The Blues Brothers, film cult per eccellenza

20/6/1980 • Esattamente 40 anni fa usciva nelle sale l’opera che consacrò il mito di John Belushi e dei fratelli Blues

Centro correzionale “Joliet” dell’Illinois. Un ufficiale giudiziario elenca gli oggetti da restituire all’ex-detenuto che ha di fronte: “Un orologio digitale Timex, rotto. Un profilattico non usato. Uno… usato. Un paio di scarpe nere. Una giacca di un abito nero. Un paio di pantaloni di un abito nero. Un cappello, nero. Un paio di occhiali neri. 23 dollari e 12 cents. Firma qua”. Gli occhiali in dotazione al completo sono Ray-Ban Wayfarer. Fuori dal penitenziario si ferma una Dodge Monaco Sedan della polizia. Dalla macchina scende un uomo vestito con lo stesso completo e gli stessi occhiali da sole. Le porte del carcere si aprono e compare il profilo di un ometto tarchiato. Le prime note di una canzone blues e i due si vengono incontro, rigidi come manichini, neanche fosse un duello western; si abbracciano. Con questa prima, immortale scena comincia il film “The Blues Brothers”, uscito negli Stati Uniti il 20 giugno del 1980.
La storia la conoscono tutti. L’appena uscito di galera Jake Joliet Blues e il fratello Elwood tornano nell’orfanotrofio dove sono cresciuti e scoprono che sta per chiudere i battenti a causa di 5mila dollari di tasse in arretrato; decidono di rimettere in piedi la loro band e guadagnare abbastanza per pagarne i debiti. Nonostante le mille disavventure, ce la faranno.
La band eponima nacque prima della pellicola. John Belushi (Jake) aveva conosciuto Dan Aykroyd (Elwood) che, oltre a lavorare a un programma TV per bambini, era proprietario di un club. Dan fece conoscere a John il blues. Fu amore. I due cominciarono a mettere in piedi un supergruppo musicale che avrebbe avuto come repertorio i classici del blues. Mancava solo una divisa riconoscibile. Si ispirarono all’abbigliamento del musicista John Lee Hooker (nel film appare in una scena, dove canta “Boom boom”): un completo serioso, stemperato dagli occhiali da sole, che serviva in origine ai musicisti afroamericani a combattere i pregiudizi dei bianchi. Nel 1978 i Blues Brothers si esibirono al Saturday Night Live col brano “Soul Man”.
Il Saturday Night Live è un leggendario varietà americano della NBC. Nacque nel 1975 per rinfrescare la TV americana. Condotto da giovani, apertamente anti-nixoniano, si racconta che negli studi aleggiasse un perenne odore di marijuana. Sul suo palco si esibirono comici come George Carlin o giganti della musica come James Brown, Aretha Franklin, Elvis Costello, Bruce Springsteen, Joe Coker, moltissimi altri ancora e, naturalmente, anche John Belushi, che fu prima di tutto un comico. Si contarono, in totale, 83 sue partecipazioni e, tra tutti, lo sketch più fenomenale fu l’imitazione di Joe Cocker. Si dice che Paul McCartney gli avesse chiesto di esibirsi privatamente al suo compleanno per una cifra astronomica, tanto lo faceva ridere quando si contorceva a terra cercando di rialzarsi mentre imitava il cantante britannico.
Belushi era nato a Chicago da genitori albanesi. A 29 anni, nel 1978, si era già conquistato un posto d’onore nel cinema americano, con la commedia “Animal House”, record di sempre d’incassi per il suo genere, nonché un posto di tutto rispetto nella musica, con un disco di platino per il primo album dei Blues Brothers: due milioni e 800mila copie vendute in pochi mesi. Un talento ciclonico, merito non solo delle sue forze. Bob Woodward, il giornalista del Watergate, che gli dedicò un libro d’inchiesta, “Wired”, “fulminato” (in italiano: “Chi tocca muore”), raccontò bene della smodata passione di John per la droga: gli permetteva di scatenarsi per ore ed eseguire numeri acrobatici, come i salti che si vedono nel film. Dato il peso, quasi un quintale, per 1,75 d’altezza, si trattava di performance al limite del possibile.
Anche The Blues Brothers fu una tempesta di droga, concentrata per lo più nel corpo di Belushi (e gli occhiali, vuole la leggenda, servivano proprio a mascherarla): la stessa droga che avrebbe lasciato orfano Elwood, il vero fratello Jim e un numero incalcolabile di fan. Morì in una stanza d’albergo il 5 marzo 1982 a Los Angeles. L’ultima sera della sua vita, la trascorse insieme a Robert De Niro e Robin Williams in uno dei soliti bagordi. Quella notte spese ben 5mila dollari in cocaina, dopo esserseli fatti anticipare dal suo agente, dicendogli che ci avrebbe comprato una chitarra. La dose letale, mista di eroina, gli venne iniettata dalla groupie Cathy Smith. Aveva 33 anni.
“Va disintossicato”, diceva il medico di scena durante le riprese, “altrimenti fategli fare più film possibili, perché non gli resta che qualche anno”. La morte di Belushi fu una fatalità, ma non casuale ed eternò la sua stella per sempre. Disse Dan Aykroyd, in un’intervista: «Il mio atteggiamento verso la cosa è duplice. Da una parte, penso: mi dispiace, amico, non ce l’hai fatta e non posso farci niente. Dall’altra, mi manca e soffro. Di recente, ho sentito una canzone che diceva “coraggio Jonny, ce la puoi fare / ancora un miglio, Jonny” e ho pianto». Se vogliamo essere onesti, il segreto fascino del film sta proprio nel mito del simpatico, brutto e dannato John Belushi.
The Blues Brothers è uno di quei film che spiegano bene l’espressione “di culto”. A metà tra una commedia demenziale e un musical, sviluppa degli sketch lungo un asse narrativo preciso. Da molti punti di vista, resta un film memorabile. Per la comicità, la musica, i cammei, la quantità di comparse, il numero di auto fatte a pezzi (un record che detiene tuttora). Il regista, John Landis, confezionò un film che non si prendeva sul serio dalla prima all’ultima scena, antesignano della comicità demenziale e, se ci pensate, riassuntivo allo stesso tempo dei generi precedenti, che mescola e deforma.
Landis era un democratico e non è un caso che il film si svolga sullo sfondo di una Chicago brutta e sporca, già sull’orlo della deindustrializzazione, dove l’unica comunità piena di vita è quella afroamericana. I bianchi sono al massimo degli zotici: ricordate il locale dove la band si esibisce per la prima volta ed Elwood chiede “Che genere di musica fate di solito?”. Risposta: “Facciamo tutti e due i generi: il country e il western”. Ecco: gli avventori del locale, tutti bianchi, sono dei bifolchi e i gestori dei mezzi imbecilli. D’altro canto, è un film che non mistifica nulla, nemmeno il potere salvifico della musica. Nessuno della band ha fatto fortuna: c’è chi cucina hamburger (Guitar Murphy e Lou “Blue” Marini), chi fa il cameriere (“Mr. Fabulous”) e chi suona davanti a dieci persone cover di pezzi inascoltabili (“Murph and Magic Tones”).
The Blues Brothers è uno di quei film di cui viene voglia di citare quasi ogni scena. La Cadillac scambiata per un microfono; Aretha Franklin che canta in ciabatte e indossa un grembiule macchiato e unto; Ray Charles che, cieco, spara con la precisione di un cecchino; la rete da pollaio dietro cui canta la band e contro cui si infrange una marea di bottiglie di birra; tutte le scene con i nazisti dell’Illinois; le ripetute aggressioni, con armi sempre più esplosive, della mancata sposa di Jake, interpretata da Carry Fisher. E, naturalmente, le scuse dell’ex galeotto, in un climax che termina con l’ormai mitologico ricorso alle cavallette.
Tra le scene da citare ci sono senz’altro anche l’inseguimento per le strade di Chicago e la caccia ai fratelli da parte di tutti i reparti dell’esercito, dalla cavalleria alla marina. E poi ancora: la cattura e il finale in prigione, con la canzone “Jailhouse Rock”. Ma il punto più celebre resta il concerto. Cab Calloway scalda il pubblico; parte la musica del Saturday Night Live; arrivano Jake ed Elwood, e nella sala cala il gelo. Belushi, attonito, dà il via: “uno, due… uno due tre”. Ed è il momento di “Everybody needs somebody to love”. Buon compleanno, fratelli Blues. E tu Jake, beh, manchi tanto anche a noi.

Dalla Repubblica Cisalpina all’Italia: la storia Tricolore

14/3/1861 • Il Regno d’Italia adotta ufficialmente la bandiera con tre strisce: verde, bianca e rossa

Quando nel 1796 il generale Bonaparte arrivò a Nizza, già annessa alla Francia, per prendere il comando dell’Armata d’Italia, le notizie della Rivoluzione di Parigi avevano già da tempo infiammato la penisola; si erano rincorse concitate, spesso contraddittorie. Per esempio: si sapeva che il simbolo dei rivoluzionari era una coccarda tricolore; ma per alcuni era rossa bianca e blu; per altri, rossa bianca e verde. Poco importava; il significato era uno solo: Rivoluzione. Così, già nell’autunno del 1794, prima di tentare l’insurrezione a Bologna, allora dominio pontificio, il bolognese Luigi Zamboni e l’astigiano Giovanni Battista de Rolandis, studenti universitari, avevano deciso di farne il simbolo della rivolta. Scelsero la variante cromatica verde, simbolo di speranza. Il rosso e il bianco, invece, richiamavano i gonfaloni delle rispettive città d’origine, con il riferimento al periodo della gloriosa indipendenza comunale. Altri, invece, sostengono che dietro la scelta dei colori ci fossero ragioni massoniche; fatto sta che quanto il moto di Zamboni e De Rolandis fu un disastro – vennero incarcerati e uccisi – tanto invece il tricolore cominciò ad avere successo. Le milizie rivoluzionarie milanesi ne fecero presto la loro insegna. Il rosso e il bianco, infatti, simboleggiavano anche il Comune di Milano e l’aggiunta del verde non poteva essere più azzeccata: era il colore delle casacche dei miliziani lombardi.

