L’italiano e la scrittura amministrativa, l’intervista ad Antonio Montinaro

Circolari amministrative, note ministeriali, contravvenzioni, regolamenti: a tutti è capitato di entrare in contatto con la cosiddetta scrittura amministrativa. La linguistica la classifica come un linguaggio settoriale: si riferisce cioè a un sottocodice della lingua con esigenze espressive specifiche. Ne ho parlato con Antonio Montinaro (nella foto), professore di Linguistica italiana e docente di Scrittura amministrativa e istituzionale presso l’Università degli Studi del Molise.

«Esiste un dibattito sulla categoria in cui inserire il linguaggio amministrativo (all’interno della quale è compresa anche la scrittura amministrativa): meglio definirlo settoriale o specialistico? Per alcuni, infatti, il linguaggio specialistico dovrebbe riferirsi soltanto alle cosiddette scienze dure, come la matematica, la fisica o la chimica. Il linguaggio amministrativo ha certamente un punto in comune coi linguaggi settoriali: possiede un lessico proprio e una serie di tecnicismi, che trae per buona parte dal diritto. Direi, dunque, che si tratta di un linguaggio settoriale, caratterizzato sì da un lessico particolare, per quanto meno definito rispetto a quello di scienze come la fisica o la medicina».

«L’espressione linguaggio amministrativo è peraltro una definizione neutra, ossia puramente denotativa. Altre definizioni, come burocratese o burolingua, ma anche l’antilingua coniata da Italo Calvino, sono invece di carattere connotativo, nel senso che forniscono un giudizio di valore. Dal punto di vista sociolinguistico, la scrittura amministrativa è una varietà dell’italiano marcata nell’asse di variazione diafasico, dal momento che è il contesto che ne innesca alcuni meccanismi tipici. Nel caso della scrittura amministrativa, essendo un codice scritto, l’altro asse di variazione marcato è l’asse della diamesia. Questa distinzione serve a sottolineare che il linguaggio amministrativo può manifestarsi anche attraverso i cosiddetti canali trasmessi: una comunicazione nata e fatta per la rete, ad esempio, deve sottostare a delle caratteristiche diverse rispetto a una circolare amministrativa o a una nota ministeriale. La categoria del linguaggio amministrativo, dunque, è più ampia e include al suo interno diverse tipologie testuali».

Alla scrittura amministrativa viene spesso imputata l’accusa di immotivata complessità. Ci può indicare come si manifesta e darci qualche suggerimento per affrontarla?

Innanzitutto, è interessante fare notare che il linguaggio amministrativo è visualizzabile come il lato di una triangolazione che, accanto ad esso, vede le norme giuridiche da una parte e i gruppi di cittadini che ne sono di volta in volta interessati dall’altra. Bene, spesso la complessità della scrittura e del linguaggio amministrativo sono tali da impedire che si raggiunga la cosiddetta felicità comunicativa, ossia l’efficacia della triangolazione tra le norme e i cittadini, che passa appunto attraverso il linguaggio amministrativo. Le ragioni di questo mancato obbiettivo, al netto delle eventuali complessità dell’argomento, vanno ricercate proprio nei caratteri formali della scrittura amministrativa.

Detto ciò, penso che in questo campo uno dei problemi maggiori sia la scrittura tout court. Nei corsi che teniamo, io e i miei colleghi rileviamo che il problema interessa sia gli studenti sia molti professionisti. Faccio l’esempio della gestione errata degli incisi, una categoria tipica del linguaggio del diritto mutuata largamente da quello amministrativo: bene, dal momento che si aprono spesso molti incisi, l’uso della virgola è fondamentale; se lo si sbaglia, si cambia il significato di ciò che si vuole dire. Ciò avviene, peraltro, per un problema di formazione al livello primario: quasi nessuno ha ricevuto una formazione specifica sull’uso della punteggiatura. A questo punto bisogna però distinguere tra tre piani diversi del testo. Innanzitutto, c’è il livello lessicale. Questo comprende il livello ortografico, che è il più evidente: tutti si accorgono di una parola scritta nel modo sbagliato. Poi, invece, ci si addentra nelle strutture più profonde della lingua, che sono il secondo e il terzo piano del testo: la morfosintassi e la testualità; in questi ultimi due casi, diventa sempre più difficile accorgersi che c’è qualcosa che non va. Ma andiamo con ordine.

Dal punto di vista lessicale, la raccomandazione è quella di non esagerare coi tecnicismi collaterali, termini usati solamente a fini stilistici e che rendono opaca l’informazione: tra la frase il proiettile ha attinto la vittima e il proiettile ha colpito la vittima non solo non c’è alcuna differenza di significato, ma la versione più colloquiale risulta più chiara. Si potrebbero fare numerosi esempi: compiegare per allegare, declinare le proprie generalità per dichiarare, trattamento di quiescenza per pensione. Certo, alcuni tecnicismi sono ineliminabili, ma gli altri non sono giustificabili se il destinatario del messaggio è il grande pubblico. Per molti dei destinatari, infatti, potrebbe risultare davvero complicato capire che cosa si intende nel testo. È chiara la dimensione del problema se si pensa che la comprensione dei testi pubblici dovrebbe essere garantita come un diritto.

