L’italiano e lo sport, l’intervista a Rocco Luigi Nichil

Rocco Luigi Nichil (a destra, nella foto) è uno dei massimi esperti di lingua italiana legata allo sport: docente all’Università del Salento, collabora con la Treccani e ha dedicato al tema alcuni libri; il suo ultimo, scritto insieme a Pierpaolo Lala (a sinistra, nella foto), si intitola Invasione di campo. Il gioco del calcio nel linguaggio e nel racconto della politica. Gli ho rivolto alcune domande sull’uso quotidiano della lingua dello sport e, in particolare, del calcio.

Quasi ogni giorno, ci capita di fare gol a porta vuota, giocare di sponda, restare in panchina, partire in quarta, fare tappa o uno sprint. Che tipo di linguaggio è questo e, soprattutto, come mai facciamo così tanto ricorso alle metafore sportive, segnatamente a quelle riferite al calcio?

I traslati sportivi che si incontrano nella conversazione di tutti i giorni sono parte del cosiddetto linguaggio idiomatico, fatto di modi di dire e frasi fatte, con cui “coloriamo” i nostri discorsi. Oltre allo sport non è difficile scorgere in questo campo espressioni che provengono dal linguaggio della cucina, da quello del cinema e da altri ancora. Lo sport fa certo parte della nostra vita quotidiana, ma il calcio in particolare, nella società contemporanea, è diventato qualcosa di più di una semplice attività sportiva,  assumendo i caratteri dello spettacolo, tanto da essere oggi più “visto” e “discusso” che praticato.

Non è sempre stato così: nel corso del Novecento, il calcio ha sostituito nel cuore degli italiani quello che era in passato lo sport nazionale per eccellenza, il ciclismo. Che quest’ultimo fosse il vero sport nazionale, allora, lo dimostra, tra le tante cose, un episodio sospeso tra realtà e leggenda: nel 1948, dopo l’attentato a Palmiro Togliatti, secondo l’opinione comune sarebbe stata l’attenzione rivolta alla vittoria di Gino Bartali al Tour de France a scongiurare la guerra civile.

Le cose cominciarono a cambiare dopo la metà del secolo, soprattutto negli anni Sessanta, grazie alla vittoria dell’Italia agli Europei del’ 68 e dopo il celeberrimo 4-3 contro la Germania nei Mondiali del 1970. Il successo crescente del calcio è stato accompagnato, sotto il profilo linguistico, dalla diffusione di metafore ad esso legate: espressioni come essere di serie A o B, fare gol a porta vuota, zona Cesarini, e molte altre ancora, sono la conseguenze dello straordinario successo del calcio nella società italiana.

Alcuni cronisti sportivi hanno fatto notare che il vocabolario del calcio è più italianizzato di quello di altri sport, come il basket o il tennis: è così? E, se sì, perché?

È vero, e le ragioni per cui il vocabolario del calcio risulta italianizzato sono soprattutto storiche. Il calcio ha una data di nascita ben precisa: il 26 ottobre del 1863, infatti, a Londra i rappresentanti di alcune squadre di football si incontrarono per stilare un regolamento che potesse essere condiviso. Nacque così la prima federazione nazionale, la Football association. Ne ho scritto nel libro Il secolo dei palloni. Storia linguistica del calcio, del rugby e degli altri sport con la palla nella prima metà del Novecento, accostando il calcio al rugby, proprio perché i due sport furono praticamente la stessa cosa fino a quel momento: il football, appunto.

Di più: ogni college, allora, praticava la sua variante di gioco col pallone. Il nuovo regolamento consentiva quindi il superamento delle diverse interpretazioni locali. Va detto, tuttavia, che il calcio, a quell’epoca, era abbastanza diverso da quello a cui siamo abituati oggi: non c’era la traversa e il fuorigioco era per così dire totale, un po’ come l’in avanti nel rugby, perché tutti i giocatori di una squadra dovevano partire dietro la linea della palla; per un certo periodo fu persino consentito fermare la palla con le mani in tutte le zone del campo. Il calcio che fu poi esportato dall’Inghilterra nel resto del mondo era quello della Football association, ispirato peraltro al modo con cui si giocava a Cambridge già in precedenza: non a caso, il nome del nuovo sport fu un po’ ovunque, e anche in Italia, football association, proprio come il nome della prima federazione nazionale; di qui nasce anche la parola inglese soccer, dall’abbreviazione di association (soc-) con -er.

Ma veniamo all’Italia. La culla del calcio nel nostro paese, diversamente da come si crede non fu Genova, bensì Torino; da lì proveniva Edoardo Bosio, il vero pioniere italiano del calcio. Bosio era un industriale che aveva lavorato per qualche anno in Inghilterra e lì aveva conosciuto il nuovo sport: non a caso, fu proprio lui a portare in Italia i primi palloni di cuoio. Oltre al calcio, Bosio praticò anche con buoni risultati il canottaggio, e non è rara la combinazione in alcune polisportive dei due sport per potersi allenare tutto l’anno: il canottaggio d’estate e il calcio, per antonomasia, lo sport d’inverno.

Per i giornali, come abbiamo già detto, il primo nome del calcio fu football association. E anche il dizionario del nuovo sport era tutto inglese: l’arbitro era il referee, il portiere goal-keeper, l’attaccante forward, il centrocampista half, il difensore back. Nel percorso di italianizzazione del vocabolario del calcio, contò molto l’interpretazione (metaforica, ma fino a un certo punto!) della partita di calcio come una allegoria della guerra: due compagini che si affrontavano, l’una contro l’altra. Quelli che oggi chiamiamo attaccanti, centrocampisti e difensori, perciò, furono inizialmente chiamati prima, seconda e terza linea, come se fossero i reparti di un esercito al fronte. Solo più tardi, il calciatore di seconda linea divenne sostegno, poi mediano e infine, grazie probabilmente alla penna Gianni Brera, centrocampista (per influenza dell’inglese mid-fielder o center-fielder).

Alcuni termini, va detto, sono legati a cambiamenti di natura tecnica avvenuti nel corso del tempo: penso ad esempio alle numerose modifiche che hanno interessato la regola del fuorigioco. Può capitare, però, che non si conoscano o si perdano le tracce dell’origine di una nuova parola: è il caso di battitore libero, locuzione nata con l’evoluzione tattica dei primi anni Cinquanta e il progressivo abbandono del Sistema o Modulo WM a favore del catenaccio. Io e Pierpaolo Lala abbiamo parlato di questa espressione in Invasione di Campo, spiegando come il nuovo ruolo venne chiamato così proprio perché il calciatore non giocava in linea con la difesa, ma leggermente arretrato; oggi invece non esiste più nel linguaggio del calcio battitore libero, e neanche libero, come fu detto per anni, proprio perché l’evoluzione tattica seguita alla rivoluzione sacchiana ha portato ad abbandonare quel ruolo (con il ritorno della difesa in linea, si parla infatti di difensori centrali o centrali di difesa o solo centrali).

Nel corso del tempo, dunque, molte parole inglesi furono tradotte in italiano: penalty divenne (calcio di) rigore; goalkeeper si modificò in portiere, ma passando per una fase nella quale veniva chiamato guardiano (di porta); e i supporter divennero, naturalmente, i tifosi, ma soltanto però negli anni Trenta.

Uno dei protagonisti di questo processo di italianizzazione fu Luigi Bosisio, segretario della Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) che allora ancora si chiamava Federazione Italiana del Football (FIF). Nel 1907, fu proprio lui a chiedere alla Gazzetta dello Sport di cambiare il nome della rubrica dedicata al football, sostituendo a questo anglicismo la parola italiana calcio. Uno dei motivi che fu addotto allora era che si vantava un’origine tutta italiana dello sport, sebbene infondata, che affondava le sue radici nella tradizione del calcio fiorentino (o calcio in livrea) praticato fin dal Cinquecento nel capoluogo toscano. In realtà, si trattava di un’appropriazione impropria, visto anche che il calcio fiorentino, dal Seicento all’Ottocento, venne praticato soltanto in rare occasioni: non uno sport vero e proprio, quindi, ma una manifestazione spettacolare a carattere occasionale e celebrativo.

Sarebbe come dire che le corse dei cavalli che si svolgono oggi negli ippodromi derivino dal Palio di Siena.

Se possibile, ancora di più, dato che si arrivò persino a tracciare una storia tutta nostrana del nuovo sport, che, esulando dalle sue origini inglesi, riportava direttamente il calcio fiorentino all’arpasto (o harpastum) romano e all’episkyros greco, gli antenati più remoti del gioco del calcio. Né l’uno né l’altro, tuttavia, erano degli sport nel senso moderno, né tantomeno è possibile ipotizzare, almeno per l’Italia, una tradizione ininterrotta che dall’antichità arriva fino ai giorni nostri. Da un lato, più che di sport infatti, si trattava di forme di allenamento dei soldati e ci sono delle testimonianze della pratica dell’arpasto anche da parte delle truppe di Giulio Cesare stanziate nelle Gallie. Dall’altro lato, il calcio fiorentino probabilmente non è altro che un recupero tardo-rinascimentale dell’arpasto romano, di cui nel frattempo si era persa memoria; una riscoperta del mondo antico per certi versi analoga a tante altre che caratterizzano la cultura umanistica e rinascimentale. Nel nord della Francia, invece, l’arpasto continuò forse a essere praticato a lungo, ispirando poi attività molto simili, come la soule e la barrette, di cui si trova traccia anche nel medioevo. Un gioco simile a questi attraversò la Manica, passando nelle isole britanniche e, più tardi, diventò lo sport praticato nei college inglesi con il nome di football («You base football player» si legge già nel Re Lear di Shakespeare, risalente ai primi anni del Seicento). Tornando alla domanda sulla differenza tra il vocabolario del calcio e quello di altri sport, vorrei precisare che la ragione risiede, appunto, nel suo percorso lunghissimo, che dalla fine dell’Ottocento lo ha portato sino a noi.

E poi, naturalmente, ci si è messo di mezzo anche il successo crescente dello sport, diventando un fenomeno di massa.

Il successo di uno sport – come anche la diffusione di una moda o di una certa abitudine – ha un ruolo fondamentale nella promozione di alcune espressioni linguistiche. Si pensi, ad esempio, all’uso metaforico nella comunicazione politica della parola skipper o del verbo strambare, ossia cambiare velocemente posizione, che non è rimasto circoscritto solo a un noto appassionato di vela come Massimo D’Alema: si tratta infatti di espressioni utilizzate spesso anche da altri politici, ma non prima della regate di Coppa America che all’inizio degli anni Novanta portarono il Moro di Venezia di Raoul Gardini a vincere – primo sindacato italiano – la Louis Vuitton Cup. Aspettiamoci, a questo punto, un profluvio di metafore tennistiche, dopo i recenti successi di Matteo Berrettini ai campionati Open d’Australia.

Torniamo a Invasione di campo e al linguaggio sportivo usato in politica: quali sono le metafore che avete rilevato fossero usate più frequentemente?

Oggi, la maggior parte dei traslati di origine sportiva utilizzati nella comunicazione politica è senz’altro legato al calcio. Tuttavia, la metafora probabilmente più ricorrente in politica, soprattutto quando si parla di avversari, è rappresentata dalla coppia maratonetavelocista (o centometrista). Già negli anni Ottanta, in un articolo per La Stampa, Frane Barbieri aveva definito Reagan velocista e Andropov maratoneta, paragonando il primo a Jesse Owens, il trionfatore dei Giochi olimpici di Berlino nel 1936, il secondo a Paavo Nurmi, famoso mezzofondista. Si tratta davvero di una metafora di grande fortuna e di lunga durata. Pensiamo alla prima candidatura di Matteo Renzi alla segreteria del Partito Democratico, quando venne poi sconfitto da Pierluigi Bersani. Durante un’intervista, chiesero ai contendenti a quale sportivo si sarebbero paragonati: Bersani fece il nome del saltatore con l’asta Serhij Bubka (che chiamò, con un lapsus, Burka); Renzi paragonò sé stesso a Carl Lewis, plurivincitore alle Olimpiadi del 1984, e pensò per Bersani a Dorando Pietri, vincitore della Maratona di Londra del 1908. Quest’ultima comparazione non era però esente da una certa malizia: Pietri era stato infatti squalificato, in quanto aiutato dal pubblico, che lo sorresse negli ultimi metri della gara e lo accompagnò al traguardo (era infatti entrato in crisi a pochi metri dal compiere l’impresa e tra coloro che lo aiutarono, si disse, c’era anche Arthur Conan Doyle). Quando poi Renzi diventò segretario del Partito Democratico (e poco dopo presidente del consiglio), molti commentatori politici cominciarono a descriverlo come un ottimo centometrista, ma che andava valutato sulla lunga distanza; già nel 2014 Giorgio Guazzaloca aveva vaticinato: «Bravo come centometrista, però bisognerà vederlo all’opera come maratoneta» (Andrea Chiarini, la Repubblica, 24 gennaio 2014).

Se si vuole parlare dell’intreccio tra il linguaggio della politica e quello dello sport, segnatamente del calcio, bisogna però senza dubbio ripercorrere una fase decisiva per la storia del Paese, che coincide con l’inizio della Seconda Repubblica. Parliamo, da un lato, della discesa in campo (metafora calcistica!) di Silvio Berlusconi nel 1994; dall’altro, dell’intervento in politica di Romano Prodi, l’anno successivo. Nel febbraio del 1995, Indro Montanelli, in quel momento in rotta con Berlusconi, avvertì in un articolo su La Voce che Prodi non aveva le doti del velocista utili per vincere le elezioni, ma semmai quelle del maratoneta (per quanto tutti sapessero che Prodi fosse un grande appassionato di ciclismo). Ad ogni modo, il professore bolognese rispose riprendendo la medesima metafora: ammise di non possedere le doti del velocista, ma disse anche che all’Italia in quel momento servivano la resistenza e la perseveranza proprie di un maratoneta. E quando dieci anni dopo, in procinto di ricandidarsi alle politiche del 2006, qualcuno cercherà di attribuirgli doti da velocista, Prodi risponderà ironicamente: «Mi chiedete di cominciare adesso lo sprint? Se lo facessi tradirei la mia indole di maratoneta» (dal Corriere della Sera e da la Repubblica del 26 gennaio 2006).

Dunque è da allora che cominciarono a essere usate le metafore sportive con sempre maggiore frequenza nella comunicazione politica?