La bandiera italiana ricalcava quindi da vicino sia il significato rivoluzionario sia la genesi del vessillo francese: il rosso e il blu erano i simboli del Comune di Parigi. Ma l’Italia non era la Francia e senza i cannoni e le baionette di Bonaparte la Rivoluzione non sarebbe nemmeno potuta cominciare. Dopo che i francesi ebbero battuto gli eserciti austriaci russi e piemontesi, ai rivoluzionari italiani fu concesso di instaurare delle Repubbliche giacobine, scalzando i vecchi Stati regionali. Tra le fila dell’esercito napoleonico, nel frattempo, erano cominciate a confluire anche le truppe repubblicane italiane. Assodata la tricromia ufficiale della bandiera francese, per farsi riconoscere, i miliziani concordarono con Napoleone la variante cromatica verde. Così, quando una delle repubbliche giacobine italiane, in cui poi sarebbero confluite anche le altre, quella Cispadana – divenuta poi Cisalpina – scelse il suo vessillo, la proposta di Giuseppe Compagnoni sembrò d’obbligo: durante una delle sedute nel Parlamento di Reggio Emilia, il 7 gennaio 1797, fu adottato il tricolore. In un primo momento, le tre righe furono sovrapposte e, al centro, fu stampigliata una faretra con quattro frecce, simbolo delle repubbliche sorelle. Qualche mese dopo, la bandiera venne ruotata di novanta gradi.

Il contrattacco dei nemici di Napoleone, impegnato altrove, spazzò via le repubbliche. Seguì la riconquista francese, la costituzione di un’unica repubblica e poi un regno, d’Italia (in pratica una protettorato francese) la cui bandiera, pur di fogge diverse, rimase dei tre colori. Con la sconfitta di Bonaparte e il Congresso di Vienna, il tricolore sembrò destinato a essere archiviato. Così non fu e al significato di libertà e uguaglianza si aggiunse quello dell’unità nazionale. I moti della prima metà dell’Ottocento, difatti, furono costellati dal tricolore: sventolò durante l’insurrezione di Alessandria guidata da Santorre di Santa Rosa, fu impugnata da patrioti come Ciro Menotti, Teresa Cattani e dai fratelli Bandiera, seguaci della Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Nel 1848, l’insurrezione generale delle grandi città d’Italia fu un altro tripudio di tricolori: sventolò anche durante le Cinque giornate di Milano e divenne la bandiera della Repubblica di San Marco di Daniele Manin, di quella Romana guidata da Goffredo Mameli e Mazzini, ma anche del rivoluzionario Regno di Sicilia. Pensando che fosse arrivato il momento giusto per cacciare gli austriaci, anche il sovrano sabaudo Carlo Alberto di Savoia decise di impugnare la bandiera.

“E per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell’unione italiana, vogliamo che le nostre truppe, entrando nel territorio della Lombardia e della Venezia, portino lo Scudo di Savoia sovrapposto alla bandiera tricolore italiana”. Con queste parole, Carlo Alberto cominciò una sfortunata campagna militare contro l’Austria, che si sarebbe poi detta Prima guerra d’Indipendenza. Ma la bandiera, anche questa volta, sopravvisse alla sconfitta militare. Il singolare incrocio del tricolore e dello stemma sabaudo accompagnò le più fortunate vicende della Seconda guerra d’Indipendenza, e sventolò a Quarto prima che la spedizione garibaldina salpasse. Nel giro di pochi anni, quasi tutta la penisola si ritrovò unita e il 14 marzo del 1861 il tricolore divenne la bandiera del Regno d’Italia. Lo diventò, però, in modo discreto, senza annunci: fu il risultato automatico e previsto per legge dall’avvenuta votazione e conseguente nomina di Vittorio Emanuele II a re d’Italia.

Curiosamente, per un lungo periodo non esistette una bandiera italiana ufficiale: la mancanza di una apposita legge al riguardo – emanata soltanto per gli stendardi militari – portò alla realizzazione di vessilli di foggia diversa dall’originaria, senza un vero criterio di riproduzione. Nel 1925 fu definito il modello ufficiale che recava lo stemma della corona reale. “La bandiera della repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a bande verticali e di eguali dimensioni. (È approvata. L’Assemblea e il pubblico delle tribune si levano in piedi. Vivissimi, generali, prolungati applausi.)”. “Perfino dall’arido linguaggio del verbale possiamo cogliere tutta l’emozione di quel momento”, scrive giustamente il redattore del sito del Quirinale, da cui sono tratte queste righe. Quello riportato, poi, è un stralcio decreto legislativo presidenziale del 19 giugno 1946, che stabilì la foggia provvisoria della nuova bandiera, in seguito confermata dall’Assemblea Costituente nella seduta del 24 marzo 1947 e inserita all’articolo 12 della Costituzione.

Ma la storia della bandiera non finì del tutto con quella votazione. Risalgono al 2006, e fanno parte del decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 14 aprile 2006, le “Disposizioni generali in materia di cerimoniale e di precedenza tra le cariche pubbliche” che definiscono i codici univoci dei colori della nostra bandiera. Ad alcuni era parso che il colore rosso virasse troppo, in certi casi, verso l’arancione. Così, da qualche anno è solo uno quel rosso che il poeta Giosuè Carducci aveva detto fosse quello dei soldati caduti per la libertà, insieme al bianco delle nevi perenni delle Alpi e il verde dei prati. Del resto, sono ancora molti, oggi, a vedere quello che vogliono in quei tre colori. Forse tutti però vediamo in quel tricolore una sola, grande cosa: l’orgoglio di essere italiani.   

Federico Pani

Il Piccolo di Cremona, 14 marzo 2020

Enrico VIII, da difensore della fede a fautore dello scisma

7/3/1530 • Papa Clemente VII conferma la validità del primo matrimonio del sovrano, che sposa comunque Anna Bolena. La storia cambia

“The King’s great matter”, la “Gran Questione del re” (d’Inghilterra, naturalmente) fu ben più di un semplice divorzio. Anche perché il matrimonio in questione, quello tra Enrico VIII e Caterina d’Aragona, non era nato sotto i migliori auspici. “Se uno prende la moglie di suo fratello, è un’impurità, egli ha scoperto la nudità di suo fratello; non avranno figliuoli”. Così, il Levitico. E questo era il caso di Enrico: all’età di 23 anni, sposando Caterina, si era legato alla vedova del fratello Arturo, primogenito di Enrico VII di York. Il matrimonio era stato benedetto nel 1513 dalla bolla papale dall’energico Giulio II: un personaggio ben diverso da Clemente VII, il papa che quel 7 marzo 1530 prese una decisione destinata a cambiare la storia d’Europa: negare a Enrico l’annullamento della dispensa papale che lo aveva sposato.

Nonostante la benedizione divina, del resto, il matrimonio sembrava sul serio segnato dalla maledizione biblica: ai coniugi aveva portato solo figli morti e un’erede, Maria, con il difetto di essere donna. Un clima opprimente cominciava a serpeggiare a corte, sostituendosi a un periodo di grandi speranze. Per molti inglesi fu un gran sollievo vedere il nuovo re, appena diciassettenne, succedere nel 1509 al padre. Con l’appoggio dei suoi cancellieri, Enrico aveva tolto molte restrizioni che erano state imposte alla nobiltà e si era liberato di collaboratori impopolari. Era, del resto, il re, un uomo raffinato, che fin da bambino era stato preparato alla carriera ecclesiastica e, poi, a quella di regnante. Alto e robusto, solo verso i 40-50 anni avrebbe ceduto all’obesità. Danzatore, cacciatore, fu anche compositore di un certo talento: scrisse una celebre canzone (“Pastime with good company”), una vera hit di allora, che circolò come “La ballata del re”.

Pur non essendo un grande uomo d’armi, seppe scegliere con cura i suoi luogotenenti. Nel 1513 delegò al conte di Surrey il contrattacco all’invasione scozzese, il quale batté i nemici, uccidendo re Giacomo sul campo. Seguì il suocero, Ferdinando II D’Aragona, nella guerra contro la Francia e affidò a Thomas Wosley una campagna militare che fruttò popolarità a Enrico e soprattutto a Wolsey, nominato arcivescovo e lord cancelliere. La carriera di Wolsey, collaboratore e amico di Enrico, sembrò così brillante da fargli arrivare ad ambire il soglio pontificio. Del resto, lo stesso Enrico intratteneva ottimi rapporti con Roma. A parte la benedizione del matrimonio, quando nel 1519 l’Europa cominciò a essere percorsa dalla Riforma protestante, il re scrisse insieme a Wolsey e al suo cancelliere Thomas Moore (Tommaso Moro) un libello che affermava con forza il primato del Papa e il valore dei sette sacramenti, alcuni dei quali negati da Martin Lutero. Lo stesso Moore si mostrò sorpreso dell’intransigenza del sovrano, che in virtù del suo zelo venne nominato dal pontefice “Difensore della fede”.