Tutto ciò risulta ancora più evidente nel caso dei forestierismi: la nozione di stepchild adoption, ad esempio, è risultata poco chiara a molti fin da subito. Il numero di forestierismi, peraltro, è aumentato da quando l’Italia è entrata a fare parte del diritto amministrativo comunitario. Di qui, l’arrivo sempre maggiore di anglicismi, che andrebbero quantomeno tradotti all’inizio del testo o in nota, oppure ancora corredando il testo con un glossario. Un altro elemento che rende il testo molto opaco sono le sigle: se non vengono sciolte fin da subito, creano una grande difficoltà nella comprensione del testo. Poi, ci sono elementi di natura più stilistica, che possono essere superati sostituendo le locuzioni più pesanti con delle parole più dirette: dare comunicazione con comunicare, effettuare o procedere a una verifica con verificare, e così via.

Dal punto di vista morfosintattico, nella scrittura amministrativa si riscontra spesso l’uso di participi presenti usati in modo poco usuale: la circolare avente per oggetto; oppure l’uso del gerundio o del participio passato –viste le risultanze, avendo trasmesso la pratica, e così via. Bene, molte persone potrebbero trovarsi spiazzate di fronte a un uso simile della lingua. Tra le difficoltà in cui si può incorrere c’è anche l’uso dei costrutti passivi, molto spesso meno trasparenti rispetto ai costrutti attivi. Inoltre, bisogna anche fare attenzione all’uso marcato della punteggiatura, che in altri contesti viene usata per fini espressivi o per riprodurre il linguaggio marcato del parlato, ma nel linguaggio amministrativo provoca solo errori o ulteriore confusione.

Nei testi amministrativi si rileva anche l’uso poco accorto dei rimandi, ossia l’uso poco avveduto delle espressioni anaforiche e cataforiche: spesso queste espressioni rimandano a cose scritte anche pagine e pagine prima, difficili o complicate da recuperare. Entriamo, a questo punto, nel terzo livello dell’analisi, che è quello della testualità, il più complesso dato che in esso si assommano le diverse competenze. Prendiamo l’uso dei due punti: dalla nostra esperienza, io e molti miei colleghi abbiamo notato che la didattica scolastica associa l’uso dei due punti quasi esclusivamente al discorso diretto e indiretto, mentre non ne esplicita una funzione importante, ossia il fatto che possano essere usati per chiarire qualcosa che è stato appena affermato. Infine, ma si potrebbe continuare, bisognerebbe lavorare attentamente anche sull’organizzazione  complessiva del testo: le molte formule come visto e considerato potrebbero tranquillamente essere spostate dopo il contenuto informativo, che è il più rilevante del testo.

A fronte di tutto quel che abbiamo detto finora, dunque, va rilevato che purtroppo la maggior parte dei problemi della scrittura stanno non solo e non tanto nella complessità di quello che si deve dire (complessità che, ripeto, non deve essere certo banalizzata), quanto piuttosto nella complessità stilistiche del modo di comunicare. C’è da dire, volendo introdurre nel discorso una nota positiva, che oggi i modelli virtuosi non mancano. In un volume del linguista dell’Università di Padova Michele Cortelazzo recentemente pubblicato, Il linguaggio amministrativo, si parla delle buone pratiche della scrittura che si stanno affermando: giusto per fare un esempio, in caso di testi complessi e articolati, si può menzionare l’abitudine di spacchettarli in piccoli paragrafi o di ricorrere a delle tabelle, evitando che il lettore si trovi difronte a un muro di parole.

C’è chi sostiene che la scrittura giuridico-amministrativa abbia una funzione a modo suo virtuosa: penso alla tenuta in vita degli arcaismi e alle molte dizioni colte e, fino a poco tempo fa, alla sistematica traduzione in italiano delle espressioni straniere. Si può provare ad andare controcorrente e parlare bene della scrittura amministrativa?

Penso che il linguaggio amministrativo abbia avuto una funzione virtuosa soprattutto nel periodo di scarsa scolarizzazione degli italiani, ossia fino agli anni ’50-’60 del Novecento. Molti dei modelli della scrittura amministrativa, allora, erano letterari. Una volta raggiunta la piena scolarizzazione, quella amministrativa si è invece caratterizzata come una scrittura pesante e sempre più incline a delle devianze. Oggi, ci sono forme di scritture più utili a fungere da modello, come quella divulgativa, soprattutto di taglio scientifico. Va detto però che riscontro tra molti di coloro che lavorano nell’amministrazione un certo fermento, in taluni casi anche dell’entusiasmo, quando si parla di produrre una scrittura amministrativa più comprensibile. Una possibile soluzione al problema, a mio avviso, dovrebbe essere la formazione continua. Lo ripeto, non si posso banalizzare informazioni complesse, ma si possono veicolare in modo più chiaro: perché costruire una frase di 150 parole, quando la potrei suddividere in più periodi di 30-40 parole ciascuno? Perché, poi, non andare a capo ogni volta che c’è uno snodo logico? Insomma: perché non prendere per mano il lettore e accompagnarlo nel percorso di comprensione del testo?