Sì, e anche qui le ragioni sono in larga parte storiche: negli anni Novanta, con la crisi delle ideologie, avvenne un cambiamento epocale; la politica italiana, in particolare, perse i due suoi maggiori punti di riferimento, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista; gli anni della politicizzazione, i Sessanta e i Settanta, erano orami lontani. Finiti gli entusiasmi e dismessi gli slogan legati alle grandi ideologie del Novecento, la politica si servì allora del calcio e del suo vocabolario per riaccendere quegli entusiasmi e, soprattutto, ricreare un senso di appartenenza.

Il cambiamento certo si rese manifesto proprio quando Berlusconi annunciò la propria discesa in campo, una metafora che peraltro nemmeno inventò: era stato infatti Paolo Valenti, storico conduttore di 90° minuto ad averla usata per la prima volta, in occasione della sua candidatura alle elezioni politiche del 1987. Non a caso, Berlusconi scelse anche il nome di azzurri per indicare gli appartenenti al partito e nacque poi la squadra di governo. Metafore di grande successo, si direbbe, tanto che lo storico capitano del Milan Franco Baresi, quando nel dicembre del ’94 il governo Berlusconi entrò in crisi, lamentò il fatto che non si poteva allontanare un allenatore prima della fine del campionato.

A forza di usare le metafore calcistiche sembra quasi che i politici abbiano cominciato a confondere la forma con la sostanza, un cambiamento del clima che si cominciava a respirare anche nelle contese tra i politici e nei loro botta e risposta. È così?

Sì, e che il clima di allora fosse cambiato, lo dimostrano tanti esempi. Giusto per citarne uno, prendo in considerazione un famoso confronto televisivo tra Gianfranco Fini e Francesco Rutelli, avversari nelle elezioni a sindaco di Roma. Bene, durante il dibattito, Rutelli ammise di essere tifoso della Lazio, un’affermazione che un politico della Prima Repubblica difficilmente avrebbe fatto. Fini invece disse di tifare per il Bologna e di avere anche una simpatia per la Lazio. Tra i candidati al primo turno, però, ci fu anche chi cercò ipocritamente di ingraziarsi le due tifoserie affermando di tifare sia per la Lazio sia per la Roma, e compiendo così, agli occhi di molti, una gaffe imperdonabile. E sul suo nome cadde la damnatio memoriae.

Un altro esempio: in un dibattito con l’economista Luigi Spaventa, suo avversario nel collegio uninominale del 1994, Berlusconi chiese all’interlocutore quante Coppe Campioni avesse vinto, forte di quelle che lui si era aggiudicato negli anni precedenti con il Milan («Provi Spaventa a vincere due Coppe Campioni!»). O ancora si pensi a quando lo stesso Berlusconi chiese la fiducia programmatica al Senato, nel 1994, poche ore prima che la squadra affrontasse il Barcellona di Cruijff nella finale di Champions League; dai banchi dell’opposizione qualcuno interruppe il discorso gridando «Auguri anche al Milan per questa sera», e il premier imperturbabile replicò «Siamo là a difendere i colori del Milan, di Milano ma anche dell’Italia».

Del resto, come non ricordare che proprio da allora nelle trasmissioni dedicate al calcio, come quella di Biscardi (di fatto, il vero inventore del talk show in Italia), cominciarono a essere invitati sempre più ospiti politici.

Ci sono delle espressioni che pensi siano usate scorrettamente o delle espressioni che proprio non tolleri, anche dal punto di vista idiosincratico?

Non sono contrario a priori all’uso di metafore calcistiche e sportive, nemmeno nella comunicazione politica. Se è un modo per semplificare un linguaggio, che un tempo era ben più oscuro (chi non ricorda le “convergenze parallele” di Aldo Moro?), direi che va benissimo.

Il problema è quando questo modo di esprimersi diventa sistematico. Ad esempio, se un politico come Renzi, poco dopo essere diventato per la prima volta segretario del PD, dice «lotterò su ogni pallone per onorare questa maglia», mi viene da pensare che non ci sarebbe bisogno di un ricorso così massiccio alle metafore calcistiche per spiegare quello che si intende. Insomma, se quell’uso serve per semplificare il discorso, è benvenuto. Se invece si cristallizza in una forma fissa, allora, diventa anch’esso, sebbene in forme diverse, un’espressione del politichese.

Ancor peggio è il ricorso a metafore calcistiche come forma di rispecchiamento nei propri elettori: è il modo che molti politici hanno per avvicinarsi alle persone comuni. Si pensi ad esempio all’uso delle felpe personalizzate e delle maglie calcistiche da parte di Matteo Salvini. Credo che non sia particolarmente interessante sapere se un politico tifa una squadra piuttosto che un’altra; al pari, per dire, della sua dieta alimentare. In questi casi, l’utilizzo di traslati sportivi appare persino una presa in giro degli elettori.

Per il resto, invece, mi ritengo abbastanza flessibile quando si tratta di questioni legate alla lingua: non credo nelle forme dirigistiche. Personalmente, anzi, sostengo che qualche problema possa prodursi nel caso di calchi da altre lingue, piuttosto che di prestiti. Non in tutti, naturalmente: grattacielo (skyscraper) non crea problemi, ad esempio, ma lo stesso non si può dire per jihad, che viene reso con guerra santa, ma significa semplicemente ‘lotta, combattimento’. Il calco, dunque, è ben più pericoloso di un semplice prestito. Poi, sul fatto che l’italiano sia una lingua influenzata dall’inglese e dall’angloamericano non c’è dubbio: non solo prendiamo in prestito delle parole, ma le inventiamo persino, come sono gli pseudo-anglicismi click day, smart working o smoking (parola che in inglese non designa l’abito da sera!). Se però, come dicevo, tutto ciò può migliorare il grado di intercomprensibilità o, semplicemente, se la maggior parte delle persone usa quelle parole, trovo che se ne debba pacificamente prendere atto. È l’uso che fa la lingua, non altro.

Federico Pani

Una versione ridotta è comparsa sul Piccolo di Cremona del 5 febbraio 2022

Invasione Di Campo è un libro di Lala PierpaoloNichil Rocco Luigi edito da Manni a giugno 2021

Verga, lo scrittore che fece dell’italiano regionale un’opera d’arte; l’intervista a Gabriella Alfieri

In Italia, Giovanni Verga è giustamente considerato un monumento letterario. Tra pochi giorni, il 27 gennaio, si commemoreranno i cento anni dalla sua morte. Lo facciamo anche noi, uscendo però dalla retorica scolastica, insieme a una delle massime specialiste in assoluto dello scrittore catanese, la presidente del Consiglio Scientifico della Fondazione Verga Gabriella Alfieri, docente di Linguistica italiana presso l’Università degli Studi di Catania.

Professoressa, perché vale ancora la pena studiare a scuola l’opera di Verga?

Verga fu un autore lungimirante e geniale per molti versi. Vorrei però rispondere a questa domanda riferendomi al lavoro critico che, in questo periodo, sta svolgendo la Fondazione Verga, in collaborazione col Centro Zola di Parigi: stiamo rileggendo i testi di Verga inserendoli nel contesto più ampio del realismo europeo di quegli anni. Non solo, perciò, Émile Zola, ma anche l’inglese Thomas Hardy, il tedesco Berthold Auerbach (dai cui Racconti rusticani della Foresta nera Verga trasse spunti tematici e stilistici), così come anche i russi Turgenev, Dostoevskij, Tolstòj, Gogol’ e Čechov. Questi autori, e molti altri in Europa, costituivano un’ideale comunità scientifica internazionale nel cui ambito, indipendentemente dagli effettivi contatti tra i singoli o dalla reale conoscenza dei testi, si condividevano nuclei tematici e strategie stilistiche. Da un’analisi stilistica comparata, per esempio, emerge che il ricorso ai proverbi, ai paragoni proverbiali o al codice gestuale non fosse una prerogativa soltanto dei Malavoglia: era una strategia condivisa anche da altri autori, come Hardy, Auerbach o la scrittrice francese George Sand.

Il secondo aspetto per cui penso valga la pena leggere Verga a scuola sono gli argomenti di cui tratta, che in qualche modo continuano a riguardarci. Pensiamo all’immigrazione: nel finale dei Malavoglia, ‘Ntoni è costretto ad andarsene dal paese; oppure, nella novella Primavera troviamo la storia di un giovane musicista italiano che va a cercare fortuna negli Stati Uniti. Poi, ci sono lo sfruttamento minorile e le rivendicazioni sindacali; Verga fu persino accusato di essere socialista per aver trattato temi come questi, un’accusa all’epoca equiparata a quella di sovversivo, dalla quale si difese nella prefazione del romanzo-dramma Dal tuo al mio, affermando di aver scritto solo con spirito “umanitario”. Possiamo poi ricordare lo stupro di una giovane contadina da parte del branco di balordi nella novella Tentazione o il femminicidio nel finale del Marito di Elena. In definitiva sono molti gli spunti di attualità che l’opera verghiana offre, senza contare  le allusioni alla storia d’Italia in maniera esplicita come in Libertà, novella che tratta della rivolta di Bronte, oppure con efficaci allusioni, come quella alla tassazione pressante e alla leva obbligatoria imposte da “questi Italiani” nei Malavoglia.

Certo, per trasmettere queste nuove istanze è necessario aggiornare costantemente gli insegnanti. Da anni, la Fondazione Verga, sotto l’egida dell’Accademia dei Lincei, tiene dei corsi di lingua e letteratura finalizzati a proporre nuove strategie di lettura e interpretazione dei testi. Bisognerebbe far precedere la lettura dei testi allo studio dei manuali storico-critici. È fondamentale che si parta dal leggere in classe i testi, elaborando direttamente da essi l’interpretazione critica: se ne capirebbero i meccanismi stilistici, così come le istanze più profonde e trasversali delle diverse culture. Si comprenderebbe che il realismo fu un fenomeno europeo, al pari del romanticismo, che viene percepito e proposto correttamente come movimento intellettuale internazionale ma che fu ben più elitario del realismo. Bisognerebbe poi insegnare ai ragazzi che il realismo – e poi il verismo ­– fu un movimento artistico esteso, anche pittorico e musicale. Accostare i testi visivi a quelli verbali, com’è intuitivo, aiuterebbe le nuove generazioni a interessarsi ancora di più all’argomento.

Che opere consiglierebbe a chi, non più a scuola, volesse leggere Verga?

Consiglierei tre letture, rappresentative di tre maniere o, meglio, di tre sperimentazioni letterarie di Verga. La prima è il romanzo Eva, che è di una modernità straordinaria, a partire dal linguaggio, ricco di dialoghi vivacissimi, quasi teatrali; lo consiglierei per comprendere appieno il realismo sociale e le piaghe che denunciava (la storia è quella di una ragazza che, alla fine, si ritrova a doversi prostituire per bisogno). Poi, naturalmente, I Malavoglia, il capolavoro assoluto di Verga. Infine Don Candeloro, una raccolta di racconti, nei quali Verga recupera alcuni temi che aveva già trattato in gioventù, come la monacazione forzata di Storia di una capinera, ripreso qui nella Vocazione di suor Agnese, ma con più crudezza e scetticismo. Questa raccolta di novelle è il capolavoro tardo dello scrittore, un’opera che si avvicina alla scrittura modernista del Novecento. Verga, del resto, morì a 82 anni, un’età notevole per allora, la quale gli permise di attraversare la storia dell’Italia toccando, nei suoi estremi artistici, il romanticismo e il modernismo. Per questo è un autore che merita assolutamente una rivisitazione integrale e il centenario sarà un’ottima occasione per farla.

Veniamo al rapporto tra Verga e l’italiano. Nei testi di scuola, si parla perlopiù di una scrittura che traduce in italiano il siciliano, soprattutto nella sintassi che ricalcherebbe quella del dialetto. In realtà, come ha spiegato nei suoi studi e in una sua lezione fruibile in rete, la questione è più complessa. Da un lato, c’è la stratificazione della competenza linguistica che interessa Verga in prima persona, in quanto esposto a differenti varietà dell’italiano nel corso della sua vita. Dall’altro, c’è l’uso consapevole della lingua nella scrittura letteraria, in cui Verga aspirava a riprodurre l’italiano  ‘popolare’.  È possibile istituire un paragone con Manzoni?

Sì, anche se più che di italiano popolare, che è l’italiano parlato e scritto dai semicolti, io parlerei di italiano regionale o meglio regionalizzato. Si accennava, prima, ai Promessi Sposi; bene, Manzoni ha forgiato l’italiano parlato letterario, che, come ha dimostrato Luca Serianni, diffondendosi poi in tutte le classi sociali grazie alla lettura del capolavoro manzoniano, ha favorito la formazione del cosiddetto italiano neostandard o dell’uso medio. Verga ha compiuto un passo ulteriore, forgiando un italiano parlato regionale in cui si fondevano modi di dire e tratti dell’oralità comuni a siciliano, toscano, milanese e perfino piemontese e veneto. Per fare un esempio, il modo di dire acchiappare le febbri, di origine milanese, viene riciclato per i contadini siciliani che hanno contratto la malaria. Questa straordinaria capacità mimetica, per cui il dialetto diventa la chiave per rappresentare il parlato popolare, è il risultato del vissuto linguistico di Verga: trasferitosi a 25-30 anni prima a Firenze e poi a Milano, lo scrittore si rese conto che gran parte del lessico e dello stile sintattico del parlato regionale rispecchiava un fondo idiomatico comune italiano. Proprio com’era avvenuto a Manzoni durante la famosa risciacquatura dei panni in Arno, Verga individuò quindi quei moduli comuni al siciliano e ad altre varietà regionali come il toscano, il milanese, il piemontese e così via. All’arricchimento di questi moduli espressivi contribuì la frequentazione a Milano di intellettuali da tutta Italia: il sardo Salvatore Farina, il ligure Edmondo De Amicis, il veneto Antonio Fogazzaro, il triestino Emilio Treves e altri ancora. Il grande merito di Verga fu di avere dato una veste artistica a questo italiano regionale comune, forgiando, appunto, un italiano interregionale letterario. Che in certo modo coincide con l’italiano che parliamo anche noi tutti giorni, spesso anche nelle persone più colte, interferito dalla pronuncia, dalla sintassi e dal lessico regionale.

