo bisogna prendere atto, ma che la Crusca deve sottolineare come scorretti.

Di che cosa si occupa, nello specifico, una giovane ricercatrice come te?

Il progetto di cui mi occupo è nato in seno all’Accademia, in collaborazione con l’Opera del Vocabolario Italiano (OVI), organo del CNR: si tratta del “Vocabolario dantesco”. È un progetto lessicografico volto a raccogliere il patrimonio lessicale delle opere volgari di Dante. Lo ritengo un lavoro bellissimo e sono onorata di poter partecipare a un progetto così importante. Concretamente, redigo le schede del vocabolario e, dunque, ogni giorno studio e scopro il senso e il significato di alcune parole usate nella Commedia, rendendo conto di tutte le loro occorrenze. Ogni scheda lessicografica offre, oltre alla struttura semantica e a varie informazioni sul vocabolo, una nota dove si espongono i problemi interpretativi e i commenti alla parola o al passo che la contiene. Quello che più mi affascina nel mio lavoro è vedere come può cambiare l’uso delle parole nell’opera di Dante, dal significato più materiale a quello più simbolico e spirituale.

Non si tratta di una variazione così schematica. Siamo spesso portati a credere che solo il lessico nell’Inferno sia concreto e realistico, tanto da arrivare fino all’uso del turpiloquio. Invece non è una distinzione così netta: nel bel mezzo del Paradiso troviamo una parola come rogna, che si potrebbe pensare più collocabile nel panorama lessicale dell’Inferno. Nella mia attività, cerco anche di capire il modo in cui nascono i neologismi: quali sono, insomma, i meccanismi onomaturgici propri di Dante.

Ci puoi fare qualche esempio di varietà negli usi nella Commedia che hai studiato?

Un esempio è l’uso delle medesime parole in contesti diversi. La parola ventre, ad esempio, Dante la usa sia per indicare la “parte esterna del corpo corrispondente alla cavità che contiene l’apparato digerente”, sia il grembo della Vergine Maria. Ci sono poi esempi di significati traslati: la parola zavorra – che propriamente è il materiale pesante che si pone sulla stiva di una nave per darle equilibrio durante la navigazione – nella Commedia è usata esclusivamente in senso metaforico, a indicare la parte dei dannati della settima Bolgia, con il riferimento al fatto che su di essi gravano i loro peccati.

Un altro esempio interessante è la differenza dell’uso di cerebro e cervello (che hanno lo stesso significato): la prima è una forma colta, che deriva dal latino cerebrum; la seconda è l’evoluzione del diminutivo latino cerebellum. Perché Dante preferisce in due occasioni alla variante popolare la parola cerebro? Perché lo richiede il contesto. Nel primo caso è usato, nel Canto XXVIII dell’Inferno, da Bertran de Born (“partito porto il mio cerebro, lasso!”), uno dei più grandi poeti provenzali, un personaggio nobile e di alta cultura a cui ben si addice un cultismo. La seconda occorrenza è nel XXV Canto del Purgatorio, nel contesto della dissertazione di Stazio sull’origine dell’anima: si spiega come al feto, una volta compiuta l’articolazione del cervello (“l’articular del cerebro è perfetto”), Dio inspiri l’anima intellettiva. La parola cervello è usata, invece, in contesti diversi. Per esempio, quando nel Canto XXVII dell’Inferno il conte Ugolino addenta l’arcivescovo Ruggieri e descrive il punto esatto del morso: una scena cruda, che si imprime nella memoria, nella quale Dante sceglie il termine più popolare (“e come ’l pan per fame si manduca, / così ’l sovran li denti a l’altro pose / là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca”).

Un’altra parola interessante, di cui ho recentemente redatto la scheda lessicografica, è l’aggettivo scialbo. Si potrebbe pensare, in un primo momento, che si tratti semplicemente di un sinonimo di pallido. Dante lo usa nell’episodio del sogno della “femmina balba”, nel XIX Canto del Purgatorio (“mi venne in sogno una femmina balba, / ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, / con le man monche, e di colore scialba”). In realtà, il significato che gli viene attribuito non è tanto quello di pallido, ma di “privo di colore”. È un uso interessante, dato che questo termine viene dal verbo scialbare, che nel gergo della pittura voleva dire ricoprire una parete d’intonaco. Dante, quindi, ne fa uso in un modo del tutto originale.

Federico Pani

(Una versione ridotta dell’intervista è stata pubblicata su: Il Piccolo di Cremona, 30 gennaio 2021)

Desert Storm: l’eredità della guerra “intelligente”, l’intervista a Daniela Melfa

16/1/1991 • Intervista a Daniela Melfa a 30 anni dall’invasione Usa del Kuwait: dai calcoli errati di Saddam all’Islam radicale

La notte tra il 16 e il 17 gennaio del 1991 cominciava l’operazione “Desert Storm”, una vasta campagna di bombardamenti aerei miranti a distruggere l’infrastruttura militare dell’esercito iracheno. L’operazione era coordinata dal generale americano Norman Schwarzkopf, capo di una coalizione battente bandiera ONU, che comprendeva, insieme al grosso delle truppe angloamericane, forze provenienti da diversi paesi tra cui anche l’Egitto, la Siria e l’Arabia Saudita. Obiettivo: liberare il Kuwait, invaso l’estate dell’anno prima dall’esercito di Saddam Hussein.

Il dittatore iracheno aveva pensato di risolvere così la complicata questione del debito del suo paese, contratto proprio con il piccolo ma ricchissimo paese limitrofo, negli anni della lunga guerra contro l’Iran. Convinto di incutere sufficiente timore ai paesi vicini e pensando che gli Stati Uniti non avrebbero voluto impegnarsi in una guerra che si sarebbe potuta trasformare in un nuovo Vietnam, Saddam attaccò.

A dispetto delle credenze del dittatore, non solo la coalizione fu rapidamente messa in piedi, ma ebbe un travolgente successo: dopo cinque settimane di bombardamenti, le forze di terra si trovarono di fronte un esercito quasi completamente distrutto; nel giro di 36 ore l’armistizio fu firmato. I morti della coalizione furono 658; gli iracheni uccisi, tra i 20 e i 30mila, molti dei quali caduti durante la tremenda ritirata, che ingorgò di mezzi l’unica via di fuga che, dal Kuwait, portava a Bassora, la prima città irachena dopo il confine.

Per capire come fu possibile arrivare al conflitto e quali furono le sue conseguenze, abbiamo rivolto alcune domande alla professoressa Daniela Melfa, che insegna storia contemporanea del Medio Oriente nel Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania. 

Quali furono le condizioni geopolitiche che permisero che si formasse una coalizione così eterogenea contro Saddam Hussein? In particolare, come fu possibile vedere nello stesso schieramento i campioni dell’occidente liberale e i campioni dell’islamismo conservatore, ossia gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita?

«La Prima Guerra del Golfo si inscrive innanzitutto in uno scenario geopolitico diverso rispetto a quello dei decenni precedenti. È crollato il Muro di Berlino e si è disgregata l’Unione Sovietica; il confronto tra Est e Ovest non costituisce più la cornice dei conflitti. La fase che ci interessa è quella della cosiddetta “Pax americana”, durante la quale gli Stati Uniti si trovarono a giocare in Medio Oriente un ruolo da protagonisti. Va ricordato che tra l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti vigeva già allora – e vige anche oggi – un rapporto consolidato, per via del petrolio.

Quando l’esercito iracheno invase il Kuwait, ammassò le sue forze lungo il confine con l’Arabia. Di fronte a quella minaccia, il re saudita Fahd chiese aiuto agli Stati Uniti. Fu un momento importante: con l’arrivo di truppe non musulmane sul territorio saudita, venne meno l’antico patto di protezione (firmato nel XVIII secolo) che legava la dinastia saudita al movimento wahhabita, che nel mondo musulmano rappresenta l’ala più puritana. In quell’occasione, anche Osama Bin Laden offrì la sua disponibilità a schierare, a difesa dell’Arabia, i combattenti jihadisti reduci dal conflitto in Afganistan contro i sovietici, durante il quale proprio Bin Laden aveva coordinato l’afflusso di combattenti. Il rifiuto da parte di re Fahd contribuì dunque direttamente alla radicalizzazione del jihadismo islamista.

A quel punto, una cosa sorprendente fu la riarticolazione del fronte: nella guerra contro l’Iran, l’Iraq era stato sostenuto dall’Arabia Saudita e dalle potenze occidentali, compresi gli Stati Uniti. Improvvisamente, in quell’occasione, diventò un nemico: i mass media cominciarono a paragonare la figura di Saddam a quella di Hitler; proprio lui che, invece, era stato raffigurato anni prima come il difensore del mondo arabo e dell’occidente, contro il dilagare del khomeinismo». 

A proposito di propaganda, sebbene ci furono molti morti tra i civili, quella fu la prima guerra a essere descritta come “intelligente”, giusto?