Nel 1519 un avvenimento cambiò le sorti d’Europa: grazie a un’irripetibile politica matrimoniale, il Regno di Spagna, quello di Borgogna, e l’Austria furono concentrati nelle mani di un solo sovrano, Carlo V d’Asburgo. Nel 1521 il re divenne imperatore del Sacro Romano Impero e nel 1525, durante la battaglia di Pavia, la fanteria spagnola annientò l’esercito francese, catturando il re. L’equilibrio di forze era definitivamente cambiato e l’Inghilterra tolse il suo appoggio alla Spagna. Ma anche la politica interna stava mutando: in peggio. Nel 1523, Wolsey fu costretto a convocare il Parlamento per imporre ai nobili il pagamento delle tasse necessarie a scongiurare la bancarotta sfidandoli in un fallimentare braccio di ferro. Tutte le responsabilità del disastro – alcune tasse non solo non furono pagate ma vennero addirittura abolite – ricadde su Wolsey. Il re, del resto, sembrava assorto in tutt’altre questioni. Il problema del divorzio dominava incontrastato, almeno da quando Enrico aveva cominciato una relazione con la più famosa delle sue amanti, Anna Bolena.

Anna Bolena resta un personaggio leggendario: figlia di un nobile inglese, cresciuta in Francia, con un misto di arroganza ed eleganza seppe farsi largo tra le ammiratrici e le amanti del re, fino a conquistarne il cuore e diventare regina. Il matrimonio fu celebrato nel gennaio del 1533 e tenuto segreto fino al giorno di Pasqua, quando l’arcivescovo di Canterbury dichiarò annullato il matrimonio precedente. A nulla erano servire le pressione su Clemente VII, che si era rifiutato di acconsentire all’annullamento. Comprensibile: di mezzo, ci si era messo nientemeno che Carlo V, il nipote di quella Caterina d’Aragona, prima moglie di Enrico. Nel 1527, colpevole di aver ordito una lega antispagnola, del resto, il Papa era stato punito da Carlo con il Sacco di Roma e fatto prigioniero.

Le vicenda che portò alla definitiva rottura con la Chiesa cattolica fu costellata di episodi drammatici come l’esecuzione dei cancellieri Wolsey e Moore, sostituiti da Thomas Cromwell, duca di Essex, che ne guidò il compimento. Preso il controllo del concilio dei vescovi, Cromwell propose al sovrano la soluzione radicale dello scisma, che avrebbe permesso al re di prendere in sposa Anna Bolena, ma anche di riunire nelle sue mani un potere e ricchezze mai viste. La misura convinse il re, che pensò di poter disinnescare così in anticipo la Riforma protestante e risolvere i problemi delle disastrate finanze inglesi. La decisione del re venne così ratificata anche dal Parlamento con l’“Atto di supremazia” (1534). Facendo del re il vicario di Cristo sul suolo inglese, si consumava lo scisma anglicano. E a nulla valse la scomunica di Clemente VII.

Il terremoto scismatico ebbe immediate ripercussioni pratiche, tra cui l’annullamento del matrimonio. Ma la maturazione teologica richiese tempo: Enrico rimase convinto avversario di Lutero e ancora oggi la Chiesa anglicana porta le tracce del pensiero personale del sovrano inglese, fatta com’è di celibato e transustanziazione, ma anche del principio per cui l’uomo può salvarsi senza l’aiuto della Chiesa. Dal punto di vista economico, i vantaggi furono enormi: vennero smantellati gli oltre 800 monasteri e ne furono incamerate le ricchezze. Furono anni difficili, sia per la resistenza da parte del clero che per una politica crudele di Enrico nei confronti della nobiltà più riottosa. Perfino Cromwell, l’artefice dello scisma, venne imprigionato e giustiziato e si contano almeno altre 50 esecuzioni, compresa quella di Anna Bolena che, dopo la prima figlia Elisabetta, non diede alcun erede al re. Imprigionata nella torre di Londra con l’accusa di cospirazione, fu decapitata nel 1536.

Negli anni che seguirono Enrico si sposò altre quattro volte. Prima con una nobildonna inglese, Jane Seymour, dal cui matrimonio nacque il futuro Edoardo VI, ma che costò la vita a Jane subito dopo il parto. Poi ci fu un matrimonio d’interesse con una nobildonna tedesca protestante, Anna di Clèves, che non durò a lungo: Enrico si era già invaghito di una sua dama di compagnia, Caterina Howard, donna chiacchierata che intratteneva probabilmente già diverse relazioni quando convolò a nozze con re. Intemperanze che costarono la vita a lei e al suo amante. La sesta moglie fu Caterina Parr, una ricca vedova che, nonostante i dissapori con il re, riuscì a sopravvivergli. Alla morte del re, diventato mostruosamente sospettoso e obeso, si succedettero il figlio, una sorellastra e la figlia Maria che, fervente cattolica, abolì l’Atto di supremazia, facendo vacillare la riforma anglicana. La svolta arrivò nel 1558, quando salì al trono Elisabetta I, la figlia di Enrico e Anna Bolena. La regina non solo inaugurò una stagione mirabile per il suo Paese – l’età di Shakespeare, per capirci – ma ristabilì l’eredità religiosa del padre: sotto il suo regno, fu riaffermato l’“Atto di supremazia” (1563) e, nonostante i ciclici sussulti cattolici, l’isola assunse in modo definitivo la fisionomia religiosa che ancor’oggi conosciamo.

Come controllare un popolo, la buia epopea della Stasi

8/2/1950 • 70 anni fa nasceva la polizia segreta della Germania Est: schedato un cittadino su quattro

Il 10 novembre 1989, una lunga fila di macchine intasava la Friedrichstraße di Berlino: decine di Trabant, le rumorose macchine della Repubblica Democratica Tedesca (RDT), erano incolonnate di fronte al Check Point Charlie, per ricevere e spendere i 100 marchi che avrebbero ricevuto una volta entrati a Berlino Ovest. Il giorno prima, il 9 novembre, le autorità della RDT avevano dichiarato oltrepassabile il confine che, da 28 anni, nella forma di un lungo muro, separava le due Germanie. Nelle settimane che seguirono, i berlinesi dell’Est affluirono in massa nei negozi occidentali per acquistare tutto quello che avevano sognato di avere. Tra gli acuisti più stani, figuravano decine di tritadocumenti. A cosa dovevano servire, fu chiaro la mattina del 4 dicembre, quando una folla di protestanti fece irruzione in un palazzo nella Normannenstraße e trovò montagne di strisce di carta accatastate e sacchi riempiti da frammenti di documenti. Il palazzo era quello del Ministero della Sicurezza di Stato (in tedesco: “Ministerium für das Staatssicherheit”), conosciuto da tutti con il nome di “Stasi”.

Oltre alle montagne di documenti fatti a pezzi, agli occhi dei manifestanti si aprì uno scenario inquietante: nei sotterranei del palazzo c’erano 170 chilometri di scaffali contenenti documenti che schedavano 6 milioni di persone di cui 4 milioni, cittadini tedeschi orientali. La popolazione della RDT contava allora 17 milioni di abitanti: quasi 1 abitante su 4, quel giorno, avrebbe potuto trovare un dossier su se stesso. In totale, i registri riportavano 180mila agenti ufficiali e 120mila “inoffizieller Mitarbeitern”, ovvero “collaboratori non ufficiali”. In altre parole, spie sotto copertura. Risultava, quindi, in rapporto al totale della popolazione, 1 ufficiale della Stasi ogni 120 abitanti; includendo i collaboratori non ufficiali, il numero saliva a 1 ogni 56. Numeri sproporzionati rispetto a qualsiasi altro servizio di sicurezza e spionaggio del mondo, compresi i paesi del blocco socialista. In URSS, i numeri erano di 1 ogni 600; in Repubblica Ceca, 1 ogni 900; e in Polonia 1 ogni 1.500. Com’era stato possibile creare un simile mostro?

La storia della Stasi comincia l’8 febbraio 1950, quando il neonato ministero prende il posto del “Kommissariat 5”, la struttura sovietica di sorveglianza istituita alla fine della Seconda guerra mondiale. I compiti della Stasi erano di sorveglianza interna e spionaggio estero, unificando di fatto le funzioni esercitate dal Ministero degli Interni sovietico e dal KGB, la rete spionistica del Cremlino. Con un organico di 1.000 dipendenti e la funzione iniziale di prevenzione nei confronti di eventuali risorgenze naziste, la Stasi cominciò ad allargare il suo raggio d’azione anche nei confronti dei dissidenti interni del regime. Quando il suo capo più longevo, Erich Mielke, prese il comando nel 1957, il numero di dipendenti era già arrivato a 14.000. La Stasi di Mielke divenne una rete di controllo onnipresente: in qualsiasi ufficio pubblico, nelle scuole, nelle università, nei consigli di fabbrica, nei sindacati, nello sport, perfino nei movimenti e nei gruppi di opposizione, poteva annidarsi un collaboratore.