Federico Pani

Una versione ridotta è comparsa sul Piccolo di Cremona del 30 aprile 2022

“L’italiano non si USA quasi più”, l’intervista a Valerio Massimo De Angelis

Cinquant’anni fa, nel 1972, con il film Il Padrino, il regista Francis Ford Coppola faceva riscoprire al mondo la cultura italoamericana. In occasione dell’anniversario, sono state poche, però, le sale a proiettare il film in lingua originale; un peccato, perché proprio il massiccio ricorso all’italiano parlato nella New York del Secondo dopoguerra restituisce uno degli aspetti più interessanti del film. Per riscoprire un po’ di quella cultura, a partire dalla lingua, e gettare uno sguardo a quel che oggi ne rimane, abbiamo rivolto alcune domande a Valerio Massimo De Angelis (nella foto), che insegna Lingue e letterature angloamericane all’Università di Macerata ed è coordinatore del Centro Interdipartimentale di Studi ItaloAmericani.

Professore, nel film di Coppola, ci sono scene nelle quali alcuni attori italoamericani, come Al Pacino, provano a parlare in italiano, ma hanno delle difficoltà e un forte accento americano: che ne pensa?

Penso che il forte accento di Al Pacino non sia un errore: al contrario, è voluto; interpretando il figlio di don Vito Corleone, Michael è quello che si definisce un second generation italian american; la perdita della lingua madre negli immigrati di seconda generazione in favore della lingua della comunità di accoglienza è un fenomeno generale, che risulta però accentuato nelle comunità italiane emigrate in nord America. Michael Corleone, inoltre, è rappresentato nelle prime scene come un eroe di guerra che si accompagna con una donna Wasp, interpretata da Diane Keaton: è perfettamente integrato, dunque. Quando ripara in Sicilia perché ha ucciso alcuni nemici della famiglia, è costretto a ricorrere a degli interpreti; solo lentamente impara l’italiano e, realisticamente, lo impara male.

Ci può dire di più della lingua che parlavano gli italoamericani e della vitalità di quella comunità?

Dei cinque milioni di italiani espatriati negli Stati Uniti, il 70-75% provenivano dalle regioni meridionali, in particolare dalla Sicilia e dalla Campania. Si venne perciò a creare prima di tutto un’interlingua siculo-campana, la quale poi si ibridò con l’inglese, dando vita all’italenglish (di cui l’esempio classico è il cosiddetto Broccolino). Oggi, questo fenomeno ormai è molto ridotto: gli immigrati italiani furono tra le comunità che si assimilarono volontariamente alla cultura mainstream. Questo fenomeno ha una datazione abbastanza precisa, la fine della Seconda guerra mondiale; negli anni della guerra, del resto, il governo americano perseguì una politica di repressione linguistica nei confronti dei nemici bellici, Germania, Giappone e Italia.

C’è da dire che, nei film, l’accento che viene messo in bocca agli italoamericani risulta piuttosto strano alle orecchie di un italofono.

Nei media, la cultura italoamericana storica viene rappresentata in modo abbastanza stereotipato: penso alla cosiddetta Guido culture o al programma Jersey Shore, che rappresenta ragazzotti italoamericani del New Jersey, sfaccendati e intenti a frequentare palestre e discoteche; in generale, si tratta di persone che non parlano l’italiano, bensì un inglese con un accento italoamericano, che – è vero – non è come l’accento che oggi hanno gli italiani quando parlano l’inglese, ma è frutto di una storia a sé. Bisogna ricordare inoltre che, fino alla fine della Seconda guerra mondiale, gli italiani furono fortemente razzializzati e praticamente messi sullo stesso piano dei neri. I loro risultati scolastici erano altresì registrati come i peggiori, tra quelli delle minoranze. Una storia che pochi conoscono è poi quella del Columbus Day. Questa festa nazionale, oggi messa in discussione perché è vista come la celebrazione dell’inizio dello sterminio dei nativi americani, venne istituita per riparare a un grave fatto accaduto ai danni della comunità italiana, il più grande linciaggio della storia avvenuto negli Stati Uniti: il 14 marzo 1891, a New Orleans, una folla di cittadini assalì infatti la prigione locale, facendo strage di undici immigrati italiani.

E oggi come se la cava l’italiano?

Oggi, negli Stati Uniti l’italiano parlato non gode di buona salute: sebbene sia la quinta più studiata, tra le lingue straniere parlate è quella che sta morendo più rapidamente. Ciò, nonostante da qualche tempo la migrazione italiana nel paese sia ricominciata. Tuttavia, anche negli Stati Uniti c’è un ritorno di orgoglio per certi aspetti legati alla cultura italiana, in particolare alla moda e al cibo. L’italiano, dicevo, resta una lingua di studio: negli ultimi anni, a livello universitario sono fioriti gli Italian American studies, che fanno attività di recupero e di lettura critica della cultura italoamericana, così come numerose iniziative all’interno della public culture, la cultura libera diffusa, con iniziative aperte a tutti. In fondo, il motivo per cui la nostra lingua non è più parlata dagli italoamericani è perché la loro è una success story: sono riusciti a conquistare un riconoscimento nella cultura di massa, nel mainstream.

