Rocco Luigi Nichil (a destra, nella foto) è uno dei massimi esperti di lingua italiana legata allo sport: docente all’Università del Salento, collabora con la Treccani e ha dedicato al tema alcuni libri; il suo ultimo, scritto insieme a Pierpaolo Lala (a sinistra, nella foto), si intitola Invasione di campo. Il gioco del calcio nel linguaggio e nel racconto della politica. Gli ho rivolto alcune domande sull’uso quotidiano della lingua dello sport e, in particolare, del calcio.
Quasi ogni giorno, ci capita di fare gol a porta vuota, giocare di sponda, restare in panchina, partire in quarta, fare tappa o uno sprint. Che tipo di linguaggio è questo e, soprattutto, come mai facciamo così tanto ricorso alle metafore sportive, segnatamente a quelle riferite al calcio?
I traslati sportivi che si incontrano nella conversazione di tutti i giorni sono parte del cosiddetto linguaggio idiomatico, fatto di modi di dire e frasi fatte, con cui “coloriamo” i nostri discorsi. Oltre allo sport non è difficile scorgere in questo campo espressioni che provengono dal linguaggio della cucina, da quello del cinema e da altri ancora. Lo sport fa certo parte della nostra vita quotidiana, ma il calcio in particolare, nella società contemporanea, è diventato qualcosa di più di una semplice attività sportiva, assumendo i caratteri dello spettacolo, tanto da essere oggi più “visto” e “discusso” che praticato.
Non è sempre stato così: nel corso del Novecento, il calcio ha sostituito nel cuore degli italiani quello che era in passato lo sport nazionale per eccellenza, il ciclismo. Che quest’ultimo fosse il vero sport nazionale, allora, lo dimostra, tra le tante cose, un episodio sospeso tra realtà e leggenda: nel 1948, dopo l’attentato a Palmiro Togliatti, secondo l’opinione comune sarebbe stata l’attenzione rivolta alla vittoria di Gino Bartali al Tour de France a scongiurare la guerra civile.
Le cose cominciarono a cambiare dopo la metà del secolo, soprattutto negli anni Sessanta, grazie alla vittoria dell’Italia agli Europei del’ 68 e dopo il celeberrimo 4-3 contro la Germania nei Mondiali del 1970. Il successo crescente del calcio è stato accompagnato, sotto il profilo linguistico, dalla diffusione di metafore ad esso legate: espressioni come essere di serie A o B, fare gol a porta vuota, zona Cesarini, e molte altre ancora, sono la conseguenze dello straordinario successo del calcio nella società italiana.
Alcuni cronisti sportivi hanno fatto notare che il vocabolario del calcio è più italianizzato di quello di altri sport, come il basket o il tennis: è così? E, se sì, perché?
È vero, e le ragioni per cui il vocabolario del calcio risulta italianizzato sono soprattutto storiche. Il calcio ha una data di nascita ben precisa: il 26 ottobre del 1863, infatti, a Londra i rappresentanti di alcune squadre di football si incontrarono per stilare un regolamento che potesse essere condiviso. Nacque così la prima federazione nazionale, la Football association. Ne ho scritto nel libro Il secolo dei palloni. Storia linguistica del calcio, del rugby e degli altri sport con la palla nella prima metà del Novecento, accostando il calcio al rugby, proprio perché i due sport furono praticamente la stessa cosa fino a quel momento: il football, appunto.
Di più: ogni college, allora, praticava la sua variante di gioco col pallone. Il nuovo regolamento consentiva quindi il superamento delle diverse interpretazioni locali. Va detto, tuttavia, che il calcio, a quell’epoca, era abbastanza diverso da quello a cui siamo abituati oggi: non c’era la traversa e il fuorigioco era per così dire totale, un po’ come l’in avanti nel rugby, perché tutti i giocatori di una squadra dovevano partire dietro la linea della palla; per un certo periodo fu persino consentito fermare la palla con le mani in tutte le zone del campo. Il calcio che fu poi esportato dall’Inghilterra nel resto del mondo era quello della Football association, ispirato peraltro al modo con cui si giocava a Cambridge già in precedenza: non a caso, il nome del nuovo sport fu un po’ ovunque, e anche in Italia, football association, proprio come il nome della prima federazione nazionale; di qui nasce anche la parola inglese soccer, dall’abbreviazione di association (soc-) con -er.