Che la Stasi potesse contare, tra le proprie fila, nomi di insospettabili, lo dimostrano almeno due casi di eminenti politici, simboli dell’opposizione al regime, rivelatisi poi dei “collaboratori non ufficiali”: Ibrahim Böhme e Wolfgang Schnur. Böhme era stato un avvocato per i diritti civili e uno dei maggiori rappresentanti dell’IFM, movimento di protesta pacifico della RDT nei tardi anni ‘80, diventando poi il capo del partito socialdemocratico nelle uniche elezioni libere della Germania Est. Nel 1990 a pochi mesi dalle elezioni, si scoprì invece della sua collusione con la Stasi. Schnur, anch’egli avvocato per i diritti civili e rappresentante di “Alleanza per la Germania”, fu colpito da un infarto poco dopo che, ancora nel 1990, la stampa rivelò la sua iscrizione nei registri della Stasi. “Alleanza per la Germania “era stato il partito uscito vincente dalle elezioni nella RTD e proprio Schnur sarebbe dovuto diventarne il primo presidente liberamente eletto.

Paolo Soldini, corrispondente dell’Unità, in un programma radio andato in onda qualche anno fa su Radio 2 (“La Stasi sopra Berlino”, a cui la rievocazione che state leggendo deve molto) raccontava, oltre agli episodi dei collaboratori celebri, anche quelli dei celebri perseguitati. Un caso estremo riguardò lo scrittore dissidente Jürgen Fuchs, che dichiarò di essere stato esposto, nel periodo di detenzione, a radiazioni perché gli fosse indotta la leucemia. Un altro caso interessante, dal momento che la donna ne fece un caso di studio, riguardò due noti attivisti: Ulriche Poppe e suo marito Gerd. Ulriche ricostruì le forme di controllo messe in atto dalla Stasi. Si andava dai prevedibili controlli della posta, alle più inquietanti raccolte di informazione scucite ai conoscenti e agli amici, fino ai temibili protocolli di ascolto ambientale e di osservazione diretta. Poppe ha pubblicato molti dei documenti che la riguardavano, alcuni dei quali, per inconsistenza, sono al limite del ridicolo: “I soggetti si riuniscono in soggiorno e posano sul tavolo dei recipienti che contengono, verosimilmente, caffè”; oppure “il soggetto entra in un negozio di alimentari ed esce con un sacchetto il cui contenuto non è stato possibile identificare”.

I coniugi Poppe raccontavano, tra l’altro, di un misterioso agente K, omonimo di un attuale investigatore privato berlinese, messo alle calcagna della coppia. Che si tratti della stessa persona è molto probabile. Ma perché, si chiedeva Soldini, i due coniugi non hanno provveduto a denunciarlo? Perché sarebbe stato inutile. In base a una sentenza della Corte di Karlsruhe (l’omologa tedesca della nostra Corte Costituzionale), gli ex agenti della Stasi sono punibili per reati specifici, ma non per il lavoro di spionaggio. 

Per farsi un’idea di cosa fu la Stasi, c’è un film di Florian Henckel che può aiutare molto in questo senso: “Le vite degli altri”, uscito nel 2006. Il film mostra bene l’insostenibile clima di sospetto e di oppressione, nonché la scia di inimicizie, dolori e lutti che accompagnava l’attività di controllo della polizia segreta. Vale la pena vederlo, senza dubbio; così come vale la pena raccontare un ultimo aneddoto, e cioè quello che coinvolgeva gli agenti soprannominati “Romeo” e “Giulietta”. Non erano agenti specifici ma ruoli che giovani avvenenti ricoprivano e che consistevano nel sedurre le vittime dello spionaggio per carpire informazioni nel segreto dell’intimità. Se pensate che la parte di maggior rilievo venisse ricoperta dalle Giuliette, vi sbagliate: erano i Romeo inviati nelle amministrazioni della Germania Ovest a essere i più temuti. A pensarci, sembra operetta. Allora, invece, il sapore era molto amaro.

Il Piccolo di Cremona, 8 febbraio 2020

John Ford: e la storia americana divenne mito

1/2/1894 • Oggi è l’anniversario della nascita del grande regista americano che pose le basi per il genere western

Se l’America è il suo cinema e il western, il cinema americano per eccellenza, allora John Ford è l’America. Eppure, il regista da quel nome fin troppo americano, si chiamava in verità Sean Aloysius O’Feeney ed era nato da una famiglia irlandese a Cape Elizabeth nel Main, sulla East Coast, il 1° febbraio del 1895. Delle sue origini John Ford non solo parlava spesso, ma erano per lui motivo di orgoglio. Del resto, alla patria dei suoi antenati dedicò alcuni film, come Il traditore (1935) e Un uomo tranquillo (1952), e nel 1921 venne perfino coinvolto nella ribellione irlandese, procurando finanziamenti al partito ribelle Sinn Féin. Ma cosa ci poteva essere di più americano di un figlio di immigrati, diviso negli affetti tra la patria d’adozione e quella di origine, partito per il West per fare fortuna? Il West, per Ford, si chiamava Hollywood.

Sean O’Feeney divenne John Ford, dopo essere stato Jack Ford (come continuarono a chiamalo solo gli amici), al suo arrivo California, nemmeno ventenne, seguendo il fratello Francis, di una dozzina d’anni più anziano di lui, che proprio a Hollywood lavorava. Negli anni Dieci il cinema americano, attirato dai grandi spazi, ma spinto anche dall’assenza dei sindacati, si era trasferito da New York a Los Angeles, dalla East alla West Coast. Ford cominciò come tuttofare, ma si dimostrò subito un abile direttore di scene d’azione. Un noto attore di allora, Harry Carey, propose quindi a Ford di dirigerlo nel primo lungometraggio della storia del genere e di proporre il film alla Universal Pictures. Fino ad allora, il genere consisteva in brevi storie di non più di venti minuti. Il film piacque. Furono scritturati e il sodalizio continuò fino al 1923, quando Ford decise di abbandonare Carey e la Universal per la Fox Film Corporation. Con uno stipendio di 600 dollari alla settimana, divenne il regista più giovane e meglio pagato di tutti gli Stati Uniti.

Da quel momento, la carriera di Ford cominciò a decollare e diresse il suo primo film di successo, Il cavaliere d’acciaio (1924). Ma fu Ombre Rosse (1939) a cambiare tutto. Se dopo Stagecoah (in italiano, “diligenza”) Ford fosse improvvisamente morto, ci si sarebbe comunque ricordati per sempre di lui. Il film pone le basi di quasi tutto il western, fino almeno alla metà degli anni ’60. C’è John Wayne, pilastro iconico del genere; compare per la prima volta la Monument Valley, la quinta scenografica che da allora fu il west; ci sono gli indiani e i loro agguati; c’è un campionario di protagonisti, non proprio senza peccato, ma dal grande cuore: la prostituta, il medico ubriacone, il giocatore d’azzardo e il fuorilegge. E l’assalto alla diligenza, scena che nessun serio manuale di regia può dimenticarsi di citare. Di film, ne sarebbero seguiti altri, certo non tutti all’altezza di quel capolavoro, ma molti memorabili. Tra questi, vale la pena di citare la “trilogia della cavalleria”, girata tra il 1948 e il 1950, che comprende: Il massacro di Fort ApacheI cavalieri del Nord-Ovest e Rio Bravo. Tutti e tre interpretati da John Wayne.

Si dice che Ford, dopo aver visto il film Il fiume rosso (1948) del collega e rivale nel genere Howard Hawks, avesse esclamato: “Quindi John Wayne sa anche recitare!”. In realtà, aveva ragione, almeno in parte. Wayne, il cui vero nome era Marion Robert Morrison, aveva come Ford origini irlandesi. Era stato un giocatore di football di qualche successo, che aveva cominciato a lavorare a Hollywood come cascatore, l’antenato degli stunt man. Fu proprio Ford a proporlo e ad affidargli parti sempre più rilevanti. Sul set con lui – raccontano – Ford era severo e in privato, a volte, perfino sprezzante. Quando gli chiedevano che regalo fare a Wayne, rispondeva: “Non regalategli un libro, ne ha già uno”. Ma la verità è che, come ammise l’attore, per lui, fu quasi un padre. L’altro attore prediletto da Ford fu Henry Fonda. Lo scelse per ruoli più politici, retorici, come nel caso del Lincoln in Alba di gloria (1939), ma anche epici, come in Furore (1940), facendogli interpretare il protagonista del romanzo Tom Joad.

Goffredo Fofi, nel suo libro sulla storia del cinema ha scritto: “Ford canta gli umili costruttori dell’America – contadini, soldati, artigiani – nel momento dell’edificazione. Elabora e definisce figure “classiche” di pionieri, caratterizzati da una gentile propensione all’autoironia. Essi incarnano funzioni, sanno il loro compito e come svolgerlo. Più spesso sono sceriffi non per scelta, medici ubriaconi o sfortunati, soldati (a difesa della fragile e nuova nazione). Dentro un ordine comunitario, anche gerarchico (la  gerarchia è stabilita dalla necessità, è prodotto della priorità, volta a volta, di una funzione), che va fondato, coordinato, difeso, e del quale il focolare domestico è il nucleo prioritario”. 