Le conclusionia cui arrivò Verga oggi sono patrimonio condiviso dalla realtà sociolinguistica italiana: sono riconosciuti come moduli espressivi comuni, ad esempio, il parlato foderato, in frasi del tipo “lo dici tu, lo dici”; il che polivalente, che al contrario di ciò che pensava Luigi Russo non è tipico del siciliano ma è panitaliano (tanto che si trova anche nei Promessi Sposi e nell’opera di Petrarca); il ci attualizzante (es. ci ho una casa, o non ci ho colpa); e infine, ma si potrebbero citare molti altri esempi, il ricorso frequentissimo a proverbi e modi di dire. Dobbiamo quindi uscire dallo stereotipo che vuole che la lingua di Verga sia un siciliano italianizzato o viceversa: è una soluzione stilistica nuova che sarebbe servita da modello a moltissimi scrittori del Novecento, come Federigo Tozzi, Elio Vittorini, Riccardo Bacchelli. Credo che questo tema potrebbe essere oggetto di studio in classe anche, perché no, in chiave antilocalistica. L’istanza di questi scrittori, infatti, era quella di rappresentare la realtà regionale, ma in una lingua comprensibile a tutti, quasi fossero dei documentaristi dell’Italia postrisorgimentale. Era una missione scientemente perseguita, peraltro, anche dal governo di allora: lo dimostrano alcune riviste finanziate pubblicamente come La rassegna nazionale, che pubblicava manifesti letterari nei quali si invitavano gli scrittori a rappresentare ciascuno la propria regione. Ecco, questo è il contesto nel quale andrebbe correttamente inserito Verga.

Perché non viene sottolineato a sufficienza tutto ciò?

Credo che il motivo stia nel fatto che il linguaggio di Verga è così vicino al nostro parlato, da non percepirne più la novità, come invece doveva accadere un tempo. Un esempio: tutti diciamo frasi del tipo “Il giornale oggi lo compro io”, una frase che rispecchia modalità tipiche del parlato, come la dislocazione a sinistra nella cosiddetta sintassi marcata o segmentata, e si fonda sull’evidenziazione del tema (in questo caso “il giornale”) che viene posto all’inizio di frase e ripreso poi da forme pronominali (“lo”). Bene, Verga e autori a lui contemporanei, o che a lui si sono ispirati, hanno fatto costante ricorso a frasi di questo tipo, che sono appunto tipiche dell’italiano parlato.

Non pensa che ci sia quantomeno una linea di tensione tra la volontà di esprimersi in un idioma condiviso per rispondere all’etica postrisorgimentale e la necessità di rappresentare col colore locale una realtà linguistica regionale?

In un certo senso sì, ma dobbiamo contestualizzare l’istanza di quegli scrittori nell’Italia post-risorgimentale; c’era allora una grande volontà di fare conoscere le diverse realtà regionali, di cui si sapeva ben poco. È ciò che cercò di fare il libro Cuore, che allestì una propaganda (in senso positivo) di etica nazionale. Fare conoscere le specificità locali, sì, ma per avvicinarle, rappresentandole in un italiano caratterizzato regionalmente, ma comprensibile a tutti. Penso, tra i tanti, a Caterina Percoto e Ippolito Nievo e ai loro racconti sui contadini friulani; erano racconti con un’ottica paternalistica e da benefattori, certo, ma funzionali a fare conoscere quella realtà a tutta l’Italia, in un italiano ancora aulico ma interferito da citazioni dialettali. Verga fece questo per la Sicilia, così come Grazia Deledda lo fece per la Sardegna o Gabriele D’Annunzio per l’Abruzzo, ma andò oltre, forgiando l’italiano interregionale letterario, in cui tutti gli elementi stilistici dell’oralità e del dialetto – anzi dei dialetti – si amalgamavano. Queste narrazioni servivano a dimostrare che le realtà d’Italia condividevano un po’ tutte gli stessi problemi; era un modo, se ci si pensa, che poteva servire anche per vincere i pregiudizi reciproci.

Vengono in mente, a sentirla parlare, alcune righe dell’incipit di Fontamara di Ignazio Silone: “… i contadini poveri, gli uomini che fanno fruttificare la terra e soffrono la fame, i fellahin, i coolies, i peones, i mugic, i cafoni, si somigliano in tutti i paesi del mondo…”. Detto ciò: ci può fare un esempio di quello che lei ha definito un conguaglio linguistico, ossia quella tensione verso un parlato regionale comune?

Un esempio clamoroso è l’espressione farne tonnina, ‘fare a pezzi’, che caratterizza i personaggi di novelle, drammi e romanzi siciliani e milanesi di Verga, ed è condivisa dai rispettivi dialetti e dall’italiano di Carlo Goldoni. Tra l’altro, non dobbiamo dimenticarci che uno dei filoni in cui Verga si impegnò come autore è proprio il teatro. A quei tempi, infatti, il teatro aveva la funzione linguistica che oggi ha la televisione, dato che ci si andava spessissimo, quasi ogni sera. Bene, provate a immaginare il senso di stupore che dovette aver provato Verga, quando si rese conto che il modo di dire farne tonnina era stato usato anche da Goldoni. E poi non dobbiamo dimenticarci un’altra questione: sia la scuola sia gli scrittori di allora erano anti-dialettali. Noi oggi ci possiamo permettere il lusso di rivalutare il dialetto, perché possediamo l’italiano, che bene o male parliamo tutti. Se oggi il dialetto restituisce una dimensione pittoresca e, in certi casi, persino affettiva o ludica, all’epoca era un autentico ostacolo sociale, da superare. Verga, ad esempio, rimproverò a Capuana di avere deciso di tradurrei suoi drammi in dialetto siciliano, dicendogli che li avrebbero capiti soltanto a Catania e a Mineo.

Con la sua opera Verga infatti aprì la strada a chi voleva raccontare una realtà locale e, al contempo, garantirsi il massimo grado di comprensibilità. Nei Malavoglia, per esempio, tutti i proverbi sono tradotti, anche a costo di stemperare il significato dialettale; e se c’era un equivalente toscano adeguatamente espressivo fornito dalla raccolta interregionale del Pitrè, Verga inseriva la variante toscana. Nell’italiano interregionale di Verga confluiscono poi tratti morfosintattici provenienti da altri italiani regionali, ad esempio l’articolo davanti ai nomi propri femminili (un tratto tosco-settentrionale), che compare addirittura nei Malavoglia: la Mena, la Lia, la Barbara; il motivo è che Verga voleva scrivere un romanzo italiano nel quale la popolanità fosse percepita da tutti come tratto trasversale e condiviso. Era dunque un modo per fare arrivare in maniera ancora più chiara il messaggio a tutti i lettori dell’Italia unita. E il procedimento per farlo era tutt’altro che casuale, bensì frutto di un preciso apprendistato linguistico. L’anno prossimo la Fondazione Verga pubblicherà il bel lavoro di due dottorande sui carteggi verghiani che dimostrano come l’evoluzione della competenza linguistica dello scrittore fosse parallela allo sviluppo della sua variegata competenza stilistica. E lo dimostrerà su scala più ampia il Vi.Ver, Vocabolario digitale dell’italiano veristico, che stiamo elaborando con l’Accademia della Crusca, in cui rientrerà la lingua di tutti i veristi italiani.

Federico Pani

Una versione ridotta dell’articolo è comparsa anche sul Piccolo di Cremona del 15 gennaio 2022

L’italiano e l’arte, l’intervista a Veronica Ricotta

L’italiano è una lingua artistica o una lingua di artisti? Proviamo a rispondere, tornando alle origini del linguaggio dall’arte, segnatamente dell’arte figurativa e pittorica, rivolgendo la domanda a Veronica Ricotta, ricercatrice di Storia della lingua italiana alla Università per Stranieri di Siena. La studiosa, tra i suoi lavori, vanta infatti anche la cura dell’edizione critica del primo testo in volgare italiano sul linguaggio dell’arte, il Libro dell’Arte di Cennino Cennini, composto tra la fine del Trecento e i primi anni del Quattrocento.

“Potremmo dire che l’italiano è sicuramente una lingua di artisti. Nella sua storia, la lingua letteraria è stata dominante nella questione della lingua e nella ricerca di un italiano unitario. E, come le altre lingue, potremmo dire che è artistica per la sua naturale evoluzione: conosce una perenne spinta al neologismo, alla nascita di nuove parole attraverso consueti meccanismi di formazione, all’assegnazione di nuovi significati a parole già esistenti

Come cominciò a svilupparsi il linguaggio dell’arte in volgare, sul finire del Medioevo?

Essendo un linguaggio tecnico, legato a un sapere pratico, le prime testimonianze scritte del lessico pittorico e figurativo sono più tarde rispetto alla circolazione orale; si trattava, insomma, di un linguaggio che necessariamente già circolava tra gli operai che lavoravano ai cicli di affreschi nei cantieri, così come tra gli artigiani e gli apprendisti che lavoravano nelle botteghe. Tra le testimonianze più antiche di questi termini in volgare italiano troviamo il “Libro dell’arte” di Cennino Cennini, testo già maturo nella sua composizione, tanto che ancora oggi è adottato in contesti contemporanei, come le scuole di restauro e alcune botteghe artigiane.

Ci sono poi altre fonti, più avventizie direi, come i contratti che i committenti stipulavano con gli artisti o, meglio, con gli artefici, come si diceva allora; sono testi pratici: contratti o cedole di pagamento, dove compaiono i nomi delle tecniche e dei materiali impiegati, come i coloranti e, più in generale, ciò che serviva per realizzare l’opera. In generale, se il lessico architettonico ha molti più debiti col linguaggio dotto, quello dell’arte figurativa è invece ben più legato agli ambienti di bottega.

Possiamo vedere la storia di almeno un paio di parole nate allora, poi magari specializzatesi, e arrivate fino ai giorni nostri? Ma prima un piccolo dubbio: perché si sente dire sia acquerello sia acquarello?

In italiano antico il vocabolo acquerello esisteva già prima del “Libro dell’arte” (dove peraltro compare quasi sempre nella forma femminile acquerella), ma con il significato di ‘vinello leggero (ricavato dall’acqua passata sulle vinacce)’, in realtà non così distante, per consistenza, dall’acquerello o acquerella di Cennino, dove indica un composto di inchiostro stemperato con acqua.

La differenza tra acquerello, variante preferibile, e acquarello è dovuta alla preferenza assegnatale dal sistema fonologico toscano (tecnicamente i linguisti chiamano questo fenomeno “alternanza di ar e er intertonica”). Menzionerei subito il verbo disegnare, che originariamente aveva il significato, per così dire, neutro di delimitare; fu proprio Dante, peraltro, a usare il verbo in maniera matura e consapevole con il significato artistico che oggi conosciamo. Un altro termine che si è specializzato è tempera, che indicava la modalità di fare un colore, e che poi è passato a indicare il manufatto stesso: la tempera originariamente era la colla o il rosso d’uovo adoperati per rendere il colore più brillante e facilitarne la stesura. Nel libro di Cennino, troviamo anche la parola maniera, che avrebbe assunto il suo significato proprio solo con Giorgio Vasari, ma che serviva già a indicare il modo di operare di un artista, la riconoscibilità del suo stile.

Parole di lungo corso sono anche miniato e miniatore, sebbene il significato sia leggermente cambiato: il minio, da cui deriva il verbo e il nome, è il colore rosso, che serviva a realizzare le rubriche dei manoscritti (dei piccoli sommari dei capitoli), un colore, all’epoca, più disponibile del più pregiato rosso cinabro. Molti dei termini dei colori nati allora, va detto, si sono conservati fino ai nostri giorni. Compaiono già nel Medioevo, ad esempio, blu oltremarino, il più pregiato tra i colori blu perché derivava dalla macinazione dei lapislazzuli, ma anche altre parole, oltre a quelle più comuni, come indaco, ocra, verderame, vermiglio e porporina, arrivate fino a noi.

Al contrario, un colorante il cui uso e nome sono andati persi era detto baccadeo, in quanto si diceva proveniente dalla città di Bagdad, come nel caso del colore, doppiamente esotico, di indaco baccadeo. Anche altri nomi sono scomparsi dall’uso, come berrettino, biavo e biffo. Uscendo dall’ambito dei colori, ci sono poi alcune parole che non hanno avuto successo, come ammorbidare, che significa ‘mischiare insieme dei colori, sfumare’, presente solo in Cennino. Poi, ci sono invece le parole, decisamente vitali, che il linguaggio di tutti i giorni ha importato dall’arte. Giusto due esempi. La parola adombrare, che ha il significato tecnico di ‘scurire, realizzare le zone d’ombra’, oggi è usato perlopiù nel suo significato figurato e psicologico. Ma anche affresco, se ci si fa caso, viene spesso usato nell’italiano comune nel suo significato traslato: realizzare un affresco di una situazione significa offrire un riassunto complessivo.  

Ci sono altre parole, anche molto comuni, nate più tardi?

Certamente, e alcune parole che potremmo pensare come antiche sono invece più recenti; penso appunto al termine affresco, che viene datato al 1809 (anche se qualche attestazione si può recuperare tra Sei e Settecento), anno dell’ultima redazione della Storia pittorica della Italia dell’abate Luigi Lanzi, dove la parola appare per la prima volta univerbata, col raddoppiamento della effe e la a in principio di parola. La prima attestazione del termine legato a quella tecnica, però, compare proprio nel volume di Cennino, benché nella locuzione in fresco. Quadro, invece, ha una storia particolare: i quadri, o le quadre, vengono già nominati nei testi tre-quattrocenteschi; e anche in Cennino si parla di quadri, ma in riferimento a opere dalla sola forma quadrata. L’uso del termine per come lo conosciamo noi è una parola quattro-cinquecentesca: prima, si ricorreva più volentieri a tavola, dato che la forma poteva anche essere tonda od ogivale.

A riprova del fatto che una lingua si evolve non solo per designare degli oggetti, ma anche le nostre abitudini di usarli o di rapportarci con loro. È così?

Rispondo con un aneddoto significativo. Un famoso storico della lingua, Gianfranco Folena, chiese a un altrettanto famoso storico dell’arte della Normale di Pisa, Matteo Marangoni, «Ma da quando un quadro si chiama in Italia quadro? Dante o il Petrarca non guardavano certo quadri…». Gli uomini e le donne del Medioevo, infatti, guardavano certamente delle opere pittoriche, ma sotto forma di tavole votive e di affreschi, ma non di quadri come li concepiamo noi.

Ci fai ancora qualche esempio lessicale?