A tale proposito, faccio un esempio particolarmente mainstream: per riprendersi da una crisi dell’identità nazionale senza precedenti, dopo la sconfitta nella Guerra del Vietnam, lo scandalo Watergate e la crisi energetica della metà degli anni Settanta, il sistema cultuale, attraverso Hollywood (che tantissimo deve agli italoamericani, non solo a Coppola, ma anche a Scorsese, De Palma, Ferrara, Cimino, Tarantino e Zemeckis) costruì un personaggio italoamericano di enorme successo interpretato da Sylvester Stallone, Rocky Balboa, che divenne, assieme a John Rambo (che però non è un personaggio italoamericano) il simbolo della revanche americana. Quella cultura, insomma, ha acquisito una riconoscimento e una popolarità che le permettono di non avere quasi più la necessità di conservare un’identità linguistica.

Dal punto di vista cinematografico, in effetti, la presenza degli italoamericani è sorprendente.

In realtà, non è così sorprendente che una parte consistente della cultura cinematografica americana sia stata colonizzata dagli italoamericani: prima del 1861, l’immigrazione italiana verso gli Stati Uniti era composta in buona parte da artisti; ad emigrare in America era già stato, tra i molti, anche Lorenzo Da Ponte, librettista di Mozart. Non solo attori, poi, ma anche gli artigiani dello spettacolo, come scenografi e costumisti; si venne insomma a creare una cultura dello spettacolo, influenzata soprattutto dalla tradizione napoletana della musica e dello spettacolo. Del resto, le prime due grandissime star dello show business americano furono due italiani, Rodolfo Valentino ed Enrico Caruso.

E per quanto riguarda la vitalità dell’italiano scritto?

Esiste ancora un giornale, il vecchio Progresso italoamericano, che ha cambiato nome in America Oggi. Un tempo, questo panorama legato alla stampa era più variegato: il tasso di alfabetizzazione degli immigrati italiani era mediamente superiore a quello dei loro connazionali in patria –  parliamo di circa il 50%, mentre agli inizi del Novecento in Sicilia e in Campania l’analfabetismo toccava punte dell’80%. Tuttavia, il loro linguaggio orale era costituito soprattutto dai dialetti. Aggiungo, poi, tra i periodici di una certa importanza ancora in vita la Voce di New York, quotidiano online. Per quanto riguarda la letteratura, sono pochi i testi che comparvero scritti interamente in italiano; tra i pochi, mi viene in mente Bernardino Ciambelli e la sua raccolta I misteri di Mulberry Street di fine Ottocento, centro della mitica Little Italy di Manhattan, nonostante la Little Italy di maggiori dimensioni si trovasse, allora, ad Harlem. Invece, un grande autore italoamericano, ma già di seconda generazione, come John Fante, in Ask the dust (Chiedi alla polvere) presenta come protagonista-narratore un aspirante scrittore italoamericano che vuole essere riconosciuto esclusivamente come autore americano, e non italoamericano. Per trovare oggi un’autrice contemporanea americana che scriva in italiano, bisogna parlare di Jhumpa Lahiri, una scrittrice di origine indiane, che è nata negli Stati Uniti e si è poi trasferita in Italia, e che adesso scrive anche nella nostra lingua.

Federico Pani

Il Piccolo di Cremona, 16 aprile 2022

L’Emojitaliano, l’intervista a Francesca Chiusaroli

Vi immaginate un testo, magari un classico della letteratura, scritto solo con le faccine dei messaggi, gli emoji? Bene, questo testo esiste: è Pinocchio in Emojitaliano (Apice libri, 2017), traduzione in pittogrammi digitali del capolavoro di Collodi. Il libro è stato scritto dalla professoressa di Glottologia e Linguistica dell’Università di Macerata, Francesca Chiusaroli (nella foto), insieme a Johanna Monti dell’Università Orientale di Napoli e all’informatico Federico Sangati (attualmente alla OIST Graduate University del Giappone), con la collaborazione degli utenti di Twitter che hanno risposto alla chiamata del tweet #scritturebrevi #emojitaliano. Siamo tornati a parlare di questo esperimento, per approfondirlo, con la professoressa Chiusaroli.  

Al di là dell’aspetto ludico, che non dev’essere mancato, l’obiettivo del progetto era chiaro: inventare un codice linguistico composto solo da emoji. Per farlo, avete dovuto corredare il testo con una grammatica; ciò differenzia il vostro da alcuni lavori precedenti, ad esempio da Emoji Dick, traduzione del Moby Dick di Melville. Già: ma perché proprio gli emoji? E poi: non avete avuto un po’ di rammarico, nel vedere che se ne sono poi aggiunti molti altri che avrebbero semplificato il lavoro? 