«La guerra non solo fu raffigurata come intelligente, ma quasi anche senza morti: durante la fase culminante di Desert Storm, furono ripresi soltanto i mezzi militari distrutti, non i cadaveri e nemmeno l’esercito affamato e male equipaggiato iracheno in ritirata; non si vedeva il sangue, insomma. Il motivo è che il giornalismo venne messo sotto stretto controllo da parte dagli Stati Uniti; ricordiamo che allora non esisteva nemmeno Al Jazeera (la TV satellitare panaraba, ndr). I giornalisti, dunque, non furono in grado di raccogliere informazioni in maniera autonoma». 

Quale fu l’impatto della guerra?

«La guerra non fu priva di conseguenze. L’Arabia Saudita uscì, come si diceva, meno legittimata nel contesto del mondo musulmano. All’inizio degli anni ’90, cominciò a manifestarsi, nel paese, un’opposizione interna (tra cui anche quella femminile). Poi, ci fu l’ascesa dell’Islam politico, che si verificò anche lontano dal teatro degli scontri. Nel 1991-92, per esempio, cominciò il decennio di sangue in Algeria: con il suo successo elettorale, il Fronte islamico di salvezza era riuscito, infatti, a capitalizzare lo scontento delle piazze, generato anche dalla partecipazione alla guerra a fianco della coalizione. Il punto è che i paesi arabi sostennero sì la coalizione; ma la popolazione restò contraria, provocando inevitabilmente delle tensioni.

Un’altra conseguenza fu una certa distensione nel conflitto tra Israele e Palestina, culminato negli Accordi di Oslo. Saddam Hussein aveva abbracciato, infatti, la causa palestinese, arrivando a mettere come posta in gioco della sua ritirata dal Kuwait proprio la liberazione della Palestina. I palestinesi entusiasti e l’Olp (l’Organizzazione per la liberazione della Palestina), dal canto loro, si erano schierati a fianco di Saddam Hussein. La sconfitta dell’Iraq corrispose a un momento di gravi difficoltà per l’Olp che accolse di buon grado la ripresa dei negoziati.

Inoltre, va detto che la Guerra del Golfo significò per gli occidentali un cambio di percezione: si cominciò a vedere il Medio Oriente sempre più come una minaccia e cominciò a diffondersi il discorso sul presunto “conflitto tra civiltà”; il pericolo, insomma, proveniva per l’occidente dall’Islam e dai dittatori mediorientali.

Non da ultimo, la guerra significò un ulteriore trauma per il Medio Oriente, ossia la rottura dell’unità araba: una guerra che schierava paesi arabi su fronti contrapposti dava il colpo di grazie all’ideale del panarabismo».

Se non ci fosse stata la Guerra nel Golfo, esisterebbero ancora le Torri gemelle?

«È legittimo chiederselo. Ma credo non si possa dare una risposta netta. L’intervento fu certamente percepito dalle società mediorientali come un’ingerenza e ciò contribuì alla demonizzazione dell’occidente, elemento fondante dell’islamismo radicale. Non si può però ricondurre tutto alla Guerra del Golfo: l’islamismo nacque prima. Basta pensare a quel momento culmine che fu la rivoluzione iraniana; così come determinante fu la Guerra in Afganistan contro l’URSS: fu in quel momento che si diffuse l’idea che il jihad (letteralmente “sforzo”) fosse un dovere per ogni credente, chiamato a sostenere la causa musulmana, al di là dei confini nazionali, anche con le armi. La Guerra del Golfo fu senza dubbio un evento importante, ma confermò le tendenze di un quadro storico ben più ampio».

Il Piccolo di Cremona, 16 gennaio 2021

«Così nasce una lingua», l’intervista a Giovanna Frosini su come Dante inventò l’italiano

Nel 1321 Dante Alighieri moriva, esule, a Ravenna. A 700 anni da allora, le commemorazioni possono trasformarsi da d’occasione in occasione: l’occasione per capire se o perché Dante resta irrinunciabile per la nostra cultura. Cominciamo, allora, con una domanda cruciale: quanto deve a Dante la lingua che parliamo tutti i giorni? Lo abbiamo chiesto a Giovanna Frosini, ordinaria di Storia della lingua italiana presso l’Università per Stranieri di Siena e accademica della Crusca.  

Perché, come diceva Bruno Migliorini, possiamo dire senza retorica che Dante è il padre della lingua italiana?

Si potrebbe citare insieme a Bruno Migliorini anche un altro grande studioso della lingua e della letteratura italiana, in particolare di quella antica, Ignazio Baldelli. Da una parte, Migliorini – autore nel 1960 della prima grande storia della lingua italiana – diceva che non si potrà mai sopravvalutare l’importanza di Dante; qualunque cosa si dica di Dante, sarà sempre davanti a noi, ci precederà sempre. Questo vale non solo a livello linguistico, ma anche a livello dei contenuti; ed era altresì l’opinione di grandi critici e studiosi, come Gianfranco Contini e Vittorio Sermonti. Dal canto suo, Baldelli, per una lezione che tenne negli anni ’90 all’Accademia della Crusca, usò un titolo bifronte: “Dante e la lingua italiana”; dicendo subito, in apertura, che si sarebbe potuto intitolarla anche così: “Dante è la lingua italiana”. Dal punto di vista storico, la qualifica che, anche nel sentire comune si dà a Dante, di padre della lingua, è vera, motivata e fondata.

Dante fa compiere a quello che noi, oggi, chiamiamo italiano – e che allora era la sua lingua, il volgare della sua città – un balzo prodigioso e inaspettato. Quando pensiamo al rapporto tra Dante e il volgare, infatti, pensiamo inevitabilmente, e subito, alla Commedia. Ma dovremmo pesare anche alle sue altre opere in volgare: “La Vita nuova”, per esempio, o quell’opera straordinaria che è il “Convivio”; oppure ancora, alle “Rime”. Ebbene: anche sulla base di questa sua precedente produzione in volgare, nulla poteva fare presagire l’irruzione della Commedia nel panorama della lingua di allora. Grazie all’opera di Dante, la lingua volgare di una città – pure importante e non qualunque come Firenze – diventava una lingua enciclopedica, una lingua capace di dire tutto, di esprimere tutto.

Prima di Dante esistevano sì produzioni letterarie in volgare: penso ai poeti della cosiddetta scuola siciliana, promossa da Federico II e da Manfredi; ma anche alle produzioni volgari nell’area emiliano – romagnola, a Bologna, soprattutto; nell’area veneta; e, naturalmente, a Firenze dove, prima di Dante, grande poeta volgare fu Guido Cavalcanti. Nulla di paragonabile, però, alla Commedia; in quell’opera, Dante compie una scelta completamente rivoluzionaria: fa abbracciare alla sua opera temi, contenuti, personaggi e argomenti di ogni tipo. E non in latino, ma in volgare. È una scelta coraggiosissima: tutta la cultura più alta, al tempo di Dante, non solo usava il latino, ma pensava in latino, dai dotti dell’università ai trattatisti. Il contesto della cultura nel quale si muoveva era, di fatto, un contesto in lingua latina. Dante sceglie invece in volgare; proprio lui, che pure sarebbe stato in grado di scrivere un poema in latino. È una scelta che ha cambiato la storia della lingua. Credo non sia azzardato dire che noi scriviamo, ma anche che parliamo la nostra lingua grazie a quel libro; la nostra lingua è la lingua di quel libro. Come sottolineava Baldelli, noi italiani abbiamo dunque la fortuna che la nostra lingua sia quella di una grande opera di poesia.

Si possono fare, a questo punto, delle osservazioni di due tipi, quantitative e qualitative.

Tullio De Mauro – che oltre a essere stato un grande linguista è stato anche un grande studioso dell’italiano antico – ha sottolineato più volte, anche in studi recenti, l’importanza del cuore antico dell’italiano, un cuore che costituisce il presente e il futuro della nostra lingua. Ebbene, nel suo autorevole ruolo di lessicografo, De Mauro dimostrò che ben l’80% delle parole fondamentali dell’italiano – ossia quelle circa 2.000 parole che sono indispensabili per esprimersi in italiano nella comunicazione quotidiana – si era già formato tra Duecento e Trecento. Non solo: il 15% del nostro lessico contemporaneo nacque o, comunque, venne messo in circolazione con la Commedia. Le parole della Commedia hanno avuto un altissimo tasso di sopravvivenza: otto parole su dieci continuano ad esistere. Nelle altre lingue non è accaduto nulla di simile; si veda al rapporto tra il francese o l’inglese antico e le loro varianti moderne. E poi, basta fare una semplice riprova: cominciate a leggere la Commedia, anche a partire dalla prime righe; vi accorgerete che prima di trovare una parola che non adoperiamo più, bisogna andare un po’ avanti nella lettura.