Parlavano prima di Dante; bene, la sua opera è una fonte di molte parole legate all’arte, tant’è che molti studiosi hanno avanzato l’ipotesi che avesse una conoscenza diretta degli ambienti artigiani e artistici della Firenze del tempo. Non solo, Dante stesso avrebbe avuto dimestichezza con alcune delle tecniche artistiche: pensiamo all’episodio in cui Dante, nel capitolo XXXIV della Vita nuova, si ritrae nella parte esterna di una bottega, intento a disegnare «uno angelo sopra certe tavolette» tanto da non accorgersi che gli si sono accostati degli interlocutori. La Commedia, poi, si distingue per la ricchezza di colori, che si concentrano soprattutto nel Purgatorio, dal momento che il Paradiso è profondamente intriso di luce, mentre nell’Inferno i colori sono tetri e hanno spesso a che fare col sangue, come perso, sanguigno, vermiglio. Nel Purgatorio, si potrebbe menzionare il canto VII e la descrizione della Valletta dei Principi (“Oro e argento fine, cocco e biacca, / indaco, legno lucido e sereno, / fresco smeraldo in l’ora che si fiacca”, vv. 73-75), dove accanto all’indaco e all’oro, compare anche il cocco, una varietà di rosso simile alla porpora. Non bastasse, un’altra parola messa in circolazione da Dante è artista, sebbene non venga mai usata per designare i pittori di allora: si trattava, allora, di una categoria con un prestigio sociale decisamente inferiore a quello che avrebbe garantito loro appieno, solo in seguito, il titolo di artista.

Federico Pani

Una versione ridotta è uscita sul Piccolo di Cremona, 8 gennaio 2022

Notte silenziosa, notte santa che… luce dona alle menti

24 Dicembre 1818/1914 • Due secoli fa la prima esecuzione di “Stille nacht”, un secolo fa la celebre “tregua di Natale”

23 Dicembre 1914, fronte Occidentale nei pressi di Ypres: a poco meno di 50 metri, stretti nei loro cappotti e mantelle, chi intento a riposare, chi a svolgere qualche lavoro di manutenzione, i soldati tedeschi e inglesi sono rintanati nelle rispettive trincee; il campo di battaglia è un pantano immenso che di lì a poco si trasformerà in un campo gelato e innevato. Quel giorno, nelle trincee tedesche arriva del materiale inaspettato: sono alberi di Natale, inviati nientemeno che dal Kaiser Guglielmo. I soldati cominciano a piantarli, cantando una tradizionale canzone natalizia, “Stille Nacht”. Gli inglesi riconoscono la melodia: è la loro “Silent Night”; e rispondono intonandola a loro volta. Il giorno dopo, nel giorno della Vigilia di Natale, succede l’incredibile: alcune truppe tedesche escono dalle trincee agitando le braccia al cielo; sono disarmati. Gli inglesi fanno lo stesso. Si incontrano nella terra di nessuno. Si scambiano regali, cibo e bevande; fumano insieme e giocano a calcio.

La “Tregua di Natale” del 1914 fu un fatto isolato che interessò un tratto piuttosto ridotto del fronte e che, semplicemente, non produsse conseguenze: l’anno non fece in tempo a passare e la guerra ricominciò anche lì, violentissima, uccidendo, sfregiando e mutilando milioni di persone, questa volta senza interruzioni, fino al novembre del 1918; ancora oggi, si parla di quella tregua come di un autentico miracolo. A renderla possibile, più che l’invito all’interruzione delle ostilità da parte di papa Benedetto XV, fu probabilmente la familiarità che i reggimenti sassoni lì stanziati avevano con la lingua inglese e l’Inghilterra, in quanto molti tra loro erano stati ex lavoratori nei territori oltre la Manica. Non tutti, peraltro, in quei giorni, videro la cosa di buon occhio. A pochi chilometri a sud, gli alleati francesi e le truppe del Reich nemmeno si sognarono di fraternizzare, per non parlare del fronte russo. “Queste cose non dovrebbero accadere in tempo di guerra”, scrisse al quartier generale uno stizzito caporale, il cui nome era Adolf Hitler.

L’episodio ha ispirato il video musicale della canzone “Pipe of Peace” (1983) di Paul McCartney e un film di Christian Carion con Diane Kruger “Joyeux Noel” (2006), che ha un sottotitolo eloquente: “Una verità dimenticata dalla storia”; nemmeno allora, durante la guerra, del resto, sfuggì il valore pacifista, ma anche pericoloso dell’accaduto: cosa sarebbe successo se anche altrove, sul fronte, i soldati si fossero messi a imitare quegli uomini? Meglio dunque rubricarlo a un inaspettato e, appunto, miracoloso regalo di Natale, persino curioso, piuttosto che considerarlo come un segno di disperata e profondissima umanità.

Ma torniamo a un particolare di quei giorni, alla nota canzone di Natale cantata da entrambi gli schieramenti. La storia di “Stille Nacht”, che nella versione italiana si intitola “Astro del ciel”, risale addirittura a un secolo prima, al 1816, l’anno in cui Joseph Mohr, un sacerdote di un paesino dell’Austria, Oberndorf, al confine con la Germania e non lontano da Salisburgo, ne scrisse il testo. A musicarla, ben due anni dopo, fu il maestro elementare e musicista Franz Xaver Gruber. La prima versione fu eseguita la notte di Natale del 1818, forse diversamente da come ce lo aspetteremmo: da un coro a due voci con il semplice accompagnamento di una chitarra. L’organo della chiesa, infatti, era inservibile: un topolino, stando alla leggenda, ne aveva rosicchiato il mantice.

Secondo alcune stime, Stille Nacht è tutt’oggi cantata durante il Natale da circa due miliardi di persone in ben 350 tra lingue e dialetti diversi. Come riuscì la canzone a raggiungere un tale grado di popolarità? Torniamo alla leggenda. Con molta probabilità, non è vero che a rendere inservibile l’organo fosse stato proprio un topolino. Ma che l’organo della chiesa non funzionasse, lo dimostra il fatto che, poco dopo la prima esecuzione di Stille Nacht, fu chiamato ad aggiustarlo Carl Mauracher, erede di una famiglia di artigiani salisburghesi specializzati nelle riparazioni di organi. Mauracher non solo sentì la canzone, ma ne rimase colpito: prese con sé il testo e lo spartito, e li consegnò a coloro che allora erano considerati i maggiori rappresentanti della canzone popolare tirolese, le famiglie Rainer e Strasser. La canzone piacque moltissimo e i cantori cominciarono a farla conoscere in lungo e in largo, senza però preoccuparsi di specificare che la canzone non apparteneva al repertorio tipico della canzone tirolese (Salisburgo non fa parte del Tirolo).

Nel giro di dieci anni, Stille Nacht si diffuse così capillarmente nell’area germanofona, da venire pubblicata in diverse antologie. Come ha raccontato in una trasmissione radio il critico musicale Angelo Foletto, è proprio dalla pubblicazione di queste antologie che nasce un caso su cui poi si eserciteranno i filologi musicali, arrivando a scomodare nomi come Mozart o Haydn. Il punto è questo: se alcune antologie riportarono il canto come effettivamente era nato, ossia come una nuova canzone di Natale, altre ne parlarono come un canto popolare tirolese; altre ancora finirono per parlarne come di un più generico canto cattolico. Ma la storia di Stille Nacht non finisce qui: nel 1839, alcuni cantori popolari austriaci fecero tappa nientemeno che a New York; bene, già a partire dall’anno seguente, la canzone stava già diventando rinomata in tutti gli Stati Uniti. Non solo: Stille Nacht finì nel libro di un scuola di missionari ad Amburgo, inserita nel repertorio di preghiere e canzoni da diffondere nel mondo. Il successo, a partire dagli anni successivi, divenne planetario.

La traduzione letteraria della canzone in italiano, composta dal sacerdote bergamasco Angelo Meli nel 1937, per quanto familiare e, per molti, pregevole anche dal punto di vista artistico, non restituisce però appieno lo spirito della composizione originale. Le prime strofe di Stille Nacht trasmettono un’immagine di profonda serenità: “Notte silenziosa! Notte santa! / Tutto dorme, solitaria veglia / solo l’intima, santissima coppia”. Poi, dopo aver parlato di “amore divino” e della “salvezza /dalle altezze dorate del cielo”, la canzone lancia un messaggio di pace chiarissimo: “Notte silenziosa! Notte santa! / In cui oggi tutta la potenza / dell’amore del Padre si è riversata, / e come un fratello benevolo, / Gesù ha abbracciato i popoli del mondo” (che suona più forte di “luce dona alle genti / pace infondi nei cuor”; infatti, in molti casi, la versione riportata è “luce dona alle menti”). Ecco, piace pensare che siano state quelle parole a ispirare i pensieri di pace che hanno animato quei soldati che, per pochi giorni soltanto, nel freddo inverno del 1914, dimenticarono di essere nemici.

Federico Pani

Il Piccolo di Cremona, 24 dicembre 2021

“Dialetti emiliani e dialetti toscani”, l’intervista a Daniele Vitali

Daniele Vitali lavora come traduttore a Bruxelles, ma per chi si occupa di linguistica italiana è soprattutto noto come dialettologo. Il suo lavoro si contraddistingue per la completezza e l’acribia nelle ricerche condotte sul campo: con l’intenzione di studiare e, soprattutto, registrare i dialetti della sua regione, Vitali si è spinto in ogni angolo della sua Emilia-Romagna. La casa editrice Pendragon ha pubblicato l’anno scorso un imponente volume che raccoglie un’ulteriore impresa (è il caso di esprimersi così) realizzata da Vitali: lo studio dei dialetti che percorrono il confine appenninico della sua regione, nonché dei più generali sistemi linguistici a cui appartengono. Il titolo completo, esplicativo, del volume è “Dialetti emiliani e dialetti toscani. Le interazioni linguistiche fra Emilia-Romagna e Toscana. E con Liguria, Lunigiana e Umbria”.

Il metodo di Vitali consiste, come accennato, nell’indagine sul campo, ossia nella registrazione di quelle parlate di cui, in moltissimi casi, solo le generazioni più anziane sono ancora custodi. In questo, il suo lavoro si è ispirato al grande studioso Gerhard Rohlfs, dialettologo e autore della nota“Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti” (un libro peraltro recentemente ripubblicato dal “Mulino”). Un lavoro che si fa ancora più complesso non solo a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia, ma anche perché i madrelingua dialettofoni sono sempre meno, mentre le parlate locali, col passare del tempo, scompaiono o si italianizzano.

Al metodo di Rohlfs, Vitali aggiunge poi i risultati della scuola del linguista Luciano Canepari; la trascrizione fonetica unitaria di tutto il materiale raccolto è sicuramente uno dei grandi pregi della sua opera. Proprio Luciano Canepari è, del resto, colui che a questo come ad altri lavori di Vitali ha prestato la sua autorevole consulenza fonetica. Da non dimenticare, nel primo volume, il contributo del linguista e dialettologo Luciano Giannelli, uno dei maggiori studiosi di dialetti toscani, che ne ha curato la prefazione.

Come nasce questo volume, inquadrandolo nel suo percorso di ricerca?

I miei studi cominciano col bolognese, il dialetto della mia città, che mi interessava imparare. Scrissi insieme a dei parlanti madrelingua, in particolare Luigi Lepri, due vocabolari e una grammatica a cui seguirono altri studi. Poi, cominciai a realizzare delle registrazioni vere e proprie, creando un archivio di tutti i dialetti emiliani e delle zone circostanti. Insieme a Davide Pioggia, realizzai poi alcuni studi sui dialetti romagnoli (fra cui il libro “Dialetti Romagnoli. Pronuncia, ortografia, origine storica, cenni di morfosintassi e lessico. Confronti coi dialetti circostanti”), proseguendo in seguito la mia ricerca sul confine tra Emilia e Toscana. Ecco, i risultati degli ultimi e molti anni di ricerca sono confluiti in quest’ultimo libro.

Qual è, a grandi linee, il suo metodo?

Prima di procedere nelle ricerche sul campo mi sono sempre posto una domanda molto chiara: che cos’è che permette di dire che un dialetto è emiliano, un altro lombardo, uno veneto e così via? Ho stabilito allora dei criteri:sempre a partire da una ricerca sul campo, ho cominciato a studiare il dialetto dei centri regionali, ossia dei centri più rappresentativi del sistema, quelli sui quali non si può dubitare della loro appartenenza; nel caso dell’Emilia, dunque, ho cominciato a studiare il dialetto bolognese, nel caso della Lombardia, quello di Milano, e così via. Solo in base alla vicinanza o alla lontananza linguistica con questi centri regionali, ritengo sia possibile determinare una classificazione credibile.

Faccio un esempio. In un capitolo del secondo volume di “Dialetti emiliani e dialetti toscani”, parlo dei dialetti emiliani di pianura da Bologna a Piacenza. Bene, analizzandoli si vede chiaramente che c’è un digradare continuo, un cosiddetto continuum, fino a Piacenza. Ciò ha permesso di constatare che Reggio e Modena fanno ancora parte del sistema emiliano centrale; poi a Parma il dialetto, pur restando emiliano, cambia in parte il suo sistema; infine, si arriva a Piacenza, dove il dialetto che si trova è ancora emiliano, anche se decisamente lombardeggiante. Questo metodo mi ha permesso di arrivare a una conclusione che sfata un mito invalso in molti studi dialettologici: il punto di passaggio che ho individuato tra il sistema emiliano e quello lombardo non è la zona di Pavia, bensì quella di Piacenza.

Come si articola il suo ultimo libro?

Nel primo volume vengono descritti i dialetti toscani, che secondo alcuni non si distinguono davvero dall’italiano per la loro assoluta vicinanza, ma che in questo contesto chiameremo così. Ci sono dunque i dialetti di Firenze, Siena, Prato, Pistoia e le rispettive montagne; nel secondo capitolo, ci sono i dialetti di Lucca, della Garfagnana e della Versilia; nel terzo, quelli di Arezzo, dell’Umbria e della cosiddetta “Romagna toscana”. Nel secondo volume ci sono i dialetti emiliani. Nel primo capitolo di questo volume, come dicevo, riporto quelli della via Emilia da Bologna a Piacenza, escludendo quelli della Romagna e di Ferrara, ma solo perché ne avevo già parlato in precedenti lavori; nel secondo capitolo, mi occupo delle parlate dell’alta montagna bolognese; nel terzo di quelle dell’alta montagna di Modena e Reggio e, in parte, dell’alta montagna di Parma. Nel terzo volume, comincio con la descrizione del dialetto genovese a cui è dedicato il primo capitolo; nei seguenti, mostro come in una parte occidentale della montagna di Parma e di Piacenza i dialetti possano essere considerati liguri (o ligureggianti), benché non siano del tutto allineati con il genovese.