Ford: regista ma non artista? Be’, pensate alle sequenze iniziali e finali di Sentieri selvaggi (1956): una porta si apre e la macchina da presa, dall’interno di una casa di legno, pian piano esce, inquadrando la sagoma lontana di un cavaliere solitario, sullo sfondo della Monument Valley. È John Wayne, naturalmente. Violini e fiati in sottofondo; ad aspettarlo, dalla veranda, una famiglia e un’avventura, che si concluderà proprio con la sua sagoma solitaria che si allontana e una porta che su di lei si richiude. 

Ford non girò solo western e nemmeno western tutti uguali; sul finire di carriera, imboccò addirittura la strada del revisionismo nei confronti degli indiani, ancor prima di Piccolo grande uomo (1970) di Arthur Penn. Ma il destino che gli era spettato si era compiuto: la storia americana, dietro la sua macchina da presa, era diventa mito, leggenda. I suoi campi, profondi come gli spazi sconfinati d’America e i suoi attori, peccatori destinati mai a vincere del tutto, ma a far trionfare il bene: ecco l’America che forgiava il suo mito, mentre il mondo restava a sognarlo.

“Quali sono i miei registi di riferimento? Beh, direi John Ford… John Ford e John Ford”, disse a Peter Bogdanovich Orson Welles. Ma anche il regista Akira Kurosawa si lasciò scappare che non era stata l’arte giapponese a ispirare i suoi film: disse che John Ford era stato il suo più grande punto di riferimento. E come non pensare a Sergio Leone, che sognava il far west nelle calde estati romane e che sta a Clint Eastwood come Ford sta a Wayne. When the truth becomes legend, print the legend, quando la verità diventa leggenda, tu stampa la leggenda, si dice alla fine di L’uomo che uccise Liberty Valance (1960). Ben fatto, John.  

Il Piccolo di Cremona, 1° febbraio 2020

1919 e 1994: le due vite del Partito Popolare

La doppia ricorrenza • In entrambi i casi fu fondato il 18 gennaio: il successo della futura Dc e lo sfortunato ritorno alle origini

I rapporti tra i cattolici e il Regno unitario erano partiti con il piede sbagliato. La breccia di Porta Pia (1870) non solo aveva interrotto i lavori del Concilio Vaticano: aveva fatto cessare il millenario potere temporale della Chiesa. Pio IX, che durante il suo pontificato aveva visto ridursi il suo regno fino alla cancellazione, proclamò nel 1875 il “Non expedit”, il divieto per i cattolici di partecipare alla vita politica e alle elezioni. Nonostante quasi tutti lo osservarono, dato il numero ristrettissimo degli aventi diritto al voto (il 2% della popolazione), sarebbe stato assurdo pensare di poter escludere per sempre la quasi totalità degli italiani dalla vita pubblica. E così, sospinti dal nuovo pontefice Leone XIII, i cattolici si organizzarono nell’Opera dei congressi, una lobby ante litteram per portare avanti i diritti della Chiesa e dei fedeli.

La prima fase del movimentismo cattolico fu guidata da Romolo Murri, un sacerdote marchigiano con in testa l’idea di fondare un partito. Il gruppo attorno al sacerdote fu chiamato “democrazia cristiana”. Nel 1904 Pio X, nella prospettiva dell’ulteriore allargamento del suffragio – dal 1882 gli aventi diritto al voto erano passati al 6% e nel 1912 sarebbero stati il 23% – concesse ai cattolici il permesso di votare e la possibilità di presentarsi alle elezioni, ma solo a titolo personale: “cattolici deputati e non deputati cattolici”, fu detto. Nel 1905, sull’onda dell’entusiasmo e tendendo la mano ai socialisti di Filippo Turati, Murri fondava a Bologna la “Lega Democratica Nazionale”. Fu un fiasco. L’alleanza fallita con il partito socialista e l’aperta ostilità del pontefice, che culminò con la scomunica di Murri (1909), fecero naufragare il progetto.

La mobilitazione di massa degli italiani dovuta alla guerra (1915-1918) e l’ascesa del partito socialista, che rischiava di conquistare la maggioranza in Parlamento, rese urgente anche agli occhi della Chiesa la costituzione di un partito di massa cattolico. Ecco quindi comparire sulla scena il sacerdote siciliano Luigi Sturzo e il suo ambizioso progetto: un partito equidistante da socialisti, liberali e fascisti. Nacque allora il Partito Popolare Italiano (PPI), fondato il 18 gennaio 1919, che nelle elezioni dello stesso anno ottenne il 20,6% dei voti. La vita del PPI fu breve. Nel 1922 proprio Sturzo sbarrò la strada a un nuovo governo di Giovanni Giolitti, facilitando involontariamente l’ascesa di Mussolini. L’anno seguente, Sturzo si dimise dalla carica, che fu assunta dal deputato trentino Alcide De Gasperi. Nel 1926, il regime fascista mise fine al partito e costrinse Sturzo all’esilio.

Ma quel 18 gennaio del 1919 e l’esperienza politica popolare di don Sturzo non passarono invano. Anzi: a distanza esatta di 75 anni, il 18 gennaio del 1994, il Partito Popolare Italiano fu ricostituito. La cerimonia avvenne proprio nell’Istituto don Sturzo di Roma e fu ratificata dall’assemblea costituente (22 gennaio), presieduta da Mino Martinazzoli, già deputato e ministro nell’Italia repubblicana. Anche in questo caso, però, la vita del partito fu breve: sei anni, proprio come il partito fondato da Sturzo. Dopo un modesto successo alle elezioni del 1994 (11% dei voti) il partito confluì in una coalizione di centro-sinistra e si scisse: una parte diede vita all’Unione Di Centro (UDC), alleata del centro-desta berlusconiano e, nel 2002, l’altra confluì nella Margherita di Francesco Rutelli.

Tutto qui? Sì. Se si eccettua che, nel 1943, un altro partito aveva provato a fare rinascere il PPI di Sturzo, dandosi un altro nome: Democrazia cristiana.

L’ironia della storia volle che il nome che De Gasperi, già presidente del PPI, scelse per il suo nuovo partito fosse quello legato al movimentismo perdente di Murri. Il progetto di De Gasperi fu, invece, un progetto di enorme successo. La storia della Dc, dei suoi avversari e dei suoi alleati fu la storia della Prima repubblica italiana. In qualità di componente del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) nella guerra partigiana ed essendo stato uno dei partiti più votati nelle elezioni della Costituente del 1946, la Democrazia cristiana (Dc) si aggiudicò da subito un ruolo primario. La redazione della Costituzione fu l’occasione in cui i giovani esponenti del defunto partito di Sturzo poterono gettare le basi del nuovo Stato repubblicano. Si basarono sul Codice di Camaldoli, trascrizione degli atti di un convegno tenutosi nel luglio del 1943 nell’eremo omonimo. Vi parteciparono De Gasperi, Piccioni, Spataro, Scelba, Campilli, La Pira, Dossetti, Moro, Fanfani, Andreotti.

Nel 1948 la Democrazia cristiana, a 5 anni dalla sua nascita in clandestinità (a Milano nella primavera del 1943), raggiunse un risultato spettacolare: 48,5% dei voti, sbaragliando le sinistre. Le ragioni del successo? Certamente, lo scoppio della Guerra fredda e l’alleanza con gli Stati Uniti; ma non va dimenticato il sentimento religioso popolare e l’attenzione della Dc per la dottrina sociale della Chiesa, specchio di un socialismo moderato di stampo cattolico che gettò le basi dello stato sociale italiano: e basta pensare – restando nei ’50 – all’IRI, all’Eni, ai finanziamenti per la ricostruzione e alla Cassa per il Mezzogiorno. Un simile successo le permise di governare praticamente indisturbata fino al 1953. In quell’anno, il miracolo del 1948 non si ripeté e, da quel momento, la Dc inaugurò un sistema di governo del Paese che aggregava di volta in volta forze eterogenee, con un obiettivo: sbarrare la strada al Partito comunista italiano (Pci).

Durante gli anni di governo della Dc, l’Italia cambiò. Quando nel 1974 la Dc si lanciò in una battaglia suicida (persa, difatti) per l’abrogazione del divorzio si erano succedute coalizioni con gli azionisti, i liberali, i socialisti moderati, i monarchici e, nel 1960, perfino con i neofascisti del Movimento sociale italiano (Msi). C’era stato il boom economico e gli italiani erano cambiati, cominciando a vestirsi all’americana, a possedere elettrodomestici, la televisione, la macchina; i contadini erano praticamente spariti; c’era stato, poi, il 1968, le lotte operaie, lo Statuto dei lavoratori, lo stragismo e già cominciava la lotta armata della sinistra estrema. Eppure, nonostante nel 1976 il Pci avesse raggiunto il 34,4% la Dc gli oppose un 38,7%. A quel punto, cominciò il lavoro di Aldo Moro per trattare. Fu proprio l’omicidio di Moro (1978) ad avviare la Prima repubblica alla sua ultima stagione.

Nemmeno il gollismo del socialista Bettino Craxi nei suoi anni di governo (1983-1987) riuscì a sbloccare quello che il politologo Giorgio Galli aveva definito il “bipartitismo imperfetto”. La società civile e l’opinione pubblica, pur dando chiari segni di disimpegno e di progressiva disaffezione alla politica (gli anni del “riflusso”), rimasero quiete: agli anni ’70, percepiti come traumatici non solo per il terrorismo, ma anche per le crisi energetiche, l’inflazione e la disoccupazione, seguì un periodo di relativo benessere economico per tutti gli anni ’80.