È vero, il nostro lavoro è stato diverso rispetto a Emoji Dick, al quale lavorarono ben ottocento traduttori. A ciascuno di essi veniva di volta in volta assegnato un numero definito di frasi da tradurre, senza che però avvenisse una qualche comunicazione tra loro. La frase veniva poi votata tramite piattaforma, un’operazione pertanto estremamente soggettiva, quantunque bellissima e creativa. Alla base, mancava l’idea di costruire un’autentica lingua. Quel libro, dunque, non è leggibile né in italiano né in inglese, in quanto manca un codice condiviso. Qualsiasi lingua infatti, compresa quella pittografica in emoji, non può funzionare se alla base non c’è una grammatica. La nostra squadra, invece, era composta da una dozzina di volontari che, per nove mesi, dal febbraio al settembre del 2016, hanno lavorato seguendo questa prassi: si traduceva durante il giorno e la sera ero io a tirare le file pubblicando la traduzione ufficiale; ciò conferiva carattere unitario alla traduzione e punti di riferimento lessicali e morfologici a partire dai quali proseguire: a settembre 2016 la lingua (Emojitaliano) era nata, con un lessico condiviso e una struttura sintattica che la rende leggibile “in tutte le lingue del mondo”.

Nel corso del lavoro, infatti, abbiamo dato vita a una scrittura grammaticale semplificata. Qualche esempio: una struttura sintattica fissa soggetto-verbo-oggetto; la frase attiva sempre obbligatoria; l’aggettivo sempre dopo il sostantivo, per cui la bella casa diventa sempre la casa bella; la presenza delle sole forme temporali semplici, ossia l’infinito, il presente, il passato e il futuro; queste ultime forme, in particolare, il passato e il futuro, definite da una freccia orientata rispettivamente verso sinistra e verso destra.

Rispondendo alla domanda, la scelta è caduta proprio sugli emoji perché, in quanto pittogrammi internazionali, li ho subito considerati come interessanti in chiave traduttiva: è un repertorio che sta nelle tastiere di tutti i dispositivi del mondo; previa definizione di uno standard condiviso, può essere aggiunto alla serie dei codici universali della storia, cioè alle scritture leggibili in tutte le lingue che si sono succedute nel tempo. Per quanto riguarda gli aggiornamenti dei nuovi emoji, già durante la prima revisione ci siamo confrontati con un sistema che era stava cambiando; basti pensare che allora non c’erano né la faccina col naso lungo e nemmeno il grillo. Per questo, ho voluto che il lavoro fosse stampato su carta: perché fosse un punto di riferimento anche per il futuro. Come ha affermato Noam Chomsky, le lingue hanno un livello superficiale e un livello profondo: bene, a noi interessava fissare la struttura profonda di quella lingua, la quale, come poi è accaduto, è stata in grado di accogliere dei nuovi simboli.

Dopo l’avventura con Pinocchio, l’Infinito di Leopardi e la partecipazione al progetto di traduzione di alcune parti della Divina Commedia nelle diverse varietà dell’italiano (Emojitaliano compreso), ha aggiunto che si sarebbe occupata della traduzione di celebri incipit della letteratura italiana, tra i quali quello dei Promessi sposi; in queste traduzioni ha dunque aggiunto anche quei nuovi simboli che potremmo definire dei neologismi? 

Sì, nelle nuove traduzioni abbiamo accolto i nuovi simboli che a tutti gli effetti possono essere definiti come dei neologismi. La traduzione dei Promessi Sposi deve ancora arrivare (ed è in programma anche la traduzione del Cantico delle creature). Quest’anno abbiamo tradotto la favola della Tramontana e il sole, un testo di riferimento per la linguistica, in particolare per i metodi della fonetica. Esistono infatti registrazioni di questa favola in tutte le lingue del mondo e nei dialetti italiani.

Ecco, in anteprima, la traduzione in Emojitaliano della favola di Esopo La tramontana e il sole, realizzata dalla prof.ssa Francesca Chiusaroli nell’ambito del corso di Storia della traduzione, a.a. 2021-22, Università di Macerata.

Il lavoro che abbiamo fatto sui termini non si limita solo all’accoglimento dei neologismi. Prendiamo il caso dell’Infinito: nella traduzione in Emojitaliano abbiamo fatto in modo che l’impatto visivo desse anche un senso di evocazione, tipico della lirica. Insomma, l’Emojitaliano non è una lingua algebrica, ma viva, capace di restituire anche sfumature diverse e accogliere i nuovi segni che il Consorzio Unicode decide con regolarità di aggiungere (e che, coi progressivi aggiornamenti dei sistemi operativi, finiscono nelle nostre tastiere). L’accoglimento di nuovi termini non prevede l’aggiornamento della grammatica, bensì l’ampliamento delle voci nel bot dedicato, @emojitalianobot (su Telegram e su Twitter), realizzato per il progetto da Federico Sangati, di fatto un sistema che automatizza la traduzione.

L’uso dei pittogrammi è certamente una scorciatoia per colorire la comunicazione telematica quotidiana. Secondo lei, il ricorso sistematico alle scritture brevi e alle emoji per esprimere sfumature intenzionali ed emotive non impoverisce il lessico di chi ne fa uso, soprattutto dei ragazzi? 