Sempre nel terzo volume, c’è poi un capitolo dedicato alla Lunigiana, una zona di difficile attribuzione linguistica, e che io tratterei come un gruppo a sé. La Lunigiana, infatti, è un caso particolare: non ha avuto un centro regionale, che è mancato a partire dal Duecento, quando l’antica capitale Luni è diventata una rovina; tuttavia, il tempo era stato sufficiente perché si formasse un modello linguistico lunigianese, poi dissoltosi in vari tronconi per la mancanza di un’unità politica e una capitale unificante. L’ultimo capitolo tratta delle isole linguistiche dovute a trasferimenti di popolazione: dalla montagna reggiana e modenese in Toscana (in particolare, le colonie in provincia di Lucca fondate dai montanari emiliani), e anche il fenomeno contrario; questi movimenti di popolazione hanno dato origine ad alcuni dialetti semi scomparsi, ma documentati.

Il quarto volume tira le conclusioni, ma non prima di avere dato conto di alcuni fenomeni vistosi: ad esempio, nel Sud Italia la doppia elle latina che ha dato origine a un suono di tipo d, come in siciliano cavallo -> cavaddu e stella -> stidda, ma la cosa è avvenuta anche in zone marginali della Toscana, come l’alta Garfagnana e la zona di Massa e Carrara. Questi e altri fenomeni erano stati spiegati ricorrendo alla teoria del sostrato, e dunque ricondotti alle lingue dei popoli preromani; in particolare, fu avanzata la bizzarra ipotesi che l’esito in d della doppia elle latina nella Lunigiana meridionale e in Garfagnana fosse da ricondurre al fatto che in quei luoghi si sarebbe trovato lo stesso popolo presente in Sicilia. Del resto, miti di questo tipo non sono certo inusuali: secondo alcuni, infatti, il passaggio di a ad e nelle parlate emiliane (italiano, andare; bolognese, andèr) andrebbe ricondotto al popolamento preromano celtico. Ecco, sono idee abbandonate a livello accademico, ma che restano popolari a livello di studiosi locali e di comune sentire.

In realtà, si tratta di un’evoluzione storica e non, come vorrebbe la teoria del sostrato, di una reazione quasi chimica tra uno strato, il latino, e il sostrato, le lingue delle popolazioni preromane. Ben più esplicativa è, ad esempio, la teoria sociolinguistica del prestigio, che vede i parlanti di un idioma subordinato adottare le novità di una lingua o dialetto più prestigioso, perché parlato in una capitale o dalle classi dominanti. Nell’ultima parte del libro affronto poi una delle idee consolidate dalla glottologia: l’idea che la linea di demarcazione linguistica che va da Carrara a Senigallia (ma che lungo la costa si sfarina: Carrara o Massa? Pesaro, Senigallia o Ancona?), quella che pressappoco segue la linea geografica e amministrativa fra Emilia-Romagna e Toscana lungo la cresta degli Appennini, sia il confine linguistico più importante all’interno del mondo romanzo.

A fronte del suo studio, che idea si è fatto di questa importante linea?

Ci sono due modi di considerare la linea sulla base dell’importanza che le si assegna. Da un lato, c’è chi crede che separi le parlare iberico-romanze (portoghese, spagnolo e catalano) e gallo-romanze (francese, occitano e i dialetti del nord Italia), dalle lingue romanze orientali (parlate italiche del centro-sud e il romeno). Dall’altro, c’è chi crede che sia una linea di demarcazione, ma tutta all’interno delle parlate italo-romanze (dialetti del nord, del centro e del sud Italia) e dei suoi sistemi più prossimi, come il romancio, il ladino, il friulano e il sardo.

Come si esce da questa contraddizione? Cominciamo con il consueto exemplum fictum: se un marziano facesse sosta a Firenze e poi a Bologna e sentisse parlare alcune persone nei rispettivi dialetti, avrebbe l’impressione di trovarsi di fronte a due lingue diverse. Se però camminasse tra Bologna e Firenze e compisse delle interviste per ciascun paese che incontra, riscontrerebbe un continuum linguistico e, sulla cresta, lungo il crinale tra le due regioni, troverebbe delle parlate che sembrano davvero una media aritmetica tra il fiorentino e il bolognese. Qui sta dunque il modo di risolvere la questione: constatando che il continuum romanzo esiste anche in questo caso, a testimonianza del fatto che si tratta di parlate tutte provenienti dal latino e che sono state usate da comunità che si sono sempre parlate tra loro.

Mentre si sviluppavano i vari dialetti, infatti, sono accaduti dei fenomeni di convergenza, di comune sviluppo e di conservazione che hanno consentito alle popolazioni di potersi parlare a vicenda, entro un certo raggio geografico di rapporti consolidati. Certo, se quella faglia forse non distingue due lingue diverse, certamente distingue due macrogruppi, ossia il gruppo dei dialetti settentrionali dal gruppo dei dialetti centrali. E però, quando ci si avvicina al confine ci si riesce a capire. In mancanza dell’italiano, in una tipica situazione preunitaria, un fiorentino e un bolognese dialettofoni tra loro non si sarebbero capiti. Invece, un parlante del dialetto di Lizzano in Belvedere, un paese in provincia di Bologna a ridosso del crinale che funge da confine, avrebbe potuto capire entrambi.

L’interesse di quest’osservazione sta nel potersi applicare anche alla classificazione delle lingue romanze, risolvendo così, grazie a situazioni varie di mediazione tra diversi modelli, i problemi di sistemazione che storicamente hanno fatto discutere circa il catalano, il ladino, il romancio e il friulano, ma anche l’asturiano-leonese, l’aragonese e, appunto, i dialetti dell’Italia settentrionale.

Quali sono i tratti più distintivi dell’una e dell’altra parte del confine?

Uno dei tratti di più vistosa differenza è l’evoluzione delle occlusive sorde postvocaliche latine t, p, c: se tra vocali, nella Toscana dove si parla il fiorentino si assiste al ben noto fenomeno della loro spirantizzazione, la cosiddetta gorgia toscana: la hasa, la haphra, la rotha (ruota), la phathatha; è una tipica caratteristica della Toscana centrale, tutt’oggi in espansione. A livello fonologico, però, il sistema toscano mantiene le occlusive sorde postvocaliche latine: non ne ha fatto dei fonemi diversi, insomma. In quella stessa posizione quei suoni latini, poi arrivati nell’italiano – ad esempio in capra, aprile, amico – nel bolognese, così come nel nord Italia, invece, si sonorizzano: diventano v, d, g, dunque rôda (ruota), chèvra (capra), furmîga (formica); storicamente, è quello che è successo anche in francese (chèvre, avril, ecc…). Da questo punto di vista il sistema dialettale del nord Italia è sì accomunato con quello della Romània occidentale.

Tuttavia, esistono dei fenomeni che differenziano i dialetti del nord Italia da quelli della Romània occidentale. Studiandoli, ad esempio, ci sono tutte le tracce per pensare che il plurale si facesse come in Toscana e in romeno, ossia con l’aggiunta della -i per il plurale maschile e della -e per il plurale femminile. In francese, in spagnolo, e nelle altre lingue romanze occidentali, invece, il plurale ha conservato la -s latina. È accaduto, però, che nei dialetti del nord le vocali per la formazione del plurale si siano prima trasformate in vocali indistinte, nella cosiddetta schwa (come è accaduto anche ai dialetti meridionali), e poi siano cadute del tutto. Alcuni esempi dal bolognese: la dòna (la donna) e, al plurale, äl dòn; al gât (il gatto) e i gât. In alcuni casi, l’esito è stato molto originale: in Romagna si dice e gat, al singolare, ei ghët, al plurale; nella formazione del plurale, cambia dunque la radice del nome; bene, si tratta di un sistema che non si trova né nella Romània occidentale, né nella Romània orientale. Mentre lo troviamo anche nel bolognese: il chiodo e i chiodi, ad esempio, diventano al ciôd ei ciûd. Ovviamente, è stata la -i del plurale maschile a dare questo risultato prima di cadere; resta il fatto che il risultato segna una grossa differenza rispetto all’italiano standard.

Quali sono invece i tratti che si trovano nella fascia di confine?

Se si va nella fascia di crinale, si mantiene la sonorizzazione, ma compaiono anche le vocali finali conservate. Prendiamo il caso del dialetto di Lizzano in Belvedere: ai bolognesi al gât (il gatto) e al låuv (il lupo) corrispondono el gatto e el luvvo; compaiono poi termini come cavra, amigo, fógo, róda; sembra davvero una media aritmetica tra il dialetto bolognese e quello fiorentino o, meglio, quello pistoiese: una lingua che permetteva ai dialettofoni delle due diverse parlate di capirsi. Questi particolari dialetti, che io classifico come “montani alti del bolognese”, si era addirittura ipotizzato che fossero dei dialetti liguri, nel senso che fossero da ricondurre al sostrato dell’antico popolamento ligure. Ma basta sapere com’è fatto il genovese per capire che non c’entrano nulla. Certo, anche il genovese ha la sonorizzazione e la conservazione delle vocali finali; ma basta riprendere i due esempi di prima per rendersi conto che questa idea non regge: i genovesi u gattu e u luvu sono ben diversi dai lizzanesi el gatto e el luvvo.

Dunque nel dialetto di Lizzano in Belvedere sono stati reintrodotti dei tratti delle parlate toscane, nel caso specifico le vocali finali?

In realtà non sappiamo se questi tratti siano stati reintrodotti. Anzi: nel lizzanese, le vocali atone finali dovrebbero essersi semplicemente conservate. Ce lo fanno pensare, ad esempio, le vocali finali dei maschili in -e, che compaiono spesso nel dialetto di Lizzano e sono da ricondurre tipicamente a un’evoluzione spontanea del latino, non a una restituzione. Se invece ci si sposta a Pievepelago, sulla montagna modenese, tutti i maschili finiscono in -o e tutti i femminili in -a: la chjava (la chiave), la nóṡa (la noce), el latto (il latte), el préto (il prete). Il motivo è che, probabilmente, le vocali atone finali si trasformarono prima in schwa, poi caddero e, infine, per farsi capire con la vicina Toscana, vennero reintrodotte; ma lo si fece generalizzando l’uscita in -o per i maschili e in –a per i femminili; procedettero, insomma, per analogia. Ora, perché a Lizzano si conservarono le vocali latine, mentre a Pievepelago no? Il motivo più plausibile è che a Lizzano abbia agito la prossimità con uno dei modelli toscani per eccellenza e solidissimo, quello di Pistoia e Firenze (non lontano c’è Castiglione dei Pepoli). La montagna modenese e reggiana, invece, è più vicina alla Garfagnana, una zona della Toscana dove domina la schwa, e che è influenzata dal modello lunigianese.

Vorrei far notare, sempre per dimostrare quest’idea del contatto linguistico, infine, il caso dei dialetti umbri del nord, di cui mi sono occupato nel volume sui dialetti romagnoli. Prima di parlarne, devo dire che i risultati a cui sono arrivato non sarebbero stati possibili senza uno dei molti pregi del metodo della scuola fonetica di Luciano Canepari: la capacità individuare dei suoni diversi tra loro, che invece altri autori non sono mai riusciti a distinguere.

Bene, a Città di Castello, nel nord dell’Umbria, è diffuso un dialetto centrale, ma con un vocalismo accentato fortemente influenzato dalla Romagna: cäpra, mäle, cäne, parole pronunciate, cioè, palatalizzando la a; oppure si dice drétto, anziché dritto come in perugino, avvicinandosi piuttosto alla pronuncia drètt, come in romagnolo. Pur mantenendo la struttura grammaticale di un dialetto centrale, dunque, il castellano ha reso ambigua la resa delle vocali accentate per delle esigenze di comunicazione non solo con l’Umbria ma anche con la vicina Romagna. Ora, tutti questi fenomeni, pur in mancanza di una precisa e univoca trascrizione fonetica, erano già stati descritti. Tuttavia, lavorando con un collega di Lugnano, una frazione di Città di Castello, abbiamo rilevato delle differenze tra la città e la frazione: delle differenze che si presentavano nella pronuncia effettiva della e aperta e sotto forma di un allungamento di tre vocali in una certa posizione fonetica. Ecco, nonostante altri studiosi se ne fossero già occupati, nessuno finora era riuscito ad accorgersi che, in quel modo, fra Città di Castello e la sua frazione Lugnano cambia il sistema fonologico.

Federico Pani

L’italiano e gli antroponimi, l’intervista a Carla Marcato

Come sfuggire alla curiosità di conoscere l’origine del nome e del cognome che portiamo? Certo: in molti casi, l’origine sembra chiara; in altri, lo è meno; in altri ancora, è solo apparente. Carla Marcato, professore ordinario di Linguistica italiana presso l’Università di Udine, è una delle massime esperte in Italia dell’argomento. Per una trattazione completa, non si può che rimandare al suo fondamentale “Nomi di persona, nomi di luogo: introduzione all’onomastica italiana” (“Il Mulino”). Sfidando la complessità dell’argomento, le abbiamo comunque rivolto qualche domanda.

Perché ci chiamiamo come ci chiamiamo? C’è una logica dietro l’assegnazione dei nomi propri?

Non c’è una logica precisa: è più una questione di sensibilità e di atteggiamenti legati a determinati periodi storici. Esiste naturalmente una lunga tradizione di nomi provenienti dalla cultura religiosa, nomi tuttora molto usati; in molte aree dell’Italia, inoltre, è ancora tradizione dare ai primogeniti il nome dei nonni paterni. Ci sono, poi, quei nomi che per qualche tempo vanno di moda. Oggi, vanno di gran moda dei nomi che hanno una veste straniera, soprattutto perché considerati più originali e inconsueti rispetto ai nomi italiani: penso ai doppioni Daniel, di Daniele, o Gabriel, di Gabriele, o Michael di Michele. Questa situazione è stata favorita, nel 1966, dall’abolizione della legge che vietava l’assegnazione di nomi stranieri ai nuovi nati.

Volendo spingersi ancora oltre nell’ambito dell’inconsueto, ricordo che qualche anno fa due genitori avrebbero voluto chiamare il loro figlio Venerdì, perché era nato in quel giorno. L’ufficiale dell’anagrafe, però, non acconsentì. La faccenda finì in tribunale e il giudice impose un nome diverso, Gregorio: il nome Venerdì venne considerato come potenzialmente in grado di danneggiare il figlio. Del resto, spesso i genitori ragionano per sé stessi, senza mettersi nella prospettiva dei figli; in taluni casi, le scelte rischiano di essere poco felici. Specialmente se si pensa all’abbinamento col cognome: c’è una lunga lista di abbinamenti ridicoli, come Chiappa, Rosa o Culetto, Rosa, solo per citare i più sconvenienti. In casi come questi, l’interessato può chiederne la modifica, dato che si tratta di combinazioni ridicole, appunto, o disdicevoli.