Negli anni ’90, però, fu il mondo a cambiare. Con la fine del sistema di potere sovietico e della Guerra fredda, le stragi di Mafia e le nuove turbolenze economiche, le nuove generazioni di italiani cominciarono a trasformare la disaffezione in ostilità. Il fuoco alle polveri venne dato nel febbraio del 1992 dalla scoperta di una tangente, un semplice fatto di cronaca se fosse accaduto qualche anno prima. Non fu così: la spettacolarizzazione del processo alla classe dirigente, la Tangentopoli di Mani Pulite (1992-1994) fu la rivincita da parte di una società civile e un’opinione pubblica che non riusciva più a riconoscersi nei partiti, in una democrazia ai loro occhi bloccata, il cui perno era proprio la Dc. Così, quando Martinazzoli quel 18 gennaio 1994 rifondò il Partito popolare, sperando di fare rinascere la Dc, si limitò soltanto a riporla nella soffitta della storia.

Federico Pani

Il Piccolo di Cremona, 18 gennaio 2020

Il jukebox compie 130 anni

23/11/1889 • La prima apparizione nel 1889, l’anno d’inaugurazione della Tour Eiffel

Si dice che la prima frase registrata nella storia, quella che Edison recitò nel 1877 al suo fonografo, fu “Mary had a little lamb”, la strofa di una filastrocca. Non passò molto tempo da quella originaria incisione al momento in cui l’invenzione venne monetizzata. In ogni senso. Il 23 novembre del 1889 (ma per alcuni si tratta dell’anno successivo) nel Saloon Palays Royal di San Francisco fu messo a disposizione del pubblico una cassa in legno di quercia contenente un fonografo Edison classe M. Lo strumento era in grado di riprodurre musica. Alla cassa erano attaccati quattro stetoscopi da cui era possibile ascoltare alcune registrazioni, inserendo una monetina o, meglio, un nichelino. Si scrisse che l’apparecchio era riuscito a far guadagnare, nei soli primi sei mesi dalla messa in funzione, ben mille dollari al Saloon. A realizzarlo era stato Louis Glass insieme a William S. Arnold della Pacific Phonograph Company i quali, da allora, sarebbero stati considerati gli inventori del jukebox.

Lo strumento era certamente passibile di qualche miglioria, come il ricorso allo stetoscopio, per esempio; agli ascoltatori infatti veniva fornito, nei primi tempi, un asciugamano per pulire gli antenati dei nostri auricolari, ad ascolto terminato. Nel giro di una manciata d’anni, gli altoparlanti a corno li sostituirono e nel 1906 arrivò la funzione di selezione musicale dei pezzi, nella forma di dischi da grammofono: merito della John Gabel Company, che presentò un giradischi a moneta, il Gabel Automatic Entertainer, con cambiadischi automatico. Il tutto da caricare, però, ancora a manovella. Solo nel 1920 il jukebox raggiunse pressappoco la sua foggia moderna, con l’arrivo dei dischi registrati e riprodotti con la corrente elettrica.

Da allora, le maggiori case produttrici americane fecero a gara per adottare e copiare, di volta in volta, i migliori sistemi di cambio dei dischi. Ma anche le novità estetiche predilette dagli acquirenti. La Wurlitzer rimase l’indiscussa padrona del mercato fino agli anni ’60, rendendosi protagonista di un’imponente campagna pubblicitaria, che accostava lo svago e il divertimento dei giovani al jukebox. Anzi, che lo rendeva indispensabile. Il suo prodotto di punta, il 1015 Wurlitzer, riempì riviste e spot pubblicitari, tanto da imporsi nella memoria collettiva come uno dei simbolo di quegli anni ruggenti. Ne furono costruiti ben 50.000 esemplari. Vi starete chiedendo, forse, se uno di quelli è lo stesso che duetta con Fonzi. No: quello di Happy Days è un  Seeburg HF100G che, a dispetto della probabilità inferiore che avreste avuto in quegli anni di incontrarne uno, si è imposto nell’immaginario collettivo come il jukebox per eccellenza dei “fifties”. Certo, in quanto a funzionalità rimase imbattibile: fu il primo, e rimase il solo, a contenere 100 dischi a fronte dei 24 degli altri esemplari.

Ma che significa la parola jukebox? Forse nulla, o meglio: del significato originario si è persa l’origine precisa. La parola, secondo alcuni, deriverebbe dalle “juke houses”, cioè i postriboli dell’anteguerra, all’interno dei quali veniva spesso suonata musica senza sosta. Altre versioni lo vorrebbero derivare dalla corruzione della parola “jook”, un termine che nello slang dei neri americani significava danzare. Il termine sarebbe comunque diventato invalso solo dopo la Seconda guerra mondiale.

Il jukebox, che aveva brillantemente superato la sfida lanciata dalla radio, nonché la terribile crisi del 1929, sembrava destinato a superare, come in effetti fece, le tumultuose rivoluzioni tecnologiche che si susseguirono dopo il 1945, adeguandosi prima ai dischi, passati dai 78 a 45 giri, poi all’hi-fi, al disco microsolco e, infine, allo stereo. Godendo di una diffusione pressoché ubiqua fino alle soglie degli anni Ottanta. I primi segni di cedimento del mercato arrivarono proprio allora. Nel 1982 il New York Times riportava un articolo dal titolo già nostalgico: “Il jukeboxe, una hit del passato, a quanto pare”. Il numero di esemplari presenti negli Stati Uniti si era più che dimezzato, nel giro di pochi anni, passando dai 700mila degli anni ’50 ai meno dei 300mila di quegli anni, rimpiazzati negli angoli dei locali dai flipper e dai videogiochi, ma anche dalle musiche di sottofondo. Nonché dalle discoteche, fonti di musica già allora molto affollate.

Non solo la TV ma anche il cinema ha flirtato molto con i jukebox, dalla scena del ballo di “Giungla d’asfalto” di John Huston (1950) a quella di “V per vendetta” di James McTeigue (2005) con Natalie Portman, passando per “Grease” (1978). Ma basterebbe fare un piccolo esperimento e vedere nei prossimi 5 film che vedrete se ne compare uno. Per un censimento sorprendente – con link analogo a piè di pagina sui flipper – rimandiamo alla teutonica precisione del sito tedesco jukebox-world.de, che ai film associa i modelli che compaiono, e in molti casi anche i fotogrammi, in una specie di pornografico modernariato. C’è qualche mancanza, è vero: come il modello che compare nel film di Martin Scorsese “Mean Streets” (1973), epico perché riproduce allo stesso tempo i Rolling Stones (erano gli anni ’70) e il tenore Giuseppe Di Stefano. Ma anche, per esempio, quello di “Mystic river” (2003), come ha notato casualmente chi scrive, riguardando il film su Netflix qualche sera fa.

Con la scomparsa dei jukebox, rimasti in qualche bar molto nostalgico o nei mercatini di antiquariato, finiva più che un epoca un costume: quello di partecipare alle colonne sonore delle serate, battagliando o convergendo sui brani da riprodurre. Un tempo in cui la competenza musicale non era facoltativa ma necessaria: come selezionare i brani se si ignorava l’artista e il titolo? Ora nei bar è possibile fare al massimo qualche richiesta, spesso accolta di malavoglia dai gestori, perché non in linea con la play-list preparata su Spotify. Ma ora che ci pensiamo, ci sono ancora apparecchi che riproducono musica in molti bar quando si inseriscono delle monetine: i video slot. Anche se, in quel caso, la musica è sempre, tristemente, la stessa.

Il Piccolo di Cremona, 23 novembre 2019

Europa, prodotto scadente della Germania unificata

01/11/2019 • Entrava in vigore 26 anni fa il Trattato di Maastricht. Tra il sarcasmo dei britannici

“Nessun taglio del nastro o sventolare di bandiere. L’era dell’Europa comincia con un silenzio assordante”, scriveva quel 1° novembre del 1993 un quotidiano inglese. E infatti il giorno in cui entrò in vigore il Trattato di Maastricht, cessò di esistere la Comunità Economica Europea (CEE) e nacque l’Unione Europea, non ci furono celebrazioni ufficiali. Anche gli uffici erano deserti: gli impiegati erano in vacanza per Ognissanti. “Oggi è il giorno – si leggeva sempre nell’articolo del Guardian – in cui i cittadini inglesi si sono trasformati in un essere umano nuovo e più nobile: sono diventati cittadini dell’Unione Europea”. Retorica? No, sarcasmo. Preso di mira, nello specifico, era il concetto di “cittadinanza europea” introdotto dal Trattato, garante di diritti, libertà di movimento e accesso ai servizi; concetto contro il quale proprio gli inglesi, 23 anni più tardi, si sarebbero battuti fino a uscire dall’UE.

Quel 1° novembre non ci furono celebrazioni perché la firma del trattato era avvenuta a una distanza politicamente siderale: il 7 febbraio dell’anno precedente, un anno e mezzo prima, in quel caso sì tra qualche festeggiamento. Tre, i punti programmatici o “pilastri” fissati: l’accorpamento delle tre forme di unione comunitaria (CEE, la Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio – CECA ed Euratom) nella sola UE; una politica estera di sicurezza comune; la cooperazione in materia di giustizia e affari interni. Era nata l’Unione, ma cominciava anche a profilarsi l’architettura che oggi conosciamo: maggiori poteri legislativi al Parlamento, per esempio, nonché la nascita del Consiglio dell’Unione Europea, che avrebbe riunito i ministri dei governi di ciascun paese (la sua formazione più nota è senz’altro l’Ecofin, che riunisce i ministri di economia e finanza dei paesi membri).