L’altra considerazione, di natura qualitativa, va fatta interrogandosi sul tipo di parole usate da Dante. Più precisamente: con quale frequenza usiamo le parole che Dante usa nella Commedia all’interno della nostra comunicazione quotidiana? La risposta è che accade molto spesso; e, altrettanto spesso, senza sapere che fu proprio Dante a metterle in circolazione. Certo, esistono i cosiddetti neologismi danteschi, parole forgiate da Dante in prima persona. E questo ci potrebbe portare a pensare che Dante abbia coniato solo parole difficili; penso a parole come plenilunio, tetragono, antelucano, parole un po’ complesse, di cui è ricca soprattutto la Cantica del Paradiso, in cui il linguaggio è chiamato a compiere uno sforzo straordinario, mai fatto prima, per descrivere realtà filosofiche e teologiche di grande impegno. Però, ci sono anche parole come ascoltare, imparare, succedere e facile che entrano nel lessico italiano proprio grazie a Dante. Anche la parola disegnare, nel senso di fare un disegno, già usata nella “Vita Nuova”, la dobbiamo a lui. Io chiamo tutto questo “la funzione Dante”, cioè la capacità che lo portò a creare buona parte del nostro lessico quotidiano; mai nessuno è stato capace di eguagliarlo.

Quindi dobbiamo a Dante perfino la parola facile?

Certo: la forma più consueta con cui si esprimeva il concetto, nel Duecento, era la forma agevole, che pure ha avuto una lunga sopravvivenza, per esempio nel toscano popolare. Facile, che ovviamente è una parola tratta dal latino (facilis), viene messa in circolazione invece proprio da Dante. Del resto, ciò che più conta per la sopravvivenza di una parola è proprio la sua circolazione. Un altro esempio, per dire quanto Dante abbia agito in profondità: è il caso della parola bolgia. Quando noi pensiamo alla parola bolgia, ci viene in mente proprio Dante. Be’, non è una cosa scontata. Bolgia è una parola che esisteva prima di Dante: era una borsa, diciamo, un sacchetto che i mercati attaccavano alla cintura della veste (ci sono diversi affreschi trecenteschi dove si può vedere questo dettaglio del vestire medievale). Ecco, Dante – aggiungendo un prefisso – conferisce alla parola un significato traslato. Le Bolge, infatti, diventano gli avvallamenti dell’Inferno, le cosiddette Malebolge. Poi, naturalmente, il significato della parola ha conosciuto un ulteriore slittamento. Per noi, bolgia vuol dire assembramento, confusione. Questa vicenda testimonia l’impulso che Dante ha dato alla vita di questa parola, la quale è arrivato a noi e, strada facendo, ha assunto un significato specifico.

È senz’altro un aspetto molto affascinante, quello del Dante onomaturgo: può fare qualche altro esempio?

Sì, è vero: la figura di Dante come forgiatore e fabbro della lingua è veramente affascinante. Ci sono parole molto colte e dotte, per esempio, in apertura del Paradiso, trasumanare, cioè superare i limiti della condizione umana, proprio come Dante stava sperimentando in quel momento. C’è, poi, una serie di composizioni. Faccio due esempi, a partire dello stesso meccanismo, che ora descrivo: si parte da un sostantivo, si fa un verbo e, eventualmente, ci si aggiunge un prefisso. Questo meccanismo è lo stesso che usiamo anche noi oggi: cliccare deriva dal sostantivo (onomatopeico) clic, chattare dal sostantivo chat, e così via. È uno di quei meccanismi che nella nostra lingua funzionano nella formazione delle parole, aldilà del tempo. Nell’Inferno, quando si parla dei diavoli che prendono coi loro uncini i barattieri, Dante adopera una serie di verbi, il più strepitoso dei quali è forse arruncigliare, che viene da runciglio, ossia uncino. Il bello di parole come queste è che sintetizzano, in una sola formazione verbale, il senso di un’immagine. Questa è la forza del poeta, che sa concentrare nelle parole un intero concetto e un’intera immagine.

Un altro esempio. Quando Dante parla dei giganti, nel fondo dell’Inferno, li paragona alle torri di Monteriggioni, la cui cerchia di mura si vede molto bene ancora oggi: “Monteriggion di torri si corona”, scrive. Ecco, effettivamente quella cerchia, dalla quale a intervalli regolari si alzano delle torri, equivale proprio al profilo delle corone dei re e degli imperatori. Bene: con un solo verbo, ancora una volta, Dante sintetizza un’intera immagine. Nel XIV Canto del Purgatrio, invece, un’anima dice a un’altra: “Se ben lo ‘ntendimento tuo accarno con lo ‘ntelletto”. Accarno, cioè capisco fino in fondo e, perciò, rendo concreto il mio pensiero. Una composizione notevole; dalla parola carne, si costruisce un verbo che riesce a dare consistenza a un pensiero.

Un altro aspetto affascinante di quella lingua, inoltre, è l’attenzione con cui Dante ha guardato agli altri volgari italiani e alle altre lingue. Si tende a dimenticare, infatti, che la Commedia, almeno dalle testimonianze, non è stata scritta a Firenze. (In realtà, c’è chi pensa che qualcosa fosse già stato scritto a Firenze, ma è opinione maggioritaria che l’opera sia stata composta interamente durante l’esilio, dunque negli ultimi quindici anni della vita di Dante.) Quando scrisse l’opera, Dante non era più a contatto diretto con la lingua di Firenze, ma con gli altri volgari dell’Italia centro-settentrionale: quelli del Veneto, della Romagna, del Casentino e della Lunigiana. Che Dante avesse una spiccata sensibilità per gli altri volgari, del resto, lo dimostra il fatto che abbia scritto quell’opera geniale che è il “De Vulgari Eloquentia”, che rappresenta il primo libro di dialettologia, di storia della lingua e di linguistica generale insieme.

Per questa ragione – quella dell’essere stato a contatto con altri volgari – ci sono forme e parole in Dante che non sono fiorentine. Scrive, per esempio, “L’Arzanà de’ Viniziani” [l’Arsenale di Venezia]: Arzanà è naturalmente una parola settentrionale. Oppure compie delle vere e proprie operazioni di mimesi; quando incontra Bonagiunta, che è di Lucca, gli fa dire: “O frate, issa vegg’io”. Bene, issa è una parola lucchese. Dante usa quindi questo gioco di specchi con una chiara finalità espressiva, per descrivere meglio i personaggi.  Quando invece il conte Ugolino parla del Vescovo Ruggieri e dice “Questi pareva a me maestro e donno”, la parola donno – che viene dalla parola latina dominus – era una parola usata per indicare le autorità della Sardegna. Il motivo è questo: la famiglia di Ugolino, una ricca famiglia di possidenti, I della Gerardesca, aveva dei possessi anche in Sardegna. Questi echi sottili fanno capire quanto Dante fosse attentissimo al particolare; e che questa attenzione veniva adattata a seconda del personaggio.

Ci sono poi casi, per così dire, estremi. Quando Dante incontra Cacciaguida – incontro al quale vuole dare un rilievo di grande autorità e prestigio – c’è uno scambio di battute in latino: serve a dare la massima solennità al colloquio col suo antenato. Alla fine del Purgatorio, poi, viene presentato un grande poeta provenzale, Arnaut Daniel; ecco, alcune terzine che lo riguardano sono scritte, per intero, in provenzale. Come ha fatto Dante a scriverle? Semplice: ha operato una composizione delle poesie di Daniel che conosceva. La stessa operazione, Dante la fa quando parla Francesca, che per esprimersi usa il lessico tipico di Guinizzelli e dei poeti stilnovisti.

Può parlare della forza poetica dell’opera?

Il poeta, come si sa, lavora con le parole. Non è scultore, né architetto, né disegnatore – anche se sono convinta che Dante praticasse anche il disegno, come sembra suggerirci nella “Vita Nuova”. Bene, Dante traduce i concetti e le immagini in parole concrete, reali, che vivono anche di fronte ai nostri occhi: è il “Dante della realtà” di cui parlavano grandi critici come Contini e Auerbach. “La bocca mi basciò tutto tremante” non è un verso dei romanzi francesi cavallereschi: è un verso vivo, vero, in cui generazioni si possono riconoscere. Questo Dante riesce a farlo, dando anima, sangue e nervi alla lingua. Una lingua a cui conferisce una straordinaria capacità creativa: questo è ciò che lo contraddistingue. Una lingua che è lui stesso a forgiare. Siamo, in fondo, alle origini della nostra storia: alla prima grande opera nella storia della nostra lingua, della nostra cultura e – si potrebbe dire – della nostra identità. Ernesto Giacomo Parodi diceva che la lingua italiana, al tempo di Dante, era una lingua bambina; e che fu Dante ad averla fatta crescere in maniera così rapida e straordinaria.

Dante, del resto, non smette mai di conferire la forza della realtà alla sua opera e porta la realtà della storia ovunque, anche nel Paradiso: da Piccarda, alle invettive contro la corruzione della Chiesa, al proprio desiderio – che si porta fino al culmine del Paradiso – di tornare a Firenze. E come lo descrive! Si continua a descrivere come un agnello innocente in mezzo ai lupi (siamo all’inizio del Canto XXV del Paradiso). E aggiunge anche che spera di essere riaccolto come poeta, dicendoci, in questo, molto di sé stesso e della sua vita.