Mettiamola in questi termini: l’esercizio della traduzione in Emojitaliano è una sperimentazione e non parte certo dall’idea sostituire quella naturale. Tuttavia, non impoverisce certo l’uso della lingua; al contrario, è un esercizio che obbliga a leggere i testi. Ci si allena, perciò, in un’attività intersemiotica, ossia in un’attività che fa riflettere sull’uso di codici diversi tra loro. Un esempio che cito sempre è il passo di Pinocchio nel quale sta scritto che Mastro Geppetto e Mastro Ciliegia “se ne dettero un sacco e una sporta”: bene, per tradurlo avrei potuto raffigurare Geppetto nell’atto di dare un sacchetto a Mastro Ciliegia, ma questo avrebbe voluto dire non fare capire nulla del significato; perciò, ho raffigurato la scena con un pugno, la cui traduzione è “picchiare”, ma anche “darne un sacco e una sporta”. Direi quindi che l’Emojitaliano è un modo per conoscere ancora meglio la lingua che si trova scritta nei grandi testi della nostra letteratura.

Passiamo per un momento all’uso che i “digitanti” fanno degli emoji. Dall’osservazione empirica si può notare che l’uso dei pittogrammi si sta evolvendo: alla faccina con le lacrime che rappresenta le risate, ad esempio, molti giovani preferiscono l’immagine del teschio, che rappresenta la frase “mi fa morire dal ridere”. Ha rilevato anche lei questi cambiamenti?

Mi è capitato di leggere più volte in rete dell’opposizione generazionale sulla base dell’uso che si fa degli emoji; parlo della distinzione tra i più giovani e i cosiddetti boomer. Un fenomeno simile era accaduto col sistema di messaggistica Windows Live Messenger (MSN); cliccando su più tasti, era possibile dare vita a pittogrammi digitali (anche in movimento). A un certo punto, questi pittogrammi, così come anche le abbreviazioni (grz per grazie, cmq per comunque e così via), cominciarono a essere abbandonate, in favore di una scrittura per esteso; gli utenti che continuavano a scrivere con le abbreviazioni, peraltro, venivano apostrofati con l’espressione non certo lusinghiera di bimbiminkia.

Oggi, il pregiudizio nei confronti delle abbreviazioni resta forte e credo che sia stia verificando qualcosa di analogo anche nel caso di un certo uso degli emoji. Quando si parla del loro uso reale, però, ci si allontana notevolmente dalla definizione linguaggio universale: si torna a parlare, al contrario, di gerghi e microgerghi che sorgono anche sulla base dell’età e delle caratteristiche sociali di chi li usa. In questo senso, però, ci sono anche degli interessanti casi di normativizzazione interna. Accade, per esempio, nei social network meno popolari, al cui interno si diffondono segni propri e specifici. Personalmente, da linguista, non giudico niente di tutto ciò: al contrario, lo guardo e lo analizzo con grande interesse.

L’evoluzione si vede anche dal punto di vista dell’inclusività, con l’aggiunta di emoji ad hoc.

Sì, anche negli emoji è stato compiuto un percorso d’inclusione. Per esempio, dal punto di vista del genere, il medico non è più soltanto maschio e la ballerina soltanto femmina; si potrebbero poi citare i diversi gradi di colorazione dell’incarnato; ma si è intervenuti anche nell’ambito della disabilità, con l’aggiunta, per fare un altro esempio, degli arti bionici. Nel caso della traduzione della Tramontana e il sole, peraltro, abbiamo usato il braccio bionico per tradurre il concetto di forza. Mi piace ripetere che il linguaggio degli emoji è uno specchio della società. Uno specchio, tuttavia, nel quale però manca sempre qualcosa che invece c’è nel mondo reale. Più che dagli astratti, infatti, il vero problema è costituito dalla traduzione dei termini concreti: non ci sono problemi nella traduzione di parole come volare (si può anche usare, per dire, il pittogramma dell’aereo). Ma quando abbiamo tradotto Pinocchio non c’erano parole come farfalla e in quel caso si riscontravano i più acuti problemi di traduzione.

Il rischio dunque è dover includere idealmente tutti gli oggetti presenti nel mondo, o quasi, rendendo questo linguaggio praticamente inservibile?

Sì, e la storia delle traduzioni, del resto, ci insegna che proprio per questo motivo i sistemi pittografici sono stati sostituiti dall’alfabeto, per la difficoltà a dotarsi di segni sempre più specifici, per cui il repertorio risultava sempre inadeguato rispetto alle esigenze concettuali. Oggi, si è arriva all’avatar di sé stessi, che di fatto rappresenta una deriva di questo linguaggio, dal momento che rappresenta un individuo (il sé stesso) nella sua singolarità. Paradossalmente, la faccina gialla sorridente o triste resta tra i simboli più universali, e dunque più perfetti, di questo codice.