Ma veniamo all’Italia. La culla del calcio nel nostro paese, diversamente da come si crede non fu Genova, bensì Torino; da lì proveniva Edoardo Bosio, il vero pioniere italiano del calcio. Bosio era un industriale che aveva lavorato per qualche anno in Inghilterra e lì aveva conosciuto il nuovo sport: non a caso, fu proprio lui a portare in Italia i primi palloni di cuoio. Oltre al calcio, Bosio praticò anche con buoni risultati il canottaggio, e non è rara la combinazione in alcune polisportive dei due sport per potersi allenare tutto l’anno: il canottaggio d’estate e il calcio, per antonomasia, lo sport d’inverno.
Per i giornali, come abbiamo già detto, il primo nome del calcio fu football association. E anche il dizionario del nuovo sport era tutto inglese: l’arbitro era il referee, il portiere goal-keeper, l’attaccante forward, il centrocampista half, il difensore back. Nel percorso di italianizzazione del vocabolario del calcio, contò molto l’interpretazione (metaforica, ma fino a un certo punto!) della partita di calcio come una allegoria della guerra: due compagini che si affrontavano, l’una contro l’altra. Quelli che oggi chiamiamo attaccanti, centrocampisti e difensori, perciò, furono inizialmente chiamati prima, seconda e terza linea, come se fossero i reparti di un esercito al fronte. Solo più tardi, il calciatore di seconda linea divenne sostegno, poi mediano e infine, grazie probabilmente alla penna Gianni Brera, centrocampista (per influenza dell’inglese mid-fielder o center-fielder).
Alcuni termini, va detto, sono legati a cambiamenti di natura tecnica avvenuti nel corso del tempo: penso ad esempio alle numerose modifiche che hanno interessato la regola del fuorigioco. Può capitare, però, che non si conoscano o si perdano le tracce dell’origine di una nuova parola: è il caso di battitore libero, locuzione nata con l’evoluzione tattica dei primi anni Cinquanta e il progressivo abbandono del Sistema o Modulo WM a favore del catenaccio. Io e Pierpaolo Lala abbiamo parlato di questa espressione in Invasione di Campo, spiegando come il nuovo ruolo venne chiamato così proprio perché il calciatore non giocava in linea con la difesa, ma leggermente arretrato; oggi invece non esiste più nel linguaggio del calcio battitore libero, e neanche libero, come fu detto per anni, proprio perché l’evoluzione tattica seguita alla rivoluzione sacchiana ha portato ad abbandonare quel ruolo (con il ritorno della difesa in linea, si parla infatti di difensori centrali o centrali di difesa o solo centrali).
Nel corso del tempo, dunque, molte parole inglesi furono tradotte in italiano: penalty divenne (calcio di) rigore; goalkeeper si modificò in portiere, ma passando per una fase nella quale veniva chiamato guardiano (di porta); e i supporter divennero, naturalmente, i tifosi, ma soltanto però negli anni Trenta.
Uno dei protagonisti di questo processo di italianizzazione fu Luigi Bosisio, segretario della Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) che allora ancora si chiamava Federazione Italiana del Football (FIF). Nel 1907, fu proprio lui a chiedere alla Gazzetta dello Sport di cambiare il nome della rubrica dedicata al football, sostituendo a questo anglicismo la parola italiana calcio. Uno dei motivi che fu addotto allora era che si vantava un’origine tutta italiana dello sport, sebbene infondata, che affondava le sue radici nella tradizione del calcio fiorentino (o calcio in livrea) praticato fin dal Cinquecento nel capoluogo toscano. In realtà, si trattava di un’appropriazione impropria, visto anche che il calcio fiorentino, dal Seicento all’Ottocento, venne praticato soltanto in rare occasioni: non uno sport vero e proprio, quindi, ma una manifestazione spettacolare a carattere occasionale e celebrativo.
Sarebbe come dire che le corse dei cavalli che si svolgono oggi negli ippodromi derivino dal Palio di Siena.