È vero che, di fatto, condividiamo con la Commedia la gran parte della nostra grammatica?

Sì, nel senso che le strutture grammaticali, fonetiche e morfologiche dell’italiano sono fondamentalmente le strutture della lingua di Dante. Ci sono stati dei cambiamenti, certo: tutte le lingue vive cambiano ed è sintomo della loro vitalità. Dante, peraltro, che visse tra la seconda metà del Duecento e il Trecento, ci fa sentire che la lingua di Firenze è una lingua in movimento. Per una stessa parola, usa infatti differente varianti; ad esempio: fuoro, furono, furo. Oppure scrive enno (forma non fiorentina) invece di sono, che ha potuto sentire durante l’esilio e che decide di registrare. La Commedia è quindi una specie di microcosmo, che ci fa vedere già dal suo interno l’evoluzione di una lingua. Accade, per esempio, con le desinenze verbali: invece di vediamo, capita di leggere vedemo, una forma più antica del fiorentino, che evidentemente Dante aveva imparato da ragazzo. Tutto questo indica una sensibilità linguistica straordinaria: del resto, già nel “De vulgari eloquentia” Dante enumera ben quattordici regioni linguistiche nella Penisola (in alcuni casi senza nemmeno aver avuto un contatto diretto).

Sebbene proprio nel “De vulgari eloquentia” dica male del fiorentino.

Sì, anche se è una questione molto complicata: il “De vulgari eloquentia” è un’opera radicalmente diversa dalla Commedia; lo scopo è molto diverso. Innanzitutto, è un trattato: è scritto in latino e, quindi, è destinato a un pubblico di dotti. Una delle interpretazioni che è stata data ultimamente da un importante studioso, Mirko Tavoni, è che Dante l’abbia scritto pensando ai dotti dell’Università di Bologna. In quell’opera, Dante va alla ricerca di un ideale di lingua letteraria che, in quanto tale, non si può identificare con nessun volgare. Nella Commedia, invece, Dante ha bisogno di una lingua vera, che gli permetta la descrizione dell’universo. Baldelli diceva che se si considerano gli aspetti grammaticali, la Commedia è l’opera più fiorentina di Dante, un’opera in cui si assiste a un recupero della lingua della sua città, proprio a partire dalle strutture grammaticali tipiche del fiorentino. Nella Commedia, c’è la volontà di recuperare la lingua materna. Una lingua che – come dicevo – diventa capace di dire tutto; anche perché chi l’adopera è Dante, naturalmente.

Cosa pensa dell’insegnamento scolastico di Dante?

Bisognerebbe riflettere a lungo sul modo in cui Dante viene insegnato. Dalla mia esperienza di insegnante delle scuole superiori, prima, e universitaria, dopo, posso dire una cosa: Dante riesce sempre a colpire i ragazzi e gli studenti. Da una parte, ho un po’ l’idea che si esageri con il commento a Dante, con la sovrabbondanza di note; in certe fasce d’età non credo sia nemmeno necessario capire tutto (e sfido a farlo). Credo che sia invece necessario capire quello che basta per poterlo apprezzare. Poi, credo che non si insegni abbastanza Dante con attenzione alla sua lingua. Questo è un grande limite dell’insegnamento scolastico. Se si fa leva sul valore della lingua di Dante, si arriva al valore della poesia di Dante.

Domenico De Robertis diceva che si può usare la lingua per insegnare Dante e si può usare Dante per insegnare la lingua. Questo nodo dovrebbe essere al centro dell’insegnamento. Ho sempre riscontrato che se si richiama l’attenzione sulla lingua, su come Dante sceglie le parole e costruisce le immagini, il valore della bellezza e della poesia poi scaturisce tutto insieme. Nel V Canto dell’Inferno, quando Francesca dice “Noi che tignemmo il mondo di sanguigno”, bisognerebbe fare presente ai ragazzi questo: qui Dante prende due parole tecniche del suo tempo: tingere era il verbo dei tintori – Firenze, all’epoca, era una città piena di tintori – ed evocava un procedimento molto reale e concreto; sanguigno, invece, era un colore ben preciso. Come dicevamo, Dante costruisce immagini di rara bellezza, ma sempre con parole reali e concrete.

Un altro esempio, illuminante: nel Paradiso, Cacciaguida dice a Dante: “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui”. Bene: è sicuramente vero che tutto questo rimanda a un significato metaforico, in particolare all’amarezza dell’esilio. Però, bisogna ricordare che a dirlo è un fiorentino che va in esilio nel nord Italia: e a Firenze il pane si fa senza sale; nel resto d’Italia – e soprattutto nel nord d’Italia – il pane invece lo si fa col sale. Da questa idea concreta, Dante riesce a fare scaturire un immagine e un concetto. Come ho potuto constatare, Dante è peraltro il primo a mettere insieme questi termini: quasi fosse un chimico, mette infatti a reagire le due parole e ne crea un’immagine. E posso assicurare che nessuno aveva mai usato quest’immagine, prima di Dante. Il suo valore profondo è certo anche un valore traslato: l’amarezza e la solitudine dell’esilio. Ma da dove viene quell’immagine? Ancora una volta, dalla realtà: da un uomo che è in esilio e che è costretto a mendicare un pane che è diverso da quello della sua terra; un pane diverso perché è più salato e, dunque, più amaro. Questo vuol dire creare una lingua: prenderne gli elementi, comporli, tenendo sempre i piedi nella realtà.

Federico Pani

(Una versione ridotta dell’intervista è stata pubblicata su: Il Piccolo di Cremona, 9 gennaio 2021)

Mastroianni, l’antidivo in fuga dal proprio mito, l’intervista ad Alberto Scadola

19/12/1996 • Moriva 24 anni fa a Parigi uno dei più grandi attori italiani. L’analisi del professor Alberto Scandola

In piazza di Trevi, a Roma, ci sono almeno due monumenti eterni. Uno, in tempi normali, non lo si vede subito nemmeno quando ce lo si trova di fronte, abbracciato com’è, sempre, da una folta e variopinta siepe di turisti. È, naturalmente, l’omonima fontana, settecentesco capolavoro barocco di Nicola Salvi. L’altro monumento invece, lo si vede ben prima di arrivare di fronte alla fontana perché, in fondo, lo conosciamo tutti, da sempre: sono Anita Ekberg e Marcello Mastroianni, immersi fino alle caviglie in quella vasca, abbracciati, con le labbra che quasi si sfiorano. Oggi ricorre l’anniversario della morte del celebre protagonista della “Dolce vita”, scomparso a Parigi nel 1996. Vale sempre certamente la pena di ricordarselo là, in quella Roma di inizio anni ’60, la Roma di Fellini e di via Veneto. Così come vale la pena riscoprire anche il lato più sfumato e umbratile di un attore che fu l’emblema della bellezza e della solarità italiane.

Ne parliamo con Alberto Scandola, saggista e professore dell’Università di Verona, dove insegna Storia e critica del cinema.

Che tipo di divo è stato Marcello Mastroianni per il cinema italiano?

«La questione ci porta a parlare del concetto di divo nel cinema italiano, un concetto fragile e ambiguo. Questo perché non possiamo parlare di un vero star system paragonabile a quello americano. Anzi, sempre più studi accademici dimostrano come da noi prevalga la nozione di antidivo. Mi spiego: nell’ambiente culturale del cinema italiano, gli attori più popolari si vantano di fuggire dalle luci dei paparazzi ed essere impegnati nel lavoro sui personaggi. Questo lo fanno dei contemporanei come Pierfrancesco Favino, Elio Germano e Jasmine Trinca, solo per fare qualche esempio. È un atteggiamento antico, che risale al neorealismo. Mastroianni fu uno dei massimi esempi di questa attitudine, che mostrò sempre nei confronti dei suoi fan e dei i suoi ammiratori. Fu consacrato da Fellini come latin lover nella “Dolce Vita” (1960) e in “8½” (1963), ma lavorò poi sempre anche contro questo stereotipo, per esempio interpretando la parte dell’impotente nel film “Il b e l l ’ A n t o n i o ” (1961) di Mauro Bolognini. Fu insomma una star, ammirata a livello planetario, ma che visse il ruolo dell’uomo bellissimo e seducente sempre in modo un po’ sornione, come se si fosse trovato a farlo un po’ per caso e senza mai recitare, come persona, il mito che incarnava».

Non ha l’impressione che Mastroianni abbia resistito meno alla prova del tempo, se paragonato a maschere come quella di Alberto Sordi o di Totò?

«Non sono d’accordo. Innanzitutto, Mastroianni non ha mai cercato di diventare una maschera. Rispetto a Totò (che non mi sembra in fondo così più popolare di Mastroianni), si tratta di due prototipi attoriali completamente diversi. Inoltre, nutro anche dei dubbi sul fatto che abbia saputo resistere meno alla prova del tempo: di recente, è uscito un libro della studiosa americana Jacqueline Reich dedicato all’attore, “Beyond the Latin Lover”, dove si parla della fama del Mastroianni postumo, tornata di moda grazie all’iconica figura dell’attore in occhiali da sole nei film di Fellini. Direi questo: se Mastroianni, forse, non è più di moda come attore, resta simbolo dell’italian style, dell’italianità».