È curiosa anche la ripresa del cognome nel nome, come il caso di Guglielmo Guglielmi, Tommaso Tommasi, Marco Marchi, e così via.

È una scelta abbastanza consueta, in realtà. In taluni casi si trattava non tanto di una scelta dei genitori, quanto di una questione di carattere burocratico relativa all’infanzia abbandonata. La storia dell’infanzia abbandonata è, purtroppo, assai ricca di situazioni; e così, ci sono molti cognomi che rinviano a un trovatello, senza che peraltro le generazioni successive abbiano poi più nulla a che fare con quei bambini abbandonati; a questi bambini, in genere, venivano dati i nomi di Esposito, Proietti, Innocenti, Colombo o Casadei o altri ancora. Capitava però anche che chi era preposto a dare dei nomi a dei trovatelli optasse per queste combinazioni, come Guido Guidi, e così via. In molti altri casi, invece, è statala famiglia a decidere così, naturalmente.

Torniamo però alla questione iniziale: dicevo che l’assegnazione di un nome può dipendere dalle mode o seguire delle fasi storiche. Per esempio, in un certo periodo storico erano molto di moda dei nomi di carattere ideologico, nomi propri come Marx, Garibaldi, e così via. Nella prima parte del Novecento (a parte i molti Benito, che però rimandano anche al mondo spagnolo e non necessariamente al fascismo), si poteva scegliere Badoglio alludendo a un modo di vedere la storia, chiaramente in senso patriottico, come anche nel caso di Mameli e del corrispondente femminile Mamela. In qualche caso, si arrivò addirittura alla fusione del nome e del cognome: si attribuivano al bambino nomi come Vittorugo per Victor Hugo o Giambosco, che sta per Giovanni Bosco, o Filipponeri, che sta per San Filippo Neri e persino Carlomarx o Nazauro, che sta per Nazario Sauro. Oppure ancora, nomi che si ispiravano ai luoghi della Prima guerra mondiale, come Gradisca, Isonzo, Gorizia, ma anche Gorizio. Si tratta naturalmente di casi particolari, che non hanno avuto un grande seguito.

Ci sono dei nomi che hanno conosciuto un grande successo e che poi, nel corso degli anni, sono usciti di moda. Ricordo, una ventina di anni fa, molte Samantha e Deborah, oggi meno frequenti, mentre oggi c’è un’inflazione di nomi come Giulia e Sofia. Telenovele, film e canzoni influenzano molte scelte. Deborah, per esempio, ha avuto un grande successo grazie a una nota canzone di Fausto Leali. Teniamo conto che ciò che oggi non ci piace poteva benissimo essere gradevole, un tempo. Basta pensare alla serie di nomi medievali come Diotaiuti, Diotallevi, e così via. Ci sono dei registri senesi del Duecento che, per esempio, contengono dei nomi che fanno davvero impressione: Schifata, per esempio, Soperchia o Incresciuta; nomi che in tal caso si riferiscono al fatto che quel bambino, in quel momento, non fosse desiderato, come del resto il maschile Perchecivenisti; o denominazioni che oggi riterremmo di cattivo gusto, come Piedipapera. Va detto che, però, a quel tempo non erano nomi percepiti nel modo sgradevole con cui li percepiamo noi; ci troviamo di fronte a un evidente e vistoso mutamento di sensibilità. Un altro esempio: Bellagrossa, un nome oggi inconcepibile e ingiurioso; mentre allora era percepito come beneaugurante.

Oggi il nome straniero per un bambino italiano un po’ è un vezzo, forse un po’ è provinciale: è d’accordo?

Personalmente, non vedo perché si debba scegliere un nome con una grafia straniera, Samuel anziché Samuele ad esempio, benché sia del tutto legittimo farlo. Ci sono però dei nomi che, spesso, presentano dei problemi di scrittura, di resa grafica: Gabriel non ha problemi, ma Michael, ad esempio, ha una grande varietà di forme, tra cui Maicol, e addirittura la forma Maico, che ne riproduce la pronuncia e fa cadere la elle finale; questo accade in un’area linguistica (come quella veneta), dove la parola che termina con una consonante viene percepita come estranea. Del resto, capita che a essere attratti dai nomi stranieri siano proprio coloro che hanno meno consuetudine con le lingue straniere; sembra paradossale, ma è così

E magari proprio chi invece è più facoltoso e può permettere ai figli una formazione poliglotta sceglie dei nomi ben più tradizionali.

Sì, questo accade soprattutto nelle famiglie di origine nobiliare, dove l’importanza della tradizione viene confermata dai caratteri particolarmente conservativi dei nomi.

Passiamo al sistema cognominale: ce ne può parlare a grandi linee?

Il sistema cognominale italiano è un sistema complessissimo: conta oltre 300mila forme. Si contraddistingue per la grande influenza dei dialetti. I cognomi per come li conosciamo oggi hanno un’origine abbastanza recente: risalgono quasi sempre alla fine del Cinquecento, dopo che il Concilio di Trento stabilì che i parroci tenessero dei registri matrimoniali (soprattutto per evitare le unioni tra consanguinei). Nella tradizione popolare, le persone erano individuate con il ricorso al nome e all’aggiunta di un soprannome che poteva essere un nome di mestiere: se un certo Mario faceva il calzolaio si poteva chiamare Mario Calzolai (mestiere che in Italia si può dire in molti modi). Oppure, poteva essere un nome legato a una caratteristica fisica o morale dell’individuo o della famiglia: Mario Moro, Bassi, Biondo, Grigi, e così via. Oppure, al bambino si poteva legare in modo ereditario il nome del padre o della madre, e dunque Mario Di Paolo, oppure Di Paola. Tra le possibili scelte ci poteva essere la provenienza, e dunque Mario Damilano, perché l’interessato veniva da Milano o ne aveva avuto a che fare. L’ereditarietà di questo elemento aggiunto diede origine alla tradizione dei cognomi.

Possiamo trovare molti cognomi con un’origine trasparente: Mario Biondo, per esempio. Tante altre forme, invece, sono oscure, ma talvolta solo all’apparenza. Oppure, è proprio l’apparente trasparenza a essere ingannevole: un cognome come Russo (di cui parla anche Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo) sembra abbia a che fare con la Russia; in realtà, è la forma meridionale per Rosso, caratterizzata da un fenomeno fonetico di quell’area. La trasparenza è ingannevole anche per un cognome come Cagliàri, che viene pronunciato infatti Càgliari, perché avvicinato al nome della città: quel Cagliàri è semplicemente un calzolaio, un cagliàro (o caliaro), appunto. Ma l’accostamento alla città fa ritrarre l’accento. La ritrazione dell’accento interessa vari altri casi, come Pàdoan per Padoàn, o Bénetton, per Benettón una sorta di italianizzazione, dato che queste forme tronche sono sentite come troppo dialettali.

Un nome trasparente per gli studiosi ma non per tutti è Craxi, che noi pronunciamo come vediamo scritto, ma che in realtà è una scrittura siciliana per una pronuncia diversa, del tipo /ˈkraʃʃi/. Restituendole la pronuncia originaria, si può capire che questa forma ha la propria origine in un nome di mestiere di antica origine greca, ossia quello di venditore di vino. Lo stesso vale per Bixio, che andrebbe pronunciato Bi[ʒ]o, cioè grigio; quella x, infatti, è la grafia con la quale si trascrive quel particolare suono del dialetto ligure, dato che non c’è un segno dell’alfabeto italiano che possa renderne la pronuncia.

È sorprendente scoprire che dai nomi propri sia derivata una così ricca messe di cognomi: ma come ha fatto, ad esempio, il nome Giovanni a diventare, come scrivono gli onomasti, Zan o Zanoni?

Quelle varianti si riferiscono tutte alle possibilità di accorciare il nome: Giovanni diventa Vanni o Gianni, con le forme derivate, come Giannini, Giannetti o, sulla base delle diverse pronunce regionali, Zanetti o Iannetti. Il caso di Giovanni, nome di uso frequente e di antica tradizione, è particolarmente ricco, è vero, ma è proprio dovuto al fatto che è un cognome che deriva da un nome di persona, un nome che doveva verosimilmente appartenere al padre di chi lo ha poi ricevuto. Ce ne sono molti altri, di casi come questi. Giusto per fare un esempio, tutti i cognomi che derivano da Nicola e Nicolò, come Colò e Colà, ma anche Nico e Nichetto; Cola, in particolare, è frequente nel meridione nella forma dei composti come Mastrocola, Colapesce, Colaianni. Queste forme accorciate, a cui si aggiungono i suffissi più diversi, contribuiscono a rendere particolarmente vario il panorama dei cognomi.

A proposito dell’uso di soprannomi, mi viene in mente il caso di Chioggia (e la vicina Sottomarina), dove c’è un cognome diffusissimo, che è Boscolo, il più diffuso in città, dove circa 8mila persone hanno lo stesso cognome; questo porta, localmente, a fare sì che le persone siano conosciute attraverso un soprannome. Di più: la necessità di evitare ambiguità tra queste persone che si chiamano allo stesso modo ha letteralmente imposto l’ufficializzazione del soprannome; a Chioggia il soprannome della famiglia e dell’individuo è dunque diventato parte integrante del cognome, anche presso l’anagrafe ufficiale, che si presenta perciò come un doppio cognome.

Ma perché in Italia, un paese mediterraneo, ci sono così tanti Rossi?

Perché quel cognome non ha sempre avuto a che fare con il colore rosso dei capelli: poteva riferirsi alla carnagione o all’uso di un indumento rosso che aveva colpito la comunità; poteva essere anche l’uso di Rosso come nome proprio, ereditato poi dai figli, come è accaduto a Bruno o Bianca, tutti nomi che chiaramente hanno perso il riferimento alla loro origine caratterizzante; e poi c’è da notare che il colore rosso spicca all’interno della comunità, quindi bastavano pochi individui caratterizzati da tratti somatici rossi per farsi assegnare quel soprannome. Del resto, come ricordavo anche prima, bisogna abituarsi a queste e ben maggiori stranezze quando si parla di onomastica, soprattutto se si considera il passato: nel Medioevo era normale chiamare una bambina Pistoia, come il nome della città; oggi, non lo farebbe nessuno.

Il suo cognome, Marcato, sembra abbastanza trasparente: deriva dal participio passato del verbo marcare o dalla marca come entità amministrativa, giusto?

No, si sbaglia: deriva da Marco e porta un suffisso, -ato, che è un diminutivo tipico del Veneto. Nell’italiano, a differenza del veneto, non è stato un suffisso molto produttivo: lo troviamo in casi rari, ad esempio sotto forma di -atto, nella parola cerbiatto.

Federico Pani

(Una versione ridotta è comparsa sul Piccolo di Cremona del 18 dicembre 2021)

L’italiano in tv, l’intervista a Giuseppe Patota

Giuseppe Patota non è solo Accademico della Crusca e Professore ordinario di Linguistica italiana presso l’Università di Siena-Arezzo: è anche uno dei massimi specialisti della lingua italiana; lo testimoniano, tra i tanti, il suo passato ruolo di direttore scientifico del Dizionario Italiano Garzanti e quello attuale di condirettore del Nuovo Treccani. E sì, dietro moltissime voci dei vocabolari Treccani o Garzanti che così spesso abbiamo consultato c’è proprio la sua mano. Dallo scorso anno conduce insieme alla collega linguista Valeria Della Valle e all’attrice e conduttrice Noemi Gherrero “Le parole per dirlo”, un programma di divulgazione linguistica in onda ogni domenica mattina su Rai Tre.

Professore, ci spiega com’è costruita la trasmissione, qual è il grado di preparazione e il margine di improvvisazione?

Il copione di ogni puntata è sempre preparato: nell’allestimento, le autrici e gli autori non lasciano nulla al caso; ma questo non vuol dire che non ci sia spazio per l’improvvisazione, cioè per un’interazione spontanea tra l’ospite, Valeria Della Valle e me. Ogni puntata è preceduta da una o più riunioni, in cui gli autori ci danno conto della conversazione che hanno avuto con la ospite o l’ospite del programma, che sono dei rappresentanti a vario titolo della cultura italiana: giornaliste e giornalisti, attori, comici, scrittori, studiosi e personalità legate al teatro o alla televisione (da Paolo Mieli a Corrado Augias, al linguista Giuseppe Antonelli). Le conversazioni tra gli autori e gli ospiti di cui parlavo prevedono delle sollecitazioni soprattutto su questioni linguistiche: per esempio, le parole dell’italiano (ma anche del dialetto) a cui gli ospiti sono più affezionati. Ecco, questa specie di testo della puntata diventa un pretesto che Valeria Dalle Valle e io usiamo per fare delle piccole lezioni di italiano semplici e, speriamo, chiare, dando anche qualche indicazione grammaticale e risolvendo qualche dubbio linguistico.

La trasmissione, dalla chiara vocazione pedagogica, è nata da un’idea del Direttore di Rai Tre, Franco di Mare. Quando ci ha proposto di farla, Di Mare pensava proprio a un programma in continuità con la grande tradizione pedagogica della Rai, cominciata con “Non è mai troppo tardi” dell’indimenticato maestro Manzi. La spinta all’insegnamento della lingua, nel corso della trasmissione, peraltro, è aumentata: sono state inserite delle rubriche all’interno delle quali gli autori, in giro per le strade, fanno domande alla gente comune su parole, forme, collocazioni di accenti, costruzioni, sollecitando risposte e dubbi, a cui io e Valeria Della Valle, in studio, ci impegniamo a dare una risposta. Il buon andamento della puntata, poi, è anche merito della conduttrice Noemi Gherrero, attrice e donna di cultura (si è laureata alla prestigiosa Università Orientale di Napoli): sa gestire bene la conversazione tra noi, la ospite o l’ospite e gli studenti in collegamento; durante la puntata, infatti, sono sempre presenti da remoto degli studenti delle scuole superiori e dei primi anni dell’università, che rispondono alle nostre domande, ma che sono anche sollecitati a farne.

Oggi, il pubblico della televisione è ben più scolarizzato rispetto all’epoca d’esordio dei programmi pedagogici, quando il problema più urgente era ancora l’analfabetismo. Come dosate il vostro contributo linguistico?