Si potrebbero citare anche l’istituzione della Commissione delle Regioni o gli altri punti programmatici (la rete di trasporti pan-europei, le politiche industriali, culturali o quelle a difesa del consumatore), ma il vero protagonista del trattato di Maastricht fu la moneta unica. Il trattato pose infatti le basi per l’adozione dell’euro il 1° gennaio 2002 e istituì la Banca Centrale Europea. A garanzia della stabilità della futura moneta, furono fissati anche i cinque parametri per poter entrare a far parte dell’accordo monetario. Riguardavano: l’inflazione, i livelli del debito pubblico, i tassi di interesse, il tasso di cambio.

Dopo la firma del febbraio ’92, furono quindi indetti i referendum nei singoli paesi: vinsero di misura o per un pelo (in Francia si disse favorevole solo il 51% dei votanti), tranne che in Danimarca, dove la sconfitta degli europeisti, oltre a far traballare l’intero accordo, fu seguita dalla concessione di alcune deroghe. Non da ultimo, ci fu il problema dell’Inghilterra che si sfilò dall’accordo monetario e fece giungere il Trattato sull’orlo del fallimento. Nei paesi aderenti, poi, le dure manovre economiche per rispettare i parametri crearono tensioni sociali (in Italia si ricorda quella “lacrime e sangue”). Ma fino al 2007, anno della crisi dei debiti, l’Europa sembrò andare nella direzione sperata: aumentò il benessere e riduzione delle disuguaglianze tra i Paesi membri.

Maastricht fu però anche un simbolo del cambiamento di rotta dell’idea di Unione. Con la ratifica di un patto che avrebbe legato in maniera inscindibile le economie europee, il progetto federalista politico di Altiero Spinelli veniva ribaltato. Anziché lottare per un’unificazione politica sempre più accentuata (nella forma di una Federazione degli Stati Uniti d’Europa), ci si impegnava nella direzione della cooperazione economica e del benessere. L’unione politica sarebbe seguita spontaneamente. Si arrivava, del resto, da un periodo di “euro sclerosi”, tra i Settanta e gli Ottanta, periodo dal quale l’Europa era riuscita a disincagliarsi proprio grazie a una schiera di politici e pensatori pragmatici, il cui capofila divenne l’economista francese e presidente della Commissione europea Jacques Delors. La loro idea era chiara: perseguire l’assestamento degli interessi economico dei paesi membri. E la chiave sarebbe stata l’unificazione monetaria.

In rete, sul trattato di Maastricht, si trovano molti contributi dietrologici che ridurrebbero l’Europa a un comitato d’affari di banchieri senza scrupoli. Si tratta perlopiù di ciarpame, è chiaro, per quanto Maastricht fu un avvenimento geopoliticamente più complesso di come viene spesso presentato dalla retorica europeista. Una narrazione disincantata, cinica e plausibile dell’approdo alla ratifica porta il nome di Gianni De Michelis, l’allora Ministro degli Affari esteri del Governo Andreotti. La ricostruzione di quel che accadde allora fu pubblicata già nel 1996 sulla rivista Limes.

L’evento scatenante della fisionomia finale del Trattato fu infatti la caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre del 1989. Il cancelliere tedesco Helmut Kohl negoziò infatti la riunificazione della Germania, a patto che si fosse accelerato il progresso di integrazione, come fu richiesto soprattutto della Francia. Le paure della Francia erano quelle che la Germania avrebbe potuto, come si diceva allora, federarsi non solo con la DDR, ma confederare l’intero blocco ex-sovietico (Russia esclusa, naturalmente). Il già allora potente marco sarebbe dovuto allora diventata la valuta su cui modellare l’euro, così come la Bundesbank avrebbe fatto da modello alla Banca Centrale Europea (BCE). Kohl accettò e la Repubblica Federale di Bonn spostò finalmente la sua sede al Reichstag di Berlino.

Ma il Guardian quel giorno non disse nulla di tutto questo. Si limitò a constatare un altro aspetto che riguardava la cittadinanza europea: che sarebbe bastata la residenza in qualunque paese europeo per votare o candidarsi alle elezioni in loco. E non trovò di meglio da dire che dunque ci si sarebbe potuti aspettare che anche la pornostar Cicciolina, allora parlamentare italiana, si sarebbe potuta candidare sul suolo inglese. Una dichiarazione fatta da una distanza politica siderale, quando ancora l’Inghilterra godeva di quel prestigio che le permetteva frasi snob del genere.

Federico Pani

Il Piccolo di Cremona, 1° novembre 2019

L’epopea di Blockbuster, il cinema da portare a casa

19/10/1985 • In Texas apriva il primo negozio; oggi ne resta solo uno in Oregon

Bend è una città dell’Oregon, ai piedi della Catena delle Cascate, una catena di montagne che la separa dall’Oceano Pacifico. Conta quasi 100mila abitanti (un po’ meno di Piacenza). È una di quelle città americane che – se ho ben visto da Google Maps – si raggiunge dopo aver percorso per ore e ore una statale circondata da deserto e arbusti, con qualche conifera che segnala l’avvicinarsi dell’abitato. In città, si può fare qualche escursione e bere birra, bevanda a cui sono dedicati ben tre punti dei dieci must see nell’opuscolo turistico. Nulla di più; senonché, quasi all’incrocio tra la Route 97 e la Route 20, tra un negozio di cannabis e un crematorio per animali, c’è un negozio di noleggio di videocassette e dvd unico al mondo, che – ci scommetto – proprio in quell’opuscolo prima o poi verrà inserito. L’insegna è una grossa etichetta blu, inclinata e strappata su un lato, dentro la quale si legge, in una cornice gialla e dello stesso colore, la parola “Blockbuster”.

Blockbuster significa campione di incassi, anche se quel block (= quartiere) e buster (= distruttore) rimanda alla sua origine di sinistro ordigno bellico. Il negozio è gestito da Sandi Harding, una robusta signora di 48 anni, cresciuta a pizze surgelate e videocassette prese a noleggio, come a raccontato al Guardian. Ci lavora dal 2004. Nell’ultimo anno, si è vista arrivare un ragazzo dalla Spagna e una coppia dall’altra parte degli USA. Il primo, che in patria lavorava proprio da Blockbuster, è scoppiato in lacrime mentre videochiamava il suo ex-capo, aggirandosi tra gli scaffali dei film. La coppia, invece, era arrivata perché il loro figlio “facesse l’esperienza di vederne uno”; hanno noleggiato un dvd, consapevoli che non avrebbero trovato un lettore di vhs; poi, in albergo, hanno scoperto che nemmeno il lettore dvd c’era e sono stati costretti a comprare uno. Il motivo della visita del ragazzo spagnolo e della coppia americana è questo: a Bend si trova l’ultimo negozio Blockbuster rimasto sulla faccia della Terra.

Ora però prendiamo il nastro, infiliamolo nello sportello del videoregistratore e riavvolgiamolo finché un suono secco e meccanico ci avvertirà di poterlo rivedere dall’inizio, dopo i primi secondi di sfarfallio. Era il 19 ottobre del 1985 e a Dallas, in Texas, apriva il primo Blockbuster. Il negozio vantava un inventario di 6mila videocassette. Andò bene fin da subito e il fondatore, David Cook, investì altri sei milioni di dollari in un altro. Nel 1987 al cofondatore Wayne Huizenga, che lo aveva inglobato nella sua società mutuandone il nome, venne l’idea del franchising e fu il boom: negli anni successivi si arrivò a un ritmo di apertura di uno ogni 24 ore. Lo stesso anno, Blockbuster vinse la causa contro Nintendo per guadagnarsi anche il noleggio dei videogiochi e cominciò ad acquisire le maggiori rivali americane, sbarcando in una trentina di paesi. Nel 1998 arrivarono i primi dvd e il nuovo CEO John Antioco non si fece trovare impreparato: acquistò dalla Warner Bros i diritti di esclusiva per il noleggio, con un anticipo di sei mesi su quelli di vendita.

Forte di questo successo – del passaggio indolore tra vhs e dvd – Antioco aveva riso in faccia a Marc Randolph, che gli aveva proposto di acquisire la sua ditta di noleggio di dvd per posta, al prezzo di 50 milioni di dollari. La ditta si chiamava Netflix. Troppo facile ripensare ora a come sarebbe potuta andare se avesse accettato. Basti dire, però, che proprio quel no convinse Randolph a puntare tutto su un’azienda di software con l’obiettivo di “distruggere Blockbuster”. A dirla tutta, possiamo scrivere tranquillamente che, anche senza Randolph, sarebbe andata allo stesso modo. L’inevitabile fine del supporto fisico nel settore avrebbe condannato comunque al fallimento un’azienda che aveva da sempre puntato su un prodotto materiale. Nel 2004, Blockbuster impegnava più di 84mila persone e aveva 9mila negozi fisici. Quindici anni dopo, di quell’impero non restava più quasi nessuna traccia.