Si può pensare a Mastroianni senza Fellini?

«Il rapporto tra Fellini e Mastroianni è simile a quello nato in altre grandi coppie, altrettanto famose, di attori e registi: penso a Jean-Luc Godard e Anna Karina, a Michelangelo Antonioni e Monica Vitti, a François Truffaut e Jean-Pierre Léaud. Esiste Jean-Pierre Léaud senza Truffaut? Certo che esiste. Mastroianni, anzi, è riuscito a smarcarsi da Fellini più di quanto non sia riuscito a fare Léaud con Truffaut. In particolare, nel lavoro del regista Marco Ferreri, Mastroianni è riuscito a distruggere l’impalcatura dell’immaginario di maschio seducente, pettinato ed elegante costruita da Fellini (che voleva vedersi proprio così). Mastroianni resiste benissimo infatti anche senza i due celeberrimi film di Fellini, che vanno al di là dell’attore: sono due capolavori del cinema italiano in assoluto. In “8½” c’è sicuramente davvero più Fellini, mentre nella “Dolce vita” la forza del protagonista si avvicina a quella del regista. Mastroianni è grande, però, anche in molti altri film. Prendiamo “La grande abbuffata” (1973) di Ferreri: quel film è l’apice del percorso di destrutturazione dell’ideologia e del mito del superuomo maschile; nega in tutto, infatti, il personaggio felliniano di Marcello. A proposito, una piccola curiosità: nel film, Mastroianni è il primo a morire, ma succede solo per ragioni del tutto pratiche; raccontò Michel Piccoli (uno degli altri protagonisti della pellicola) che, per impegni personali, dovette lasciare il set per raggiungere la sua compagna di allora, Catherine Deneuve».

Di Mastroianni è stato detto di tutto e il suo contrario: pigro e gran lavoratore, gentile e sornione, grande amatore e sposato, icona del maschio italiano e, come diceva lo stesso Fellini, molto femminile. Come teniamo insieme queste cose?

«Le teniamo molto semplicemente insieme perché le abbiamo già viste in un altro campione del cinema, Marlon Brando. Di lui è stata detta la stessa cosa. L’uso delle mani in “Fronte del porto” (1954) e in “Ultimo tango a Parigi” (1972), voglio dire, il modo in cui tocca gli oggetti e i corpi denota una grazia decisamente femminile. Faccio vedere spesso a lezione una scena molto simbolica di “Fronte del porto” nella quale Brando raccoglie un guanto femminile e lo indossa. Tutti i grandi personaggi maschili, del resto, hanno giocato con il loro lato femminile. Mastroianni non fa eccezione: nel film “Niente di grave, suo marito è incinto” (1973) l’attore recita proprio la parte dell’uomo “incinto” (come capitò di fare anche a Gérard Depardieu). Questo aspetto denota sicurezza, duttilità e anche voglia di sperimentare».

Ci può segnalare due film con Mastroianni: uno da riscoprire e uno invece, a suo giudizio, un po’ sopravvalutato?

«Da riscoprire citerei un altro film di Ferreri, “Ciao Maschio” (1978), che però è irreperibile sia in dvd sia sulle piattaforme. Mastroianni qui interpreta splendidamente il ruolo di un uomo invecchiato, dentro un corpo deperito più di quanto non fosse il suo nella vita reale. Film da dimenticare? Beh, più che da dimenticare, direi che “Le notte bianche” (1957) di Luchino Visconti è un film che non ha superato bene gli anni e si potrebbe trascurare. Mi sembra che, in quel caso, l’interpretazione di Mastroianni non sia particolarmente autentica. Anche se, va detto, proprio con Visconti esordì l’attore, nell’allestimento della commedia “Un tram chiamato desiderio”. In generale, il Mastroianni degli anni ’50 non è molto considerato, almeno fino alla sua partecipazione al film “I soliti ignoti” (1958). “Il Mastroianni degli anni ‘50”, ecco: diciamo che potrebbe essere questo il titolo per un buon progetto di ricerca di uno studente, visto che la filmografia di Mastroianni che precede la “Dolce vita” è particolarmente trascurata».

Il Piccolo di Cremona, 19 dicembre 2020

L’impresa di Magellano che unì due oceani

28/11/1520 • Oggi 500° anniversario di un’avventura lunga tre anni raccontata dall’italiano Antonio Pigafetta, che fu tra i pochi sopravvissuti

“Mercore a 28 de novembre 1520 ne disbucassemo da questo stretto s’ingolfandone [nel] mar Pacifico”. Con queste parole, Antonio Pigafetta descrive l’inizio del viaggio nel “mare” Pacifico, una delle tappe che lo avrebbero condotto al primo giro intorno al globo compiuto dall’umanità. Ma a smorzare quest’atmosfera da sogno, fatta di vento e salsedine, è lo stesso Pigafetta: “Stessemo tre mesi e venti giorni senza pigliare refrigerio di sorta alcuna. Mangiavamo biscotto, non più biscotto, ma polvere de quello con vermi a pugnate, perché essi avevano mangiato il buono: puzzava grandemente de orina de sorci, e bevevamo acqua gialla già putrefatta per molti giorni, e mangiavamo certe pelle de bove (…) durissime per il sole, pioggia e vento”.

La vita in mare doveva essere qualcosa di spaventosamente difficile, allora. Ma ciò non aveva dissuaso il vicentino Antonio Pigafetta dall’imbarcarsi in quel viaggio. Era partito dal porto fluviale di Siviglia il 10 agosto del 1519 in qualità di aiutante di bordo del capitano portoghese Ferdinando Magellano. Ma cosa ci facevano un portoghese e un italiano a bordo di una flotta di cinque navi battenti bandiera spagnola?
Ferdinando Magellano era un nobile portoghese, datosi alla carriera marittima per cercare gloria e ricchezze, cresciuto nel mito delle imprese di Vasco de Gama, l’ammiraglio che, per primo, aveva raggiunto l’India (1497-98), doppiando il Capo di Buona Speranza. Enormi ricchezze attendevano chi si fosse spinto in quegli angoli remoti del mondo, dove i portoghesi già cominciavano a disseminare i loro empori commerciali. Reduce di molti viaggi (uno dei quali perfino in Malesia), dopo un’impresa militare condotta in Marocco (la presa di Azemmour), Magellano era però caduto in disgrazia: accusato di furto, era stato allontanato dalla corte lusitana.

Antonio Pigafetta era invece un nobile vicentino, finito nella Spagna del tempo al seguito di una delegazione pontificia. Cavaliere dell’Ordine di Rodi, doveva forse a questo la propria esperienza navale. A bordo della flotta di Magellano vi finì un po’ per caso: era stata una soluzione di compromesso tra la richiesta del capitano di poter essere affiancato da un aiutante di campo portoghese e il rifiuto da parte degli spagnoli.

Magellano si era presentato alla corte di Carlo re di Spagna con una proposta straordinaria ma non certo originale: raggiungere le Indie passando da ovest. “Buscar el Levante por el Poniente” (raggiungere l’Oriente passando per l’Occidente), proprio come si era messo in testa di fare un altro capitano, genovese, nemmeno trent’anni prima. Ma dai tempi di Cristoforo Colombo, di mezzo ci si erano messi un continente intero e un nuovo mare. Le promesse di Magellano rasentavano l’incredibile: impadronirsi delle Molucche, isole di favolosa ricchezza assegnate al Portogallo. In che modo? Dimostrando che le isole si trovavano nella parte di mondo spettante alla Spagna, secondo gli accordi internazionali stipulati qualche anno prima.

Ma qual era la ricchezza tanto promessa? Non oro, né argento, bensì spezie: pepe, chiodi di garofano, noce moscata.

Per noi contemporanei resta inspiegabile il fatto che si intraprendessero viaggi così pericolosi per beni dei quali, spesso e volentieri, oggi facciamo benissimo a meno. Come ha spiegato Alessandro Barbero: “La civiltà tardo medievale era una civiltà senza tè, caffè, tabacco, liquori: le spezie erano l’unica cosa che potevano dare un sapore piccante alla vita. Poter accompagnare i cibi con le spezie (usate peraltro anche nella medicina e nel settore tessile come coloranti) conferiva immediatamente un rango più elevato. E, del resto, se si guarda il peso al chilo, anche oggi valgono più dell’oro. Una sola nave carica di spezie poteva fare la fortuna di un’intera compagnia commerciale”.