Se possibile, ancora di più, dato che si arrivò persino a tracciare una storia tutta nostrana del nuovo sport, che, esulando dalle sue origini inglesi, riportava direttamente il calcio fiorentino all’arpasto (o harpastum) romano e all’episkyros greco, gli antenati più remoti del gioco del calcio. Né l’uno né l’altro, tuttavia, erano degli sport nel senso moderno, né tantomeno è possibile ipotizzare, almeno per l’Italia, una tradizione ininterrotta che dall’antichità arriva fino ai giorni nostri. Da un lato, più che di sport infatti, si trattava di forme di allenamento dei soldati e ci sono delle testimonianze della pratica dell’arpasto anche da parte delle truppe di Giulio Cesare stanziate nelle Gallie. Dall’altro lato, il calcio fiorentino probabilmente non è altro che un recupero tardo-rinascimentale dell’arpasto romano, di cui nel frattempo si era persa memoria; una riscoperta del mondo antico per certi versi analoga a tante altre che caratterizzano la cultura umanistica e rinascimentale. Nel nord della Francia, invece, l’arpasto continuò forse a essere praticato a lungo, ispirando poi attività molto simili, come la soule e la barrette, di cui si trova traccia anche nel medioevo. Un gioco simile a questi attraversò la Manica, passando nelle isole britanniche e, più tardi, diventò lo sport praticato nei college inglesi con il nome di football («You base football player» si legge già nel Re Lear di Shakespeare, risalente ai primi anni del Seicento). Tornando alla domanda sulla differenza tra il vocabolario del calcio e quello di altri sport, vorrei precisare che la ragione risiede, appunto, nel suo percorso lunghissimo, che dalla fine dell’Ottocento lo ha portato sino a noi.
E poi, naturalmente, ci si è messo di mezzo anche il successo crescente dello sport, diventando un fenomeno di massa.
Il successo di uno sport – come anche la diffusione di una moda o di una certa abitudine – ha un ruolo fondamentale nella promozione di alcune espressioni linguistiche. Si pensi, ad esempio, all’uso metaforico nella comunicazione politica della parola skipper o del verbo strambare, ossia cambiare velocemente posizione, che non è rimasto circoscritto solo a un noto appassionato di vela come Massimo D’Alema: si tratta infatti di espressioni utilizzate spesso anche da altri politici, ma non prima della regate di Coppa America che all’inizio degli anni Novanta portarono il Moro di Venezia di Raoul Gardini a vincere – primo sindacato italiano – la Louis Vuitton Cup. Aspettiamoci, a questo punto, un profluvio di metafore tennistiche, dopo i recenti successi di Matteo Berrettini ai campionati Open d’Australia.
Torniamo a Invasione di campo e al linguaggio sportivo usato in politica: quali sono le metafore che avete rilevato fossero usate più frequentemente?
Oggi, la maggior parte dei traslati di origine sportiva utilizzati nella comunicazione politica è senz’altro legato al calcio. Tuttavia, la metafora probabilmente più ricorrente in politica, soprattutto quando si parla di avversari, è rappresentata dalla coppia maratoneta–velocista (o centometrista). Già negli anni Ottanta, in un articolo per La Stampa, Frane Barbieri aveva definito Reagan velocista e Andropov maratoneta, paragonando il primo a Jesse Owens, il trionfatore dei Giochi olimpici di Berlino nel 1936, il secondo a Paavo Nurmi, famoso mezzofondista. Si tratta davvero di una metafora di grande fortuna e di lunga durata. Pensiamo alla prima candidatura di Matteo Renzi alla segreteria del Partito Democratico, quando venne poi sconfitto da Pierluigi Bersani. Durante un’intervista, chiesero ai contendenti a quale sportivo si sarebbero paragonati: Bersani fece il nome del saltatore con l’asta Serhij Bubka (che chiamò, con un lapsus, Burka); Renzi paragonò sé stesso a Carl Lewis, plurivincitore alle Olimpiadi del 1984, e pensò per Bersani a Dorando Pietri, vincitore della Maratona di Londra del 1908. Quest’ultima comparazione non era però esente da una certa malizia: Pietri era stato infatti squalificato, in quanto aiutato dal pubblico, che lo sorresse negli ultimi metri della gara e lo accompagnò al traguardo (era infatti entrato in crisi a pochi metri dal compiere l’impresa e tra coloro che lo aiutarono, si disse, c’era anche Arthur Conan Doyle). Quando poi Renzi diventò segretario del Partito Democratico (e poco dopo presidente del consiglio), molti commentatori politici cominciarono a descriverlo come un ottimo centometrista, ma che andava valutato sulla lunga distanza; già nel 2014 Giorgio Guazzaloca aveva vaticinato: «Bravo come centometrista, però bisognerà vederlo all’opera come maratoneta» (Andrea Chiarini, la Repubblica, 24 gennaio 2014).