La situazione della società e della scuola italiana è davvero molto diversa rispetto ai tempi del maestro Manzi e della sua storica trasmissione degli anni Sessanta. Ciononostante, l’Italia è comunque caratterizzata da un fenomeno di analfabetismo di ritorno, ossia la condizione di chi ha frequentato la scuola dell’obbligo, ma che poi, con il passare degli anni, ha dimenticato le conoscenze e perduto le competenze acquisite allora. Oltre a questo pubblico, ci rivolgiamo anche a chi ha interesse per la lingua italiana: la sensibilità e l’attenzione che la comunità degli anziani, dei giovani e dei nuovi italofoni ha nei confronti della nostra lingua è altissima; il dubbio e la curiosità linguistica continuano ad affascinare e, qualche volta, persino a preoccupare le persone, indipendentemente dalla loro estrazione socioculturale. Non abbiamo, dunque, un pubblico privilegiato. Sappiamo di essere seguiti anche da molti colleghi e colleghe insegnanti, che capita facciano della puntata oggetto di discussione in classe. Alcuni ci seguono anche dall’estero: abbiamo ricevuto delle mail da alcuni insegnanti di italiano in Argentina, ma anche in altre parti del mondo.

Può regalarci qualche indicazione linguistica?

La prima raccomandazione che faccio, in omaggio al mio illustre maestro Luca Serianni, è indicare sempre l’accento acuto sul pronome , anche quando è accompagnato dalla parola stesso: sé stesso, sé stessa e sé stessi. La seconda raccomandazione è evitare l’abuso, non l’uso, delle parole straniere. Che cosa intendo? Né io né Valeria Della Valle siamo dei puristi: non suggeriremmo mai di seguire l’esempio degli spagnoli e dei francesi, che chiamano il computer ordenador e ordinateur; secondo noi, parole come mouse e computer vanno benissimo. Anzi, per quanto mi riguarda, io inviterei a scriverle secondo la grafia italiana, compiuter e maus; così queste parole diventerebbero davvero italiane, come è accaduto alla parola beefsteak, da cui proviene la parola italiana bistecca. Quali sono i prestiti dalla lingua inglese che rifiutiamo? Quelli che potremmo definire dei “prestiti di lusso”. Detto in altri termini: perché ricorrere a una parola inglese quando già ne esiste una italiana, se non per ossequio, o per far vedere di essere alla moda o competenti? Un esempio clamoroso di abuso l’abbiamo sotto gli occhi in questi giorni: la parola booster per indicare la terza dose di vaccino; eppure, avremmo una parola, richiamo, che andrebbe benissimo per indicarla, in quanto chiara e trasparente per tutti. Su tutti, infatti, rifiutiamo i forestierismi che sono usati dalle istituzioni e nei contesti pubblici, contesti nei quali la comprensibilità garantita dovrebbe essere massima.

D’altra parte, proprio il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione dell’apertura dell’anno accademico dell’ateneo presso il quale lavoro, l’Università degli Studi di Siena, scherzosamente (ma dietro lo scherzo c’era un condivisibile fondo di verità), ha invitato il Rettore a promuovere uno studio sull’effettiva necessità dei tanti acronimi, ossia delle tante parole sigla, presenti nella nostra lingua. Un esempio: perché i giornalisti e i politici devono sempre parlare di Dpcm? Non sarebbe più corretto parlare di un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri? E perché bisogna per forza dire PNRR anziché Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza?, naturalmente spiegando poi opportunamente che cosa significhi una parola come resilienza.

Un ultimo suggerimento: evitate un linguaggio violento, inutilmente volgare e aggressivo, il cosiddetto “linguaggio dell’odio”: anche questa è educazione linguistica. Alcuni personaggi pubblici che intervengono nei talk show o che lasciano i loro messaggi sulle reti sociali, certo, non aiutano: questi personaggi – di cui non faccio i nomi perché credo che siano riconoscibili al pubblico – sono degli esempi da non seguire.

Federico Pani

Il Piccolo di Cremona, 11 dicembre 2021

L’italiano e la grammatica, l’intervista a Dalila Bachis

La grammatica. Che noia. E invece no, tutto il contrario: la grammatica è un argomento ricco di sfumature e storia, persino avvincente. Ne parliamo con Dalila Bachis, assegnista di ricerca presso l’Università di Siena e collaboratrice dell’Accademia della Crusca. La studiosa ha dedicato all’argomento un saggio dal titolo “Le grammatiche scolastiche dell’italiano edite dal 1919 al 2018”, pubblicato dall’Accademia nel 2019.

Se, come spiegano i linguisti, la grammatica non è un sistema di regole immutabile, perché in molti di noi resta radicata l’idea che si tratti di un sistema monolitico?

La parola “grammatica” può voler dire almeno tre cose: è la struttura che regola il funzionamento di una lingua, ma anche l’insieme delle regole che la descrivono e, infine, anche il libro di grammatica; come fa notare Luca Serianni, possiamo dire “prendi la grammatica”, riferendoci al libro, mentre non diremmo mai “prendi la storia” o “la matematica”. L’idea di una grammatica monolitica, sempre uguale a sé stessa, riposa sul pregiudizio di una lingua sempre uguale a sé stessa, un fatto che ha delle ragioni storiche: la nostra lingua è indissolubilmente legata alla letteratura; l’italiano nacque come lingua letteraria e scritta, ben prima dello Stato unitario.

Con l’Unità, però, si pose il complicato problema dell’insegnamento dell’italiano, particolarmente arduo anche per gli insegnanti, per la stragrande maggioranza dialettofoni. Per superare la difficoltà, i programmi scolastici furono strutturati secondo una rigida osservanza di quella che veniva chiamata “la buona lingua”: esprimersi in modo corretto voleva dire, di fatto, evitare sia il dialetto sia il registro parlato; insomma, nessuno dei modelli linguistici distanti dall’italiano scritto poteva trovare spazio. Da qui nasce l’idea di un “italiano corretto”, che è scritto e non parlato, che è letterario e non colloquiale, che è fiorentino di base e mai regionale.

Come si svilupparono le grammatiche nel secondo dopoguerra italiano?

Le cose cominciarono a cambiare effettivamente solo tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70. Innanzitutto ci fu una grande rivoluzione, la scuola media unica, entrata in vigore nel 1963: molte più persone proseguirono gli studi; se prima, a farlo, erano quasi solo i giovani delle classi più agiate, anche i figli degli operai e dei contadini, naturalmente dialettofoni, cominciarono a studiare più a lungo. Insegnare una lingua così distante da quella parlata dalla maggior parte degli alunni divenne ancora più difficile.

Proprio nel 1963 Tullio De Mauro pubblicò la prima edizione della Storia linguistica dell’Italia unita, nella quale parlò dell’italiano scolastico come di un “antiparlato”, un italiano che non teneva conto delle diversità della lingua né su base regionale né nelle sue differenze di registro. Alla critica di De Mauro seguì, nel 1971, un’importante analisi delle grammatiche scolastiche. Infine, nel 1975, un gruppo di linguisti e di insegnanti denominato “Giscel” arrivò alla formulazione delle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, una fondamentale critica all’educazione linguistica tradizionale, che denunciava sia la concezione sia la didattica tradizionale della lingua.

Quali furono le conseguenze di queste critiche, arrivando fino a oggi?

Divenne chiaro che insegnare una lingua non significa solo insegnare a classificare e imparare delle definizioni, limitandosi all’analisi logica e grammaticale; significa anche saper produrre una comunicazione efficace. Da questo punto di vista è stato decisivo il contributo della linguistica testuale, la quale ha posto l’accento sulle capacità di comprensione di un testo e di produzione scritta non solo creativa. I programmi che seguirono, del 1979 e del 1983, rispettivamente per la scuola media e la scuola superiore, cominciarono a dare importanza anche a questi aspetti. Da allora fino a oggi, però, si sono susseguite riforme e linee guida che hanno sì provato a modificare l’impostazione classica, ma lo hanno fatto in modo vago e disomogeneo, affidandosi perlopiù al buon senso degli insegnanti.

Rimane, dunque, ancora molto lavoro da fare. In primo luogo, la norma grammaticale continua a essere ritenuta intoccabile, mentre in realtà varia sulla base del contesto. In secondo luogo, la lingua non viene ancora percepita come un organismo in evoluzione. Così, la lezione di grammatica resta spesso quella nella quale si insegna“come si deve dire qualcosa”. Ed è ancora lontana l’idea che un quesito grammaticale possa prevedere più risposte giuste, proprio sulla base del contesto.

Potresti fare qualche esempio della distanza tra l’italiano scolastico e quello parlato?

Prendiamo il caso del pronome soggetto “egli”, praticamente uscito dal parlato e, in molti casi, evitato anche nello scritto. Bene: aprendo le grammatiche scolastiche, compare invece nella sezione teorica, negli esercizi e soprattutto è usato regolarmente nella coniugazione dei verbi. Un altro esempio è “codesto”, un dimostrativo limitato all’uso burocratico e adoperato dai parlanti solamente in Toscana: nelle grammatiche, invece, compare come parte integrante del sistema tripartito dei dimostrativi; talvolta, è persino richiesto di adoperarlo nelle attività. Un altro esempio, più generale, è la richiesta di sostituire parole comuni come “fare” con sinonimi più ricercati come “eseguire” o “svolgere”. La stessa sorte tocca spesso anche alla parola “cosa”, da sostituire con parole meno generiche. Ora, tutto questo non è un problema di per sé, ma lo diventa se non si specifica il contesto in cui è meglio usare una parola o un’espressione piuttosto che un’altra: se si insegna che è meglio non usare mai parole come “fare” o “cosa”, si stanno praticamente negando due delle parole in assoluto più usate della nostra lingua.

Questo atteggiamento inerziale nell’insegnamento dell’italiano interessa anche gli esercizi, che sono ancora per la maggior parte di natura classificatoria. Non c’è da stupirsi: la maggior parte di questi esercizi dipende dalla proliferazione dei complementi e, più in generale, delle categorie con cui si possono definire i nomi, le parti del discorso e le proposizioni. Questa impostazione proviene, in parte, dalla didattica del latino: ma se in quel caso è utile distinguere tra i diversi complementi, nell’italiano non lo è altrettanto. Meglio sarebbe, allora, concentrarsi su altri aspetti legati alla lingua, intesa come strumento di comunicazione, segnatamente sulla comprensione e sulla produzione orale, così come sulla comprensione e sulla produzione scritta.

Fermiamoci per un momento sulla produzione scritta, ossia sulla capacità di produrre dei testi efficaci. Bene: non solo è possibile farlo, ma ci sono anche sistemi ben rodati per esercitarsi: la pratica del riassunto, per esempio, può essere davvero utile, dato che proprio il riassunto è uno dei testi efficaci per eccellenza (deve condensare in poche righe le unità informative più importanti di un altro testo). Un altro esercizio a cui è possibile ricorrere è il cosiddetto “cloze”, che prevede di togliere da un testo delle parole che l’alunno deve poi reinserire: il cloze aiuta molto bene a capire cosa fa funzionare un testo, oltre a favorire l’aumento delle capacità lessicali, spesso trascurate in nome delle prescrizioni e di esercizi che sono, piuttosto, lo specchio di un’ansia classificatoria.

Esistono altri modi che credi potrebbero migliorare l’impostazione della didattica?

Oltre a insistere sul testo, un altro modo per migliorare l’efficacia della didattica potrebbe consistere nel ricalcare più da vicino l’insegnamento dell’italiano come lingua seconda (L2). I manuali d’italiano per gli stranieri sono strutturati in modo graduale, cosa che non accade nella didattica per gli italiani di lingua madre. Non solo: i volumi per le scuole medie sono praticamente identici ai libri per le superiori: si comincia dalle lettere (i suoni della lingua) e si prosegue poi con le parole, le frasi brevi, i periodi complessi, e così via; lo stesso percorso viene poi riproposto, di nuovo, solo in modo più approfondito, nella scuola secondaria di secondo grado. La verità, però, è che quando si impara una lingua la prima cosa che si affronta non è né il singolo suono e nemmeno la singola parola: è già il testo. Per questo sarebbe molto utile partire subito con l’analisi di frasi di senso compiuto, ancora meglio se tratte dall’uso reale della lingua, proprio come accade nei manuali di italiano L2. Peraltro, quelle frasi avrebbero un aspetto meno artificiale, “in provetta”, e ne scaturirebbe più naturalmente l’interesse non solo per la correttezza (sempre da valutare sulla base del contesto), ma anche per l’efficacia. Verrebbe più spontaneo chiedersi: che cosa permette alla comunicazione di funzionare?

Nella tua analisi hai riscontrato dietro questo insegnamento, all’apparenza imparziale, delle intenzioni ideologiche?

Nelle grammatiche meno recenti, in effetti, all’educazione linguistica si affiancava anche un discorso di educazione etica e morale:molte frasi degli esercizi e degli esempi indicavano come si sarebbe dovuto comportare un buon cittadino, un buono scolaro, un buon figlio; i genitori, al contrario, erano spesso ritratti nell’atto di sacrificarsi – secondo delle dinamiche simili un po’ a quelle del libro “Cuore”. Dal 1919 a oggi, ho notato che la retorica riferita alla patria, alla religione e alla famiglia è andata, però, progressivamente perdendosi. Quello che resta – come dicevo – è la presenza di frasi inventate, magari un po’ retoriche o che hanno un aspetto un po’ artificiale (il classico “Marco mangia la mela”), frasi che si capisce sono state costruite ad hoc. Forse, oggi, l’aspetto “ideologico” rimasto indietro riguarda l’inclusività: negli esempi compaiono più referenti maschili che femminili; i nomi sono quasi sempre italiani e difficilmente di origine straniera; molto raramente compaiono delle persone diversamente abili. Tutto ciò deriva, credo, dalla rappresentazione corrente della società, spesso stereotipata e che non ne rispetta fino in fondo la composizione reale.

Le grammatiche di oggi, insomma, non portano avanti delle ideologie come in passato: restano però ancora inerzialmente legate al passato. Proprio come accade anche in merito alle nuove acquisizioni in materia di linguistica e didattica. Faccio un esempio: anziché ristrutturare le grammatiche per intero con le acquisizioni della linguistica testuale – cosa che richiederebbe uno sforzo ben maggiore –, si è pensato, semplicemente,di aggiungere un volume che trattasse, appunto, di linguistica testuale. 