Nonostante ciò, l’impresa di Magellano rasentava l’incoscienza. Il continente americano era stato esplorato solo in minima parte (il conquistador Hernán Cortés era partito alla volta del Messico, giusto pochi mesi prima di Magellano). Si sapeva che il continente proseguiva verso sud, ma non c’era prova che i due mari fossero tra loro comunicanti. Il navigatore italiano Amerigo Vespucci, che battezzò il continente con il suo nome e pubblicò nel 1503 la migliore carta in circolazione del Nuovo Mondo, aveva raggiunto i confini settentrionali dell’attuale Argentina, senza però essersi spinto oltre.

Il viaggio di Magellano trovò le prime difficoltà dopo pochi mesi. Oltre le coste del Brasile, nessuno sapeva cosa aspettarsi. Ogni insenatura poteva rivelarsi l’agognato passaggio verso l’oriente. Fu così per il Río de la Plata e infinite altre foci di fiumi, scambiati per stretti. La frustrazione degli equipaggi culminò in un ammutinamento, sedato a fatica da Magellano, che abbandonò il capitano in seconda, Juan de Cartagena, sulle rive della Patagonia, come esempio per tutta la ciurma. Le cose, tuttavia, peggiorarono ancora: una nave fu persa durante l’esplorazione della costa; un’altra, col favore della notte, girò le vele e se tornò in Spagna.

Poi, arrivò la svolta: un golfo nel quale si apriva un’insenatura, un’altra ancora e così via. E l’acqua continuava a essere salata. Magellano imboccò con decisione quello stretto, che prese poi il suo nome, e che lo condusse quel 28 novembre di 500 anni fa ad avvistare il “mare” Pacifico. Le difficoltà non finirono. Davanti alle navi si aprì la distesa immensa e interminabile dell’Oceano. Sinistre malattie avanzavano nell’equipaggio, facendone strage: “Crescevano le gengive ad alcuni sopra li denti così de sotto come de sovra, che per modo alcuno non potevano mangiare, e così morivano dieci per questa infermità”.

Passavano le settimane e nulla accadeva, mentre le provviste e l’equipaggio si assottigliavano inesorabilmente. Scrive Pigafetta: “In questi tre mesi e venti giorni andassemo circa de quattro mila leghe per questo mar Pacifico (in vero è bene pacifico, perché in questo tempo non avessimo fortuna) senza vedere terra alcuna, se non due isolotte disabitate. (…) E se Iddio e la sua Madre benedetta non ne dava così buon tempo, morivamo tutti de fame in questo mare grandissimo”.

Finalmente, la flotta raggiunse le isole dell’Indo pacifico, approdando nelle attuali Filippine. Magellano aveva raggiunto il suo primo obiettivo. Cominciò allora a elaborare il suo piano di conquista, cercando di convertire a forza i nativi e stringendo alleanze con alcuni regni locali. L’intrusione non piacque a molti di quei sovrani, che si organizzarono per sbarazzarsi degli intrusi. Nella battaglia di Mactan, centinaia di locali si avventarono sulle poche decine di europei. La resistenza fu disperata e lo stesso Magellano cadde. Così Pigafetta: “Uno Indio li lanciò una lanza de canna nel viso. Lui subito con la sua lancia lo ammazzò e lasciagliela nel corpo; volendo dar di mano alla spada, non poté cavarla, se non mezza per una ferita de canna [che] aveva nel brazzo. Quando visteno questo tutti andarono addosso a lui: uno con un gran terciado (che è como una scimitarra, ma più grosso), li dette una ferita nella gamba sinistra, per la quale cascò col volto innanzi. Subito li furono addosso con lancie de ferro e de canna e con quelli sui terciadi, fin che lo specchio, il lume, el conforto e la vera guida nostra ammazzarono”.

Scossi dall’avvenimento, ma non piegati, i superstiti proseguirono fino alle Molucche, dove riuscirono a fare rifornimento di spezie. Delle tre navi rimaste, una fu abbandonata, perché l’equipaggio era ormai troppo ridotto per potersene occupare. Le due rimanenti si divisero e cominciarono a fare vela verso la Spagna. Le insidie, però, non erano finite: il re del Portogallo aveva ordinato alla sua flotta di intercettare le navi spagnole, essendo venuto a conoscenza del loro arrivo. Una delle due navi venne catturata. L’altra, la Victoria, guidata da Juan Sebastián Elcano raggiunse finalmente la Spagna: “Sabato, a sei de settembre 1522, intrassemo nella baia de San Lucar, se non disdotto uomini e la maggior parte infermi”. Diciotto sugli oltre duecentosessanta che erano partiti più di tre anni prima.

Il resoconto di quel viaggio, “Il primo viaggio intorno al globo”, venne scritto da Pigafetta solo qualche anno dopo e pubblicato postumo. Monumento eccezionale della letteratura marinara, nonostante l’italiano incerto e arcaico, vi coabitano la narrazione avventurosa ma sincera di quei giorni e preziose testimonianze sugli usi e costumi delle popolazioni incontrate, corredate perfino da piccoli vocabolari. È lui, Pigafetta, con il suo resoconto, in fondo, l’eroe di questa spedizione, per molti versi fallimentare: dimostrò che la via più sicura per le Indie restava quella passante dal Capo di Buona Speranza, ben rodata dai portoghesi; e che rompere il loro monopolio sarebbe stato eccezionalmente difficile (ci riuscirono gli olandesi, ma quasi cent’anni dopo). Resta però il fatto che quel viaggio fu epocale: rappresentò uno dei gradi passi che gli europei fecero nella modernità e che li destinarono alla conquista di buona parte del mondo.

Federico Pani

Il Piccolo di Cremona, 28 novembre 2020

Dal Bloody Sunday all’Irlanda post Brexit, l’intervista a Riccardo Michelucci

21/11/1920 • Cent’anni fa l’azione dell’Ira e la reazione inglese a Croke Park.

di Federico Pani

Il 21 novembre di 100 anni fa, a Dublino, si verificò uno degli eventi di maggior rilievo della guerra anglo-irlandese: la prima “domenica di sangue”. No, non si tratta della celebre “Bloody Sunday” cantata dagli U2, avvenuta a Darry, in Irlanda del Nord, poco meno di cinquant’anni dopo. Le due stragi, oltre al nome e all’efferatezza, condividono un altro aspetto fondamentale: le profonde radici storiche. Per dipanare la complicata matassa che le avvolge, abbiamo chiesto di farci da guida a Riccardo Michelucci che, giornalista, è in Italia uno dei maggiori esperti d’Irlanda.


La storia dell’Irlanda sembra consista in un continuo tentativo di dominazione da parte inglese, spesso riuscito: dal 1177, quando Enrico II nominò suo figlio signore dell’isola, fino l’Union Act del 1800, che ne decretò l’annessione all’Inghilterra. Il lungo processo d’indipendenza dell’Irlanda, svoltosi tra Otto e Novecento, trovò sempre molti ostacoli sul suo cammino.

«Alle tappe ricordate aggiungerei che all’inizio del ‘600 entrarono in Irlanda anche gli eserciti di Elisabetta I, seguiti tempo dopo da quelli di Oliver Cromwell, che misero a ferro e fuoco mezza isola. Soprattutto, però, va ricordato che negli stessi anni avvenne la cosiddetta “Plantation of Ireland”, la colonizzazione del nord da parte di coloni inglesi e scozzesi di fede presbiteriana e anglicana: un ponte che, nonostante i tre secoli, ci porta direttamente alla dolorosa divisione dell’isola del 1921. Costretta ad abbandonare l’Irlanda, l’Inghilterra riuscì tuttavia a mantenere un troncone della sua dominazione, creando una maggioranza artificiale protestante nel nord del paese. Nei primi anni del Novecento, il grande impero britannico era entrato infatti in una fase di decadenza inarrestabile e l’Irlanda fu la prima a cercare l’emancipazione. L’anno della svolta fu il 1916, quando si consumò la Rivolta di Pasqua: un episodio fallimentare, che innescò però una reazione a catena, sfociata nella guerra d’indipendenza, di cui la domenica di sangue è uno degli eventi più rappresentativi».


Arriviamo quindi a quel giorno, il 21 novembre 1920: da una parte, le forze dell’Ira (l’esercito repubblicano irlandese), guidate da Michael Collins; dall’altra, i gruppi militari inglesi. 

Fu una giornata luttuosa per Dublino. La mattina si svolse un’operazione coordinata da Michael Collins che portò all’uccisione di quindici uomini della famigerata “Cairo Gang” (Cairo era il nome del pub in cui erano soliti ritrovarsi), il cuore dell’intelligence e dello spionaggio britannico nella capitale irlandese. La rappresaglia inglese arrivò nel pomeriggio a Croke Park, il principale stadio dublinese di allora. L’esercito irruppe in armi durante una partita di football gaelico, cominciando a sparare sulla folla e sul campo; le vittime furono quattordici, tra cui due giocatori.

Più che la reazione inglese in sé – che va inserita in una logica di rappresaglie reciproche – ciò che colpisce di quei giorni drammatici è questo: mentre l’Ira cercava di colpire i gruppi militari e di polizia, il fronte inglese era rivolto a colpire perlopiù la popolazione civile. Del resto, questo metodo di repressione era stato adottato dai britannici soltanto un anno prima ad Amritsar, in India, quando l’esercito aveva sparato sulla folla, provocando quasi 400 morti.