Se si vuole parlare dell’intreccio tra il linguaggio della politica e quello dello sport, segnatamente del calcio, bisogna però senza dubbio ripercorrere una fase decisiva per la storia del Paese, che coincide con l’inizio della Seconda Repubblica. Parliamo, da un lato, della discesa in campo (metafora calcistica!) di Silvio Berlusconi nel 1994; dall’altro, dell’intervento in politica di Romano Prodi, l’anno successivo. Nel febbraio del 1995, Indro Montanelli, in quel momento in rotta con Berlusconi, avvertì in un articolo su La Voce che Prodi non aveva le doti del velocista utili per vincere le elezioni, ma semmai quelle del maratoneta (per quanto tutti sapessero che Prodi fosse un grande appassionato di ciclismo). Ad ogni modo, il professore bolognese rispose riprendendo la medesima metafora: ammise di non possedere le doti del velocista, ma disse anche che all’Italia in quel momento servivano la resistenza e la perseveranza proprie di un maratoneta. E quando dieci anni dopo, in procinto di ricandidarsi alle politiche del 2006, qualcuno cercherà di attribuirgli doti da velocista, Prodi risponderà ironicamente: «Mi chiedete di cominciare adesso lo sprint? Se lo facessi tradirei la mia indole di maratoneta» (dal Corriere della Sera e da la Repubblica del 26 gennaio 2006).
Dunque è da allora che cominciarono a essere usate le metafore sportive con sempre maggiore frequenza nella comunicazione politica?
Sì, e anche qui le ragioni sono in larga parte storiche: negli anni Novanta, con la crisi delle ideologie, avvenne un cambiamento epocale; la politica italiana, in particolare, perse i due suoi maggiori punti di riferimento, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista; gli anni della politicizzazione, i Sessanta e i Settanta, erano orami lontani. Finiti gli entusiasmi e dismessi gli slogan legati alle grandi ideologie del Novecento, la politica si servì allora del calcio e del suo vocabolario per riaccendere quegli entusiasmi e, soprattutto, ricreare un senso di appartenenza.
Il cambiamento certo si rese manifesto proprio quando Berlusconi annunciò la propria discesa in campo, una metafora che peraltro nemmeno inventò: era stato infatti Paolo Valenti, storico conduttore di 90° minuto ad averla usata per la prima volta, in occasione della sua candidatura alle elezioni politiche del 1987. Non a caso, Berlusconi scelse anche il nome di azzurri per indicare gli appartenenti al partito e nacque poi la squadra di governo. Metafore di grande successo, si direbbe, tanto che lo storico capitano del Milan Franco Baresi, quando nel dicembre del ’94 il governo Berlusconi entrò in crisi, lamentò il fatto che non si poteva allontanare un allenatore prima della fine del campionato.
A forza di usare le metafore calcistiche sembra quasi che i politici abbiano cominciato a confondere la forma con la sostanza, un cambiamento del clima che si cominciava a respirare anche nelle contese tra i politici e nei loro botta e risposta. È così?
Sì, e che il clima di allora fosse cambiato, lo dimostrano tanti esempi. Giusto per citarne uno, prendo in considerazione un famoso confronto televisivo tra Gianfranco Fini e Francesco Rutelli, avversari nelle elezioni a sindaco di Roma. Bene, durante il dibattito, Rutelli ammise di essere tifoso della Lazio, un’affermazione che un politico della Prima Repubblica difficilmente avrebbe fatto. Fini invece disse di tifare per il Bologna e di avere anche una simpatia per la Lazio. Tra i candidati al primo turno, però, ci fu anche chi cercò ipocritamente di ingraziarsi le due tifoserie affermando di tifare sia per la Lazio sia per la Roma, e compiendo così, agli occhi di molti, una gaffe imperdonabile. E sul suo nome cadde la damnatio memoriae.