Non vorrei, però, sembrare pessimista: finora, e per fortuna, mi pare si possa dire che la scuola sia soltanto migliorata. Ancora oggi il tasso di abbandono scolastico resta molto alto, ma parliamo di cifre imparagonabili a quelle che si registravano all’inizio anche solo della scuola repubblicana. E non si può nemmeno dire che gli italiani non sappiano l’italiano: la dialettofonia esclusiva è praticamente sparita, e lo stesso vale anche per l’analfabetismo. Certo, oggi la società è più complessa e ci sono altre questioni da affrontare: l’analfabetismo funzionale, l’insegnamento dell’italiano ai ragazzi stranieri e agli studenti che soffrono di disturbi cognitivi. Queste sfide, però, possono aiutare la scuola a migliorarsi ancora di più. Prendiamo la questione dei bisogni educativi speciali: è dimostrabile, ma anche intuitivo, come la ricerca in questo campo abbia migliorato la didattica, massimizzandone l’efficacia. La tendenza che registro, insomma, è quella di un costante miglioramento.

Federico Pani

Una versione ridotta è comparsa sul Piccolo di Cremona del 20 novembre 2021

Vittorio de Sica, la vita come una commedia

Ci sono molti modi per parlare di Vittorio De Sica. Per i manuali di cinema è il padre del neorealismo; nei salotti televisivi è ancora, e si scusi il gioco di parole, il padre di due figli d’arte: Manuel è stato un compositore e Christian è, di fatto, la sua caricatura. Negli anni ‘50, era noto per aver prestato la voce, il volto e il corpo al tronfio ma bonario maresciallo Carotenuto in “Pane amore e fantasia”, nonché nei rispettivi seguiti. Nei discorsi di gossip, era un chiacchierato dongiovanni e un bigamo impenitente (ironia della sorte, recitò anche in un film dal titolo il “Il bigamo”, sebbene lì interpretasse la parte di uno sconclusionato principe del foro). In televisione, fu comparsa di prestigio e cantastorie. Era un uomo del sud, che si sentiva napoletano (aveva passato lì gli anni più belli della sua infanzia), ma che fu rapito da Cinecittà e finì i suoi giorni a Parigi (dove morì, questo stesso giorno del 1974). Era un uomo molto generoso, ma con la passione sfrenata per il gioco (parte, quella del giocatore incallito che, peraltro, ha ricoperto con autoironia in diversi film).

Ci sono poi anche altri De Sica, meno noti. Il più dimenticato è forse quello degli inizi, tra le file dell’esercito delle “teste d’ebano” (li definì così Italo Moscati), ossia quegli attori che, tra anni Venti e Trenta, si imbrillantinavano la testa, imitando Rodolfo Valentino e Fred Astaire. Parlando di inizi, pochi sanno che fu il padre Umberto a procurargli una prima partecipazione a una produzione cinematografica, così come che lo sostenne negli anni degli esordi nell’avanspettacolo e nel teatro. Poi, un giorno, mentre recitava in una sala mezza vuota, lo notò l’annoiato avvocato Mario Mattoli, che si era reinventato come impresario di spettacoli e cineasta. Da lì, il decollo della carriera, attore, cantante (nel film “Gli uomini, che mascalzoni…” canta la celebre “Parlami d’amore, Mariù”), regista, attore, attore e ancora attore: recitò in 157 pellicole (sì, anche per sanare i debiti di gioco); se non ci fosse stato Alberto Sordi, avrebbe lui oggi il primato del maggior numero di film interpretati da un italiano.

“De Sica è stato un grande del cinema italiano e mondiale, paragonabile per complessità e completezza, nella sua dimensione artistica, a un altro grandissimo come Charlie Chaplin; non solo per una questione di misura ma anche di versatilità: ha attraversato quasi tutte le forme d’arte, dalla canzone alla recitazione, dalla regia alla scrittura”, ha detto in una trasmissione su Radio3 Patrizia Pistagnesi, critica cinematografica e sceneggiatrice. Un grandissimo, come gli riconoscono anche molti registi americani, da Scorsese ad Allen a Spielberg, che disse di essersi ispirato ai netturbini che prendono il volo sulle loro scope in “Miracolo a Milano”, quando girò la scena di “E.T.” dei ragazzi che levitano sulle loro biciclette. Bene, resta un dubbio, però, forse una mera impressione: come mai lo si ricorda, ma in fondo non in modo così continuo come accade, ad esempio, con un Fellini o un Totò? Forse, ma è un’ipotesi, il motivo è che al suo monumento non si sa fino in fondo che volto dare.

Certo, a doverci scommettere, De Sica non verrà mai dimenticato, quantomeno per i suoi film neorealisti: “I bambini ci guardano”, “Sciuscià”, “Ladri di biciclette” (entrambi premiati con l’Oscar) e “Umberto D.” sono, provare per credere, incredibilmente resistenti alla prova del tempo. Ecco che, però, sulla carriera di De Sica pesa un giudizio moralistico e artistico difficile da cancellare. La sua vita privata è stata oggetto di pettegolezzi, condanne, sotterranea ammirazione e rettifiche: sull’argomento, bastino le due biografie dedicategli dal figlio Manuel e dalla seconda moglie, María Mercader. Poi, c’è il giudizio artistico, che non solo non gli ha perdonato l’alimentare attività da attore, ma anche quella registica. Vale la pena rileggersi quello che Goffredo Fofi (che pure esalta la quadrilogia neorealista) scrive nel suo “I grandi registi del cinema”: “La parabola di De Sica si consuma nel breve arco di sette anni, dalla fine della guerra a ‘Umberto D.’, scadendo in seguito nell’abuso di certi moduli di ricattatoria commedia sentimentale (i film con la coppia Loren-Mastroianni, per esempio), piegati a una impudica svendita delle proprie capacità tecniche (rivisto, il più celebrato e ambizioso dei suoi film successivi, il film da Oscar ‘Il giardino dei Finzi-Contini’, 1970, è di una rozzezza, trasandatezza e superficialità invero sconcertanti!)”.

Posta la grandezza indiscutibile del De Sica regista, forse, però, potrebbe valere la pena rivalutarlo anche come attore: “Ho sempre nutrito simpatia per Vittorio De Sica, oltre averlo sempre apprezzato come attore”, dice Beppe Arena, regista teatrale cremonese e direttore della Scuola di teatro “Luigi Carini” presso la Società Filodrammatica Cremonese. “Si può dire – prosegue –  che la sua vita stessa sia stata una commedia: aveva due famiglie, una all’insaputa dell’altra; lui stesso raccontava che doveva festeggiare due volte il Natale (e mangiare, di conseguenza, due volte); aveva il vizio del gioco e, spesso, si ritrovava senza un soldo, con la famiglia al seguito da dover riportare a casa. De Sica è, del resto, uno di quei tipici attori celebri di quegli anni, che all’attività di lavoro affiancavano un’intensa vita mondana”.

“Dicevo – prosegue Arena – che l’ho sempre anche molto apprezzato come attore: innanzitutto, veniva dall’avanspettacolo, che era una grande scuola. E poi aveva fatto il teatro, il cinema, la televisione; aveva fatto la gavetta, insomma, come si vede molto bene dal mestiere. Certo, De Sica ha realizzato dei film che sono passati alla storia, ma incarnava anche la commedia classica italiana, senza tuttavia banalizzarne i personaggi; li costruiva sempre molto bene, con molta misura. In più, era un uomo di gran classe e carisma, che, all’epoca (oggi è diverso: oggi un po’ tutti fanno gli attori), era, insieme alla gavetta, un requisito fondamentale per quel lavoro”.

Federico Pani

Il Piccolo di Cremona, 13 novembre 2021

Insegnare la lingua della lirica in Cina, l’intervista a Beatrice Fanetti

La musica e, in particolare, l’opera lirica spingono ancora oggi molti stranieri a intraprendere lo studio dell’italiano. Lo sa bene Beatrice Fanetti, mezzo soprano, maestro di canto e docente presso l’Università di Nantong, vicino a Shanghai, inviata dall’Istituto Superiore di Studi MusicaliRinaldo Franci” di Siena, nell’ambito di un doppio titolo tra le due città.

Come si è intrecciata la carriera musicale con l’insegnamento della lingua dell’opera agli stranieri?

Ho iniziato con i corsi di musica da piccolissima; poi è arrivato il canto pop e, infine, l’approdo al Conservatorio. Quando ormai avevo capito che il Canto era la mia strada, ho deciso di studiare anche il cinese durante la laurea magistrale. Il motivo è proprio legato all’opera: infatti, già da allora risultava chiaro come la Cina si stesse aprendo e interessando sempre più al Belcanto. Conoscerne lingua e la cultura, quindi, mi era sembrato utile per il mio futuro eventuale su quei palchi. Che dire: avevo ragione. Nel tempo, ho partecipato a tante masterclass di perfezionamento e ho notato che, spesso, i cantanti stranieri avevano una tecnica straordinaria, ma che perdevano gran parte del loro valore con una pronuncia terribile o un’interpretazione che mostrava come non sapessero che cosa stavano cantando.

Sul momento, mi sono limitata ad aiutare i miei colleghi come potevo, ma poi ho pensato: perché non propormi per insegnare ai cantanti stranieri del Conservatorio per renderlo un corso più regolare? Nel frattempo, ho conseguito la certificazione Ditals “cantanti d’opera” e ho capito che, per insegnare ai cantanti stranieri, non basta conoscere la didattica della lingua, non basta avere qualche concetto base delle trame delle opere: ci vuole una certa consapevolezza della storia della lingua (i libretti sono spesso molto lontani dalla lingua parlata oggi!), della storia dell’opera, della cultura italiana e anche un’idea del canto in quanto tale. Infatti, una delle difficoltà maggiori dei molti coach improvvisati è dovuta al fatto che non si rendono conto che l’italiano parlato e quello cantato (per motivi a volte puramente fonatori, a volte diacronici) possono differire ampiamente. Chi può farlo meglio di una cantante con una specializzazione in didattica dell’italiano come lingua straniera?

Ci puoi fare entrare virtualmente in una tua lezione e dirci un po’ come si svolge?

Bisogna distinguere tra due tipi di lezione per cantanti d’opera: la lezione di gruppo in Conservatorio (quindi in ambiente istituzionale e spesso in classe eterogenea per livello e provenienza) e la lezione privata uno a uno (dal vivo o online). Nel primo caso, preferisco dedicare la prima parte della lezione al corso di lingua vero e proprio, seguendo un sillabo ben definito e usando materiali raccolti da me o un manuale didattico (io, per esempio, uso “L’italiano nell’aria” di Brioschi e Martini-Merschmann, perché affronta gli argomenti grammaticali e comunicativi usando situazioni e testi che risultano familiari a un generico studente di Canto lirico in Italia o a un cantante straniero che frequenti masterclass e faccia concerti in Italia).

Questi studenti partono spesso da conoscenze pressoché nulle ed è quindi necessario fornire loro una base stabile su cui costruire il resto, anche in considerazione del fatto che in una classe eterogenea non si può tenere conto dello studio pregresso di ognuno. La seconda parte della lezione, invece, è dedicata alla pronuncia e all’approfondimento di un’aria di studio, ed è quindi di solito un momento di lavoro uno a uno oppure, quando possibile, diviso per registri vocali. Nel caso invece delle lezioni private, l’attenzione sarà in gran parte diretta alla lettura e all’interpretazione delle arie, da cui poi prendere spunto per approfondimenti grammaticali, fonetici e fonatori. Dato che questo secondo tipo di lezione è malleabile a seconda dei bisogni specifici dello studente, può comprendere anche attività situazionali (“alle prove in teatro”, “in segreteria del Conservatorio”, “all’audizione” e così via) o la preparazione in dettaglio di monologhi di presentazione, colloqui motivazionali e interazioni in ambito musicale.

Un appunto da fare sull’insegnamento della pronuncia è che, nella mia esperienza, la pronuncia del Canto si discosta quasi sempre da quella del parlato, quindi dopo un intenso lavoro nella lettura ad alta voce, le stesse arie vanno ripetute nel canto e corrette nuovamente a seconda delle particolarità dell’emissione vocale (un esempio tra tanti, il fono –i non può essere espresso con chiarezza sulle note acute perché chiuderebbe eccessivamente la gola, e deve quindi essere modificato in modo che la voce esca libera e sana… a scapito della pronuncia!).

Chi è che partecipa alle lezioni e che opere sono quelle più richieste? 

Nelle mie attuali lezioni insegno soprattutto canto; la parte che concerne l’italiano riguarda quindi esclusivamente la pronuncia dei brani di studio. I miei studenti sono iscritti ai primi 3 anni di università, nella quale hanno scelto il Canto come materia principale. Per questo il mio insegnamento, oltre alla pronuncia, prende in considerazione i vocaboli più strettamente musicali (“legato”, “forte” “nota”, “ritmo”), legati sia alla sfera dell’opera (“aria”, “spartito”, “personaggio”, “recitativo”) che a quella del corpo e dell’emissione vocale (“respiro”, “diaframma”, “sostegno”, “abbassare la lingua”). In passato, però, quando insegnavo al Conservatorio o durante le lezioni private, i miei allievi erano sia studenti che cantanti in carriera e, spesso, volevano fare un’analisi del libretto o seguire un vero e proprio corso di lingua (seppur usando materiali specifici per cantanti d’opera).

In entrambi i casi, le arie più richieste sono quelle di Mozart, Verdi o Puccini, in quanto conosciutissime in tutto il mondo e quelle di Pergolesi e Scarlatti, perché considerate più semplici musicalmente. C’è da sottolineare però che, seppure queste ultime vengano scelte per lo studio dai principianti, in quanto più facili da cantare, sono quasi sempre scritte in un italiano antico e poetico, e creano non pochi problemi di comprensione e interpretazione agli studenti che non possiedano già almeno una conoscenza di base della lingua.

Progetti per il futuro?

Per il momento resterò ad insegnare canto all’università qui in Cina e preparerò gli studenti che verranno in Italia a studiare il prossimo anno. Non sono sicura di cosa mi aspetta nel futuro immediato, dato che la mia carriera di cantante solista ha subito un brusco reindirizzamento a causa della pandemia. Di sicuro non abbandono l’idea di cantare, ma chissà se come piano A o nelle pause dall’insegnamento. Purtroppo, al momento, le prospettive lavorative che ho incontrato in Cina sono difficili da trovare in Italia, quindi non escludo di rimanere ancora qualche tempo in terra sinofona, complice il fatto che ne apprezzo molto anche la lingua e cultura. Certo è che se trovassi un’offerta in Europa altrettanto interessante e fonte di crescita, non esiterei a prenderla al volo!

Federico Pani

Una versione ridotta dell’intervista è comparsa sul Piccolo di Cremona del 6 novembre 2021