Volendo essere un po’ enfatici, per chi è nato e vissuto tra il 1980 e il 2000, Blockbuster ha portato il cinema, d’essai o campione d’incassi, nel salotto di casa; o almeno, lo ha reso definitivamente domestico. Oltre ad aver generato un fenomeno di nostalgia precoce. Personalmente, ricordo con la giusta commozione le liti con mia sorella per i film da guardare, ma anche per i pop-corn al caramello (anziché al cioccolato, che preferiva ed allora esistenti solo da Blockbuster), così come la gara a chi avrebbe infilato nella buca del negozio di via Aselli, a Cremona, la vhs o il dvd da restituire. Ma ricordo anche la faccia di mio padre quando si accorgeva di non aver restituito in tempo i film presi la settimana prima (lo si poteva fare entro il lunedì, altrimenti si pagava una multa); oppure la tessera di plastica sottile che era sempre in bella vista nel portafoglio dei miei. E poi tanti, tantissimi sabati sera passati lì a scegliere i film che avremmo visto. Non ricordo, invece, la musica di attesa del centralino che, mi hanno detto altri nostalgici, era quella dei titoli di testa di Star Wars.

Quando la notizia della fine di Blockbuster si diffuse, in molti provarono a reagire. Lo showman John Oliver, ad esempio, cercò di salvarne uno in Alaska, regalando al negozio il sospensorio usato da Russel Crowe nel film Cinderella Man. Ricevuto il cimelio, il negozio ricominciò a funzionare, ma dopo pochi mesi fallì come gli altri. Ancora nel 2008, Blockbuster compariva in una famosa scena nel film Yesman con uno stralunato Jim Carrey al telefono. Un omaggio in anticipo alla futura scomparsa? Sarebbe stata una bella uscita di scena, quella; ma la verità è che le notizie di perdite, chiusure, liquidazioni e licenziamenti si susseguirono senza sosta fino alla bancarotta. In Italia, Blockbuster arrivò nel 1994 e fallì nel 2012. Lo stesso anno in cui molti, a Cremona, passando da viale Trento e Trieste, videro le saracinesche del negozio abbassate per sempre.

E il Blockbuster di Bend city? Se lo volete vedere, non dovete affrettarvi: l’azienda che detiene il marchio Blockbuster ha rinnovato la licenza d’uso al negozio; e il contratto d’affitto dei locali non scadrà prima di qualche anno. Sono in tanti, comunque, compreso il New York Times, a chiedersi come sia possibile che sopravviva. Qualcuno ha parlato di una zona particolarmente difficile da collegare a una rete internet veloce abbastanza per lo streaming; altri, invece, sostengono che sia dovuto al carattere cinefilo della città (dove si tengono ben due festival all’anno). Nel frattempo, il negozio vende non solo vhs e dvd ma anche magliette e merchandising nostalgici: insomma, Blockbuster sta entrando nella mitologia degli anni ’90, insieme allo skateboard e alle converse. Lo si potrebbe candidare a museo ufficiale di quegli anni e forse non passerà molto prima che lo diventi. Intanto, si sa che sarà oggetto di un documentario, che però potrà essere visto per volontà dei produttori solo su supporto fisico e a noleggio e non in streaming. No, certo che no: e se ve lo perderete al cinema, probabilmente basterà cercarlo su Netflix.

Il Piccolo di Cremona, 19 ottobre 2019

Dido Castelli: dai “I Bastardi di Pizzofalcone 3” alla nuova opera su Alberto Sordi

Non solo gialli. Lo sceneggiatore Dido Castelli, nato a Cremona nel 1956, è noto nel mondo dello spettacolo prevalentemente per la sua carriera televisiva. E la sua carriera proprio di serie tv è fatta, perlopiù gialle: da “Un commissario a Roma” alla terza e prossima stagione dei “Bastardi di Pizzofalcone”. Ma oltre ad aver diretto anche alcuni film, uno dei lavori che può appuntarsi con maggiore orgoglio è senz’altro il film Rai “In arte Nino”, con Elio Germano, che è il ritratto di quello che Castelli considera il suo più grande maestro: Nino Manfredi. “Tra i grandi della commedia all’italiana – dice Castelli – lui era il più tecnico, il più americano, il meno personaggio e più attore. Elio Germano, che sul set è un vero perfezionista, si fece convincere a interpretarlo proprio perché la parte sarebbe stata per lui un vero atto di prova”.

In questo periodo, Castelli sta lavorando a un analogo ritratto televisivo su Alberto Sordi. “Sono molto orgoglioso che il ritratto di Sordi, l’icona massima nel cinema della romanità, sia stato affidato a me, che sono un cremonese. A differenza di Manfredi, non l’ho mai conosciuto personalmente. A maggior ragione, quindi, mi sono dovuto documentare moltissimo, soprattutto per raccontare l’inizio della sua carriera. In generale, quando si tratta di ritratti di grandi attori, gli esordi, che sono la parte ovviamente meno conosciuta, sono per certi versi anche quella più interessante: con il successo, molti tendono ad assomigliarsi, ad assumere un po’ gli stessi difetti. Nel caso di Sordi, una delle difficoltà maggiori sta nell’interpretazione: riprodurne semplicemente la maschera significherebbe farne una caricatura”.

Cosa significa scrivere per la televisione, con le sue scadenze e i suoi tempi?

Nella mia esperienza ho lavorato prevalentemente per la Rai ma anche per un altro grande network come Mediaset: in entrambi i casi, la scrittura di una serie tv è seguita da vicino dai cosiddetti funzionari ed editors, professionisti delle reti televisive. Il loro compito non è certo modificare la volontà dell’autore, ma fare in modo che i soggetti si adattino al meglio al pubblico di destinazione. Nel caso della tv generalista, il lavoro è difficile: a differenza di piattaforme come Sky e Netflix, che possono contare su pubblici più settoriali e quindi personalizzare i loro prodotti, i network come Rai e Mediaset devono prevedere un pubblico ben più variegato. In quel caso, i giovani restano i più difficili da raggiungere. Molti autori cercano allora di produrre qualcosa di un po’ più innovativo, un po’ più internazionale: ma l’ultima parola ce l’ha sempre il network.

Per quanto riguarda invece la realizzazione vera e propria di una serie, nell’ambito televisivo il rapporto autoriale tipico del cinema si rovescia: il regista non viene considerato il maggiore responsabile del prodotto; l’intelaiatura e l’autonomia creativa è più limitata e si deve rispettare un andamento seriale; perciò, è chi scrive i soggetti a dare la linea; e il regista si occupa della messa in scena. Se mi chiede come funziona più nel dettaglio, prendiamo l’ultima serie a cui sto lavorando, “I bastardi di Pizzofalcone”. È tratta dal romanzo di Maurizio De Giovanni. I personaggi che ha inventato nei suoi romanzi sono tutti presenti anche nella trasposizione televisiva. Ma per alimentare lo svolgimento di un prodotto seriale non basterebbero: ne abbiamo aggiunti altri. E per la verità, anche un solo sceneggiatore di solito è insufficiente: in questo caso, siamo una squadra di sei persone. Altrimenti, non sarebbe possibile la realizzazione di una serie intera nel giro di un mese, un mese e mezzo. Oltre a noi, come dicevo, c’è anche il personale del network, che ci presenta delle esigenze specifiche. Una di queste, ad esempio (e giusta peraltro), è stata quella di riservare ad Alessandro Gassman la parte più rilevante (quella dell’ispettore Giuseppe Lojacono) che nei libri non sempre risultava così centrale.

Mi chiede se ci sono delle regole di scrittura per i soggetti? Be’, ne esiste una generale che è quella di seguire due linee narrative. La prima è detta verticale, cioè attraversa la singola puntata: nel caso del giallo, si tratta delle vicende che portano alla risoluzione del caso sorto all’inizio di ogni puntata e che la chiudono. La linea orizzontale, spesso di natura sentimentale ma non solo (si veda l’esplosione dell’ultimo episodio della serie), attraversa invece le puntate e le stagioni.

Posto che rivelare qualcosa Le sarà vietatissimo, ci può dire come sarà la prossima stagione dei Bastardi di Pizzofalcone?

Un po’ più noir.

Lei vive ormai da decenni a Roma: ha mantenuto un buon rapporto con la sua città natale, Cremona?

Cremona è sempre nel mio cuore: che io sia di Cremona, per dire, lo sanno bene anche i miei colleghi, e sento di rappresentare una di quelle tante provincialità che Roma ha saputo accogliere. La mia identità non può fare a meno del rapporto con la mia città natale. Purtroppo, ci vengo molto raramente, soltanto per trovare i parenti che mi rimangono. Ma Cremona, per me, resta un luogo dell’anima. La mia infanzia è fatta di nebbie, del Po e della città: sono nato in piazza Padella (una poco nota ma curiosa laterale di via Sicardo, dietro il Palazzo vescovile, ndr); poi mi sono trasferito in via Massarotti, che allora era quasi periferia. E fino ai 14-15 anni, quando ormai abitavo a Roma, ho passato diverse estati nella casa di famiglia di via Bonomelli.

Mi riprometto spesso di tornarci e confesso di avere un sogno: girare lì una fiction. Non che non ci abbia provato, ma non essendoci una film commission ci sono diversi problemi per chi si trova a deve allestire proprio lì un set. Eppure, sarebbe una location davvero bella e piena di fascino. Quindi sì, spero di tornarci ancora una volta, e di doverlo fare per motivi di lavoro.

Federico Pani

Il Piccolo di Cremona, 21 settembre 2019