Il culmine del conflitto anglo-irlandese fu raggiunto a dicembre con l’attacco dei mercenari britannici del “Black and tan” alla città di Cork. L’anno dopo, si giunse a un accordo, il “Govenrment of Ireland Act”, che sancì la divisione artificiale dell’Irlanda: sei delle nove contee del nord vennero staccate dall’unità insulare, con l’obiettivo di creare uno stato a maggioranza protestante (e settario), nonché un mostro geopolitico».


La soluzione di dividere in due l’Irlanda generò quindi un nuovo problema.

«E’ così. Del resto, la politica del “divide et impera” fu messa in atto dall’impero britannico anche altrove. Basti pensare ai confini tracciati in Medio Oriente, o al caso dell’India, dalla quale fu separato il Pakistan, generando caos e devastazione. L’Irlanda, tra l’altro, fu per gli inglesi il luogo dove sperimentare le forme di repressione del dissenso (controllo, violenze, torture), anche in epoca recente. È passata alla storia la Bloody Sunday, ma andrebbe ricordata anche la strage di Ballymurphy, avvenuta nello stesso anno e in piena notte, senza che nemmeno, come accadde a Derry, si stesse svolgendo una manifestazione non autorizzata per i diritti civili. I responsabili della strage, tra l’altro, appartenevano allo stesso battaglione della domenica di sangue, il 1° paracadutisti».


Superiamo i tragici eventi del 1972 e arriviamo all’accordo del 1998 con la cessazione delle ostilità. Brexit ora può riaprire il conflitto?

«Escludo la possibilità del ritorno di un conflitto aperto. Non ci sono più le condizioni internazionali per consentire uno scontro nel cuore dell’Europa. Lo sviluppo più plausibile, ancorché non immediato, è quello dell’unità. L’Accordo del Venerdì Santo del 1998 arrivò dopo un percorso quasi ventennale verso la pace, cominciato nel 1981 con la morte di Bobbie Sands (attivista politico e martire dell’unità irlandese, ndr), eletto simbolicamente al Parlamento di Westminster. Quello fu un momento decisivo, perché fu chiaro agli irlandesi che avrebbero potuto raggiungere i loro obbiettivi servendosi della scheda elettorale anziché delle armi.

Nonostante la Brexit, penso che si troverà una soluzione senza ledere il nervo scoperto dell’“ex border”. Del resto, parliamo di 500 chilometri che si snodano lungo corsi d’acqua e brughiera: un confine perlopiù evanescente e incontrollabile. I check point che lo controllavano non esistono più dagli anni ’90, smobilitati dopo il trattato di Maastricht e con la progressiva liberalizzazione dei movimenti delle persone e delle merci. Per quanto ci siano stati, in tempi anche recenti, episodi violenti legati alla nuova Ira, escludo il ritorno a forme di conflitto più dure.

Insomma: la divisione dell’isola, ormai, non ha più senso; un tempo, divideva una regione industrializzata da una rurale, una regione ricca (anche se connotata da feroci discriminazioni interne) da una contadina. Bene: ciò che era industriale ora non lo è quasi più, mentre la Repubblica d’Irlanda è ora, forse, la parte più ricca del paese. Per farsi un’idea, al tempo della riunificazione tedesca, esisteva un divario maggiore tra la Germania dell’Est e quella dell’Ovest. Gli unionisti del nord, che si sentono così visceralmente inglesi, non solo non vengono considerati tali da Londra ma costituiscono più un problema che altro. Certo, bisognerà pensare a un’unificazione che preveda una qualche autonomia locale, un po’ com’è avvenuto in Italia con i südtirolesi».


E’ notevole come un’isola così piccola e così a lungo sottoposta alla prepotenza di un paese vicino abbia saputo tenere salda la propria identità e la volontà d’indipendenza.

«C’è un adagio, in Irlanda, che mostra come questo popolo sia orgoglioso della propria cultura: gli inglesi li hanno colonizzati per secoli, è vero, ma gli irlandesi sostengono di aver a loro volta colonizzato gli inglesi attraverso la cultura. E in effetti, dopo Shakespeare, quasi tutti i grandi scrittori di lingua inglese sono stati irlandesi: Laurence Sterne, Bram Stoker, Oscar Wilde, James Joyce, e i Premi Nobel Samuel Beckett, William Butler Yeats, George Bernard Shaw e Seamus Heaney; ben quattro, in un paese che non conta nemmeno sei milioni di abitanti e che, eppure, è tanto ricco e vario nella sua storia e nella sua cultura».

Il Piccolo di Cremona, 21 novembre 2020

Come se la cavano i dialetti in Italia? L’intervista a Paolo D’Achille

Il dialetto è morto? Tutto il contrario. Da tempo, i dialetti non godevano di tanta salute: le serie tv come Gomorra, L’amica geniale, Zero Zero Zero, Romanzo Criminale e Suburra, le pagine Wikipedia in genovese, lumbaard, siciliano, gli infiniti gruppi Facebook. La rete, soprattutto, ha fatto molto bene ai dialetti. Ma cosa sono questi benedetti dialetti, da dove arrivano e in che rapporto stanno con l’italiano? E’ giusto recuperarli e, se sì, come? Lo chiediamo al professor Paolo D’Achille (nella foto), uno dei maggiori dialettologi e storici della lingua italiani.


Professore, come mai in Italia ci sono così tanti dialetti?


«Il motivo della presenza di così tanti e differenti dialetti è che sul nostro territorio, ancor prima dell’unificazione linguistica latina, erano stanziate popolazioni di origini molto diverse. La Alpi costituiscono da sempre un confine valicabile, così come gli Appennini; per non parlare, poi, delle lunghe coste, dei fiumi navigabili e del clima favorevole. Dopo la conquista romana, questi popoli hanno accettato come lingua il latino, dandogli però specifici tratti di pronuncia. Queste tendenze sono riemerse con le invasioni barbariche e hanno intrapreso percorsi distinti, seguendo anche le vicende di frammentarietà politica e amministrativa (si pensi ai comuni e alle diocesi). Infine, nei secoli, si è assistito anche una variazione lessicale, che deriva dal tradizionale campanilismo italiano e dalla volontà delle comunità cittadine di differenziarsi tra loro. Bisogna ricordare, poi, che la nostra penisola è attraversata da una frattura linguistica importante, la linea “Rimini-La Spezia”. I dialetti parlati a Nord, rispetto a quelli del Sud, hanno caratteristiche strutturali diverse che li avvicinano più alle altre lingue romanze, come lo spagnolo e il francese».

Non c’è il rischio che il ritorno del prestigio del dialetto si sommi al fenomeno dell’analfabetismo funzionale, mettendo in bocca agli italiani un indigesto composto di lingua e dialetto?


«Il rischio c’è se la ripresa del dialetto si lega a una diminuita competenza dell’italiano, che può essere imputabile a fenomeni lontani dal dialetto, come l’elusione scolastica o l’uso esclusivo dell’inglese in alcuni ambiti d’insegnamento (più pericoloso degli anglicismi). Il recupero del dialetto è senz’altro positivo, a patto che venga intrapreso una volta che abbiamo acquisito una solida competenza dell’italiano, nello scritto, ad esempio, o nella comunicazione giornalistica».


Il recupero dei dialetti è solo folklore o qualcosa di più serio? E poi: come se la cava l’italiano colloquiale nella convivenza col dialetto?

«In molte fasi della nostra storia, il dialetto è stato visto come un ostacolo all’italianizzazione e le istituzioni scolastiche lo hanno considerato a lungo solo come una fonte d’errore. Oggi, quindi, è giusto che si rivendichi la possibilità di adoperarlo nelle conversazioni, nell’arte o a teatro, perché è un modo per riappropriarsi delle proprie radici. Ma la pretesa di far diventare il dialetto una lingua di cultura e delle leggi sarebbe contro la storia. Sono proprio i parlanti dialettali, del resto, ad aver sempre riconosciuto l’Italiano come lingua tetto (cioè come la lingua di riferimento per gli usi di maggior prestigio, ndr). Ricordiamo che – fatta eccezione per la temporanea dialettofobia scolastica – l’italiano non si è mai imposto con la forza. Certo, qualche volta, la lingua della burocrazia è apparsa lontana dall’uso quotidiano. Ma l’italiano parlato rappresenta un patrimonio ormai condiviso dai più, sviluppatosi proprio dal basso, al quale non dovremmo rinunciare, anche nella convivenza col dialetto».