Un altro esempio: in un dibattito con l’economista Luigi Spaventa, suo avversario nel collegio uninominale del 1994, Berlusconi chiese all’interlocutore quante Coppe Campioni avesse vinto, forte di quelle che lui si era aggiudicato negli anni precedenti con il Milan («Provi Spaventa a vincere due Coppe Campioni!»). O ancora si pensi a quando lo stesso Berlusconi chiese la fiducia programmatica al Senato, nel 1994, poche ore prima che la squadra affrontasse il Barcellona di Cruijff nella finale di Champions League; dai banchi dell’opposizione qualcuno interruppe il discorso gridando «Auguri anche al Milan per questa sera», e il premier imperturbabile replicò «Siamo là a difendere i colori del Milan, di Milano ma anche dell’Italia».
Del resto, come non ricordare che proprio da allora nelle trasmissioni dedicate al calcio, come quella di Biscardi (di fatto, il vero inventore del talk show in Italia), cominciarono a essere invitati sempre più ospiti politici.
Ci sono delle espressioni che pensi siano usate scorrettamente o delle espressioni che proprio non tolleri, anche dal punto di vista idiosincratico?
Non sono contrario a priori all’uso di metafore calcistiche e sportive, nemmeno nella comunicazione politica. Se è un modo per semplificare un linguaggio, che un tempo era ben più oscuro (chi non ricorda le “convergenze parallele” di Aldo Moro?), direi che va benissimo.
Il problema è quando questo modo di esprimersi diventa sistematico. Ad esempio, se un politico come Renzi, poco dopo essere diventato per la prima volta segretario del PD, dice «lotterò su ogni pallone per onorare questa maglia», mi viene da pensare che non ci sarebbe bisogno di un ricorso così massiccio alle metafore calcistiche per spiegare quello che si intende. Insomma, se quell’uso serve per semplificare il discorso, è benvenuto. Se invece si cristallizza in una forma fissa, allora, diventa anch’esso, sebbene in forme diverse, un’espressione del politichese.
Ancor peggio è il ricorso a metafore calcistiche come forma di rispecchiamento nei propri elettori: è il modo che molti politici hanno per avvicinarsi alle persone comuni. Si pensi ad esempio all’uso delle felpe personalizzate e delle maglie calcistiche da parte di Matteo Salvini. Credo che non sia particolarmente interessante sapere se un politico tifa una squadra piuttosto che un’altra; al pari, per dire, della sua dieta alimentare. In questi casi, l’utilizzo di traslati sportivi appare persino una presa in giro degli elettori.
Per il resto, invece, mi ritengo abbastanza flessibile quando si tratta di questioni legate alla lingua: non credo nelle forme dirigistiche. Personalmente, anzi, sostengo che qualche problema possa prodursi nel caso di calchi da altre lingue, piuttosto che di prestiti. Non in tutti, naturalmente: grattacielo (skyscraper) non crea problemi, ad esempio, ma lo stesso non si può dire per jihad, che viene reso con guerra santa, ma significa semplicemente ‘lotta, combattimento’. Il calco, dunque, è ben più pericoloso di un semplice prestito. Poi, sul fatto che l’italiano sia una lingua influenzata dall’inglese e dall’angloamericano non c’è dubbio: non solo prendiamo in prestito delle parole, ma le inventiamo persino, come sono gli pseudo-anglicismi click day, smart working o smoking (parola che in inglese non designa l’abito da sera!). Se però, come dicevo, tutto ciò può migliorare il grado di intercomprensibilità o, semplicemente, se la maggior parte delle persone usa quelle parole, trovo che se ne debba pacificamente prendere atto. È l’uso che fa la lingua, non altro.
Federico Pani
Una versione ridotta è comparsa sul Piccolo di Cremona del 5 febbraio 2022