Federico Pani

Una versione ridotta è comparsa sul Piccolo di Cremona del 9 aprile 2022

“Replay”, di Marco Gelmetti

Che cosa si intende per stile “post-moderno”? Eco, col suo saggio in calce al “Nome della rosa”, se ne intestò il titolo, mentre al libro di Marco Gelmetti (nella foto, di Cosetta Frosi), “Replay” (Bookabook), il titolo è stato assegnato dalla giuria del premio “Calvino”. Citazionista, ironico e ricco di deformazioni iperboliche, “Replay” è un’incursione nell’immaginario di chi, come l’autore, ha passato la giovinezza tra gli anni ’80 e ’90. La storia, un allungato fine settimana di crescita interiore, infatti, è quasi un pretesto per l’intreccio di fascinazioni musicali, fumettistiche, filmiche e videoludiche, dal quale traspare in ogni riga un forte senso di umanità.  

Qualche parola sulla pubblicazione del libro, avvenuta tramite una raccolta fondi?  

La mia esperienza con Bookabook la riassumerei in tre parole: sorprendente, faticosa e decisiva. Decisiva perché senza di loro il mio romanzo probabilmente non sarebbe mai esistito, faticosa perché fare crowdpublishing significa trasformarsi per tre mesi in social media manager del proprio progetto editoriale, e sorprendente perché mi sono trovato spiazzato più di una volta, e intendo sia positivamente sia negativamente. La consiglio quindi a chi non ha problemi con fatica e sorprese e che non è a digiuno dai meccanismi di comunicazione social. 

Passiamo alla scrittura: che tipi di lavoro ha comportato? 

Scrivere “Replay” è stato un lavoro impegnativo sul fronte psicologico, perché il romanzo è un confronto divertente ma per me anche molto toccante col mio passato. Non è stato però complicato dal punto di vista della scrittura, perché essendo narrato in prima persona mi ha permesso di uscire con la mia voce più naturale. È una voce che tende continuamente all’alternarsi di dramma e sdrammatizzazione, raccontando con ironia, tante iperboli e un po’ di cinismo. Chi lo definisce romanzo post-moderno non credo sbagli di molto, soprattutto perché nello scrivere non ho mai avuto riferimenti esclusivamente letterari e non mi sono mai posto il problema della realtà delle cose. Penso di essermi inconsciamente rifatto a una vecchia regola imparata a scuola di pittura: “Non dipingere ciò che vedi, dipingi ciò che sta bene”. 

Qual è il ruolo della letteratura, oggi? 

Non so quale ruolo debba avere, però so che da qualche decennio ci sono in giro tre media fortissimi dal punto di vista narrativo, il cinema, i fumetti e i videogames, che si citano e si alimentano splendidamente a vicenda. Hanno sfornato opere che fanno parte dell’immaginario pop di ormai svariate generazioni e credo che la letteratura, qualunque sia il suo ruolo, debba trovarsi lì, dove sta l’immaginario della gente. Deve essere seduta attorno a quel fuoco, come un vecchio affabulatore pieno di storie da raccontare ai bambini. Non farlo significa che la letteratura vuole rinunciare ad incantare le persone. 

Qualche anticipazione sul prossimo romanzo? 

Il prossimo romanzo avrà ancora come protagonista J e sarà un seguito-non-seguito di “Replay”. Metterò da parte la mia tendenza a guardare al passato e racconterò un presente che conosco molto bene: la vita in un’azienda del digitale. Non posso dire molto di più, non tanto perché non voglia fare spoiler, ma perché anche se ho una scaletta precisa di quanto dovrei scrivere, sono abbastanza certo che i miei personaggi faranno come sempre di testa loro. 

Federico Pani

Il Piccolo di Cremona, 26 marzo 2022

L’uscita dalle officine Lumière, il primo film della storia

19 Marzo 1895 • I fratelli Auguste e Louis riprendono gli operai della fabbrica del padre. Ha inizio la grande storia del cinema

A Lione, esisteva un tempo una via dal nome rue Saint Victor. Oggi, quella via si chiama rue du Premier Film ed è a due passi dalla fermata della metropolitana Monplaisir-Lumière; in rue du Premier Film ha la sua sede anche l’Institut Lumière. Se si prosegue, si trova un muro tappezzato di targhe, Le Mur des Cinéastes. E insomma, forse non serve nemmeno aggiungere che nella stessa via c’è un museo, il Musée Lumière, e nel medesimo isolato una scuola superiore, il Lycée professionnel du Premier Film, per capire di trovarsi nel luogo dov’è cominciata l’epopea del cinema.

Ma torniamo indietro di qualche anno, alle soglie della primavera del 1895. Rue Saint Victor, allora, si trovava nella periferia della città e ospitava la villa e la fabbrica di Antoine Lumière, padre dei fratelli Auguste e Louis. Più che una fabbrica, era un’officina manifatturiera, indovinate un po’, di fotografia; o meglio, di “piatti fotografici”, gli antesignani delle pellicole (i “film”, appunto). Quel marzo del 1895, il tempo era brutto. Il 19 si presentò però un’inopinata giornata di sole; il termometro segnava, a mezzogiorno (una coincidenza che i fratelli non mancarono di notare), 19 gradi all’ombra. Fu allora che venne girato il primo film della storia, 800 immagini per 50 secondi di ripresa: Auguste e Louis lo girarono al pianterreno della casa di fronte all’uscita dell’officina. Il titolo fu “L’uscita dalle officine Lumière” e riproduceva l’uscita degli operai, donne il larga parte. L’unico “oggetto di scena” visibile ancora oggi è il capannone sullo sfondo.