Eduardo De Filippo, voce, cuore e anima di Napoli

31/10/1984 • Moriva 36 anni fa un gigante del teatro. Dagli esordi alla rottura con Peppino al patrimonio lasciato alla tv

“Puó’ dí ch’ ’e strade ’e Napule cheste só’: nu palcoscenico”, cantava Sergio Bruni, “A voce ’e Napule”. La teatralità dei napoletani, si sa, è un luogo comune non lontano dal vero. Loro stessi ce lo ricordano: a gesti, a parole e con l’inconfondibile inflessione della voce. Se da Port’Alba, poi, s’imbocca lo stretto vicolo dei librai, ci si perde tra le montagne di volumi sul teatro, tantissimi dedicati proprio a chi scrisse che Bruni era la voce di Napoli e – riportando quel che si diceva, beninteso! – aggiungeva: “’A ggente sà che dice? (…) Ca Napule songh’io!”. No, non è Maradona, di cui comunque esistono murales, reliquiari ed edicole sparsi per la città. È Eduardo de Filippo, che non a Napoli ma a Roma morì un mercoledì di 36 anni fa.

Eduardo, però, in un certo senso, vive ancora. Vive nel teatro che fece ricostruire, il San Ferdinando; vive nelle rassegne che lo ricordano; nelle teche Rai e su Rai-Play; vive in molti rifacimenti filmici delle sue commedie, come “Il sindaco del rione Sanità” (2019), diretto da Mario Martone. Se, dopo la morte, si pensava che il suo teatro si sarebbe appannato, così non è stato: Eduardo de Filippo resta non solo il santo laico del teatro napoletano, ma un’icona irrinunciabile e riconoscibile – smilzo, con le sue guance scavate e spigolose – del Novecento italiano.

Eduardo nacque nel 1900, a Napoli, nel quartiere di Chiaia. Era figlio illegittimo dell’attore e commediografo Eduardo Scarpetta, divo del teatro napoletano, ma anche interprete della doppia morale delle classi agiate di allora: manteneva ben tre, forse quattro famiglie. Una di queste era quella dei De Filippo, composta dalla madre di Eduardo, Luisa, e dai suoi due fratelli, Annunziata e Giuseppe, ribattezzati Titina e Peppino. “Una famiglia difficile”, ebbe a scrivere Peppino, alla quale, nonostante tutto, Scarpetta diede un futuro. Per i tre fratelli il teatro fu una scelta obbligata: entrarono piccolissimi nella compagnia del padre, passata poi sotto la direzione del fratellastro, Vincenzo. Eduardo esordì sul palcoscenico all’età di soli quattro anni, portato in braccio da un attore.

I tre De Filippo si dimostrarono attori capaci. A vent’anni, già vantavano delle “serate d’onore”, rassegne antologiche dei loro personaggi più apprezzati. Decisero quindi di mettersi in proprio. Esordirono con “SikSik, l’artefice magico” (Peppino apostrofava così il fratello: “sicc sicc”, cioè “secco secco”, magro); un successo, ma nulla di paragonabile a quanto accadde dopo quel 25 dicembre 1931, quando al Teatro Kursaal di Napoli andò in scena “Natale in casa Cupiello”. La commedia, che sarebbe dovuta restare in cartellone nove giorni, ci restò per nove mesi. Ora: a Napoli, il Natale ma, soprattutto, il presepe (un protagonista della storia) è una cosa molto seria, nel quale i personaggi – come accade per la smorfia – costituiscono un sistema intricato di simboli. Ma, evidentemente, dietro il folklore c’era di più: i De Filippo avevano toccato le corde di una città intera. “Te piace ’o presepe?”, chiede Luca Cupiello al figlio. E lui gli risponde, sempre, invece: “No, nun me piace!”.

Il successo di “Natale in casa Cupiello” fece conoscere i De Filippo all’Italia intera, conquistando perfino le simpatie di Mussolini. È in quegli anni che Eduardo cominciò a maturare l’ambizione di diventare un grande autore. Sono gli anni, infatti, della collaborazione con Silvio D’Amico, fondatore dell’Accademia nazionale d’arte drammatica e col maggiore drammaturgo italiano di allora, Luigi Pirandello, senza che però ne uscisse nulla di significativo. Anzi: “L’abito nuovo”, scritto a quattro mani, fu giudicato dallo scrittore Corrado Alvaro non all’altezza dei due autori. E ancora oggi, un critico contemporaneo come Maurizio Giammusso la definisce “l’opera più brutta di entrambi”. Quando arrivò la guerra, Eduardo si era già da qualche anno trasferito a Roma.

Dopo la liberazione, decise di tornare a Napoli. Alla città che era eroicamente insorta contro i tedeschi, però, se n’era sostituita un’altra, piena di rovine e fame, dominata dal mercato nero e dalla prostituzione. C’è un episodio mitologico, a questo punto, un incontro tra Eduardo e lo scrittore Curzio Malaparte, in quella Napoli disastrata. La leggenda vuole che da quell’incontro nacquero due capolavori. Malaparte cominciò a scrivere “La pelle”. Eduardo, invece, andò in scena il 15 marzo del 1945 al San Carlo, con uno spettacolo in favore della Croce Rossa. Era “Napoli milionaria!”. La commedia è il racconto di un reduce che, tornato dalla guerra, trova una situazione familiare disastrosa: una moglie dedita al mercato nero e fedifraga; una figlia incinta di un soldato americano; un figlio delinquente. La sgangherata famiglia riesce a trovare unità solo quando la figlia più piccola si ammala; ma la cura è affidata a una medicina che non si sa se la salverà. Come recita l’ultima, leggendaria battuta “Ha da passà ’a nuttata” (scritta così nel copione, ma che a tutti suona come “Adda passà ’a nuttata”). Di quella prima rappresentazione, scrisse Eduardo: “Arrivai al terzo atto con sgomento. Recitavo e sentivo attorno a me un silenzio assoluto, terribile. Quando dissi l’ultima battuta finale e scese il pesante velario, ci fu silenzio per otto, dieci secondi. Poi, scoppiò un applauso furioso e anche un pianto irrefrenabile. Tutti avevano in mano un fazzoletto: gli orchestrali che si erano alzati in piedi, i macchinisti che avevano invaso la scena e il pubblico, che era salito sul palco. Tutti piangevano, e anch’io piangevano. Io avevo detto il dolore di tutti”.

Appena un anno dopo, Eduardo scrisse “Filumena Marturano”, pensata su misura per la sorella Titina. Le battute recitate dalla sorella – “I figli so’ figli” o “Quant’è bello chiagnere” – le sognò di pronunciare, tra le tante, senza mai riuscirci, anche una super diva come Anna Magnani. Quando morì Titina, uno dei primi ad arrivare al capezzale fu il fratello Peppino, che nel frattempo aveva lasciato la compagnia ed era assurto alla fama come la migliore delle spalle di Totò. Ma i due fratelli già da tempo non si parlavano: i rapporti si erano rotti irreparabilmente nel 1944 e, da allora, si scrivevano solo per lettera.

La famiglia, già: un chiodo fisso di Eduardo, a cui dedicò un trittico culminato con un altro capolavoro, “Sabato, domenica e lunedì”, sfiorando – qualcuno scrisse – Anton Čechov. La vita di Eduardo fu lunga, costellata di molti successi professionali, perfino all’estero (a Londra e in Russia) e, in fondo, da pochi scivoloni, spesso fuori dal suo controllo, come un film mancato con Fellini e un fiasco negli Usa, imputabile per molti alla regia affidata a Franco Zeffirelli. Il lutto più duro che dovette affrontare fu la morte improvvisa della figlia Luisella, di quattro anni, per un aneurisma, mentre giocava col fratello Luca.

Con l’arrivo della televisione, Eduardo registrò una gran quantità di commedie, lasciandoci un patrimonio inestimabile. Senza dubbio, lo fece anche per apporvi, con la sua interpretazione, il proprio sigillo. Menzioniamo, su due piedi, almeno due cose da rivedere: il film che Zeffirelli dedicò a Pulcinella, dove Eduardo, dietro la maschera, sa trasmettere un’incredibile gamma di emozioni; ma anche la scena di “Questi fantasmi”, dove racconta dal balcone la ricetta perfetta del caffè napoletano.

«È stata tutta una vita di sacrifici. E di gelo: così si fa il teatro. Così ho fatto. Ma il cuore ha tremato sempre, tutte le sere, tutte le prime rappresentazioni. E l’ho pagato. Anche stasera batte. E continuerà a battere, anche quando si sarà fermato», disse così a Taormina, ritirando un premio, poco prima di morire. Ma non dopo aver ringraziato, pubblicamente e con parole commoventi, il figlio Luca, che lo aveva accompagnato negli ultimi anni della sua vita professionale. Nel cuore, in questo momento, ci resta forse più di tutte quella battuta di “Napoli milionaria!”, “Adda passà ’a nuttata”.

Ma Eduardo sembra ci parli ancora, forse più di prima e forse proprio a noi. In una delle ultime rappresentazioni, infatti, decise di cambiarla, quella battuta. E, dunque, prima che il sipario cali, non dice di dover aspettare che passi la notte, “Adda passà ’a nuttata”, ma “’A guerra nun è fernuta”: “La guerra non è finita”.

Federico Pani

Il Piccolo di Cremona, 31 ottobre 2020