Per capire come si arrivò, quel giorno, a dare inizio alla storia del cinema, va fatta prima una piccola premessa. L’illusione di realtà del cinema si basa su due fenomeni ottici. Il primo è la persistenza della visione; il cervello trattiene infatti per qualche frazione di secondo l’immagine che si proietta sulla retina. Il secondo è il fenomeno phi, un effetto dell’attività del cervello che conferisce alle immagini riprodotte in sequenza, e con una certa rapidità, l’illusione della continuità del movimento. Questi fenomeni, noti da tempi immemori, erano già stati sfruttati in alcuni congegni dai nomi impronunciabili: il fenachistoscopio o lo zootropio, ad esempio; in pratica, dispositivi rotanti che riproducevano brevi scenette, grazie a una serie di disegni fatti scorrere molto rapidamente.

Tutte le storie del cinema sono concordi nel porre i fratelli Lumière non solo all’inizio di una grande epopea, ma anche al termine di una serie di brillanti inventori, tecnici e scienziati. Si comincia da Louis Daguerre e il dagherrotipo, ossia l’antesignano della fotografia moderna, perfezionato dall’inglese William Talbot. Il primo a mettere in movimento delle immagini fotografiche fu però l’americano Eadweard Muybridge: la sfida che raccolse fu dimostrare che i cavalli, per un lasso di tempo impercettibile, sollevano tutte e quattro le zampe quando sono al galoppo. Muybridge piazzò allora dodici macchine fotografiche (azionate da fili che l’animale tirò durante la corsa), grazie alle quali scattò altrettante foto, che poi ebbe l’intuizione di riprodurre velocemente in sequenza su uno schermo.

Muybridge riprodusse le immagini applicandole all’interno di un disco rotante, a sua volta inserito in una lanterna magica, una scatola in grado di proiettare immagini ingrandite grazie a un sistema di lenti. Insomma, alla riproduzione cinematografica davvero poco ci mancava. Le immagini, però, erano pur sempre state realizzate da strumenti diversi (le dodici macchine fotografiche). Fu Étienne-Jules Marey a riuscire con un solo strumento, il cronofotografo, a produrre ben dodici immagini in sequenza di uno stesso soggetto, nel giro di un secondo soltanto. Ma Marey era interessato non tanto alla riproduzione del movimento, quanto alla sua scomposizione. Si era dunque trovato di fronte a quasi tutto il necessario per inventare il cinema; ma aveva poi imboccato, praticamente, la strada opposta.

Chi si avvicinò di più all’invenzione del cinematografo fu Thomas Edison. Già creatore del fonografo, Edison si impose di realizzare un “fonografo delle immagini”: un apparecchio in grado di riprodurre delle immagini in sequenza. Commissionò allora al suo assistente William Dickson una macchina fotografica per immagini in movimento; quelle immagini sarebbero state poi impresse su celluloide, servendosi di un sistema inventato da poco, che aveva reso obsolete le vecchie piastre fotografiche. Questa pellicola di immagini sarebbe stata infine riprodotta nel kinetoscopio, una specie di piccolo mobile che, grazie a un sistema di bobine e cinghie interne, avrebbe sincronizzato lo scorrimento delle immagini con l’apertura e la chiusura di un otturatore. Era davvero la cosa più simile a un cinematografo che si fosse mai vista, ma con una sola e decisiva differenza: era fruibile individualmente; si guardava, infatti, attraverso una fessura, ruotando nel frattempo una manovella posizionata sul lato.

Per completare il quadro non solo bisognerebbe citare molti altri nomi, ma anche tenere presente che ci sono testimonianza di coevi sistemi di riproduzione delle immagini in movimento, anche se meno sofisticati del cinematografo dei Lumière. Se si aggiunge che Edison decise di non depositare un brevetto internazionale per la sua invenzione è facile constatare che l’invenzione del cinema era solo una questione di tempo. È però un fatto che i fratelli Lumière, venuti a conoscenza del kinetoscopio durante un’esposizione parigina, ne perfezionarono il funzionamento e abbinarono all’invenzione l’idea di riprodurre le immagini con una versione moderna della lanterna magica. Solo allora il cinema poté dirsi nato.

Per quanto riguarda le invenzioni coeve, la storia forse più curiosa è quella dei Fratelli Skladanowsky, creatori di una versione meno sofisticata ma paragonabile al cinematografo dei Lumière. I due fratelli erano addirittura riusciti a ottenere una serie di contratti per la proiezione dei loro film a Parigi nel 1896; ma dopo l’exploit dei Lumière, le loro performance vennero addirittura cancellate. A loro, ha dedicato un documentario il regista Wim Wenders, “I Fratelli Skladanowsky”.

La critica cinematografica ha da tempo superato la convinzione che i Lumiére siano stati solo gli ideatori tecnici del cinema. Si potrebbe dimostrare il loro ruolo di registi ante litteram, menzionando le molteplici versioni degli stessi film (compreso il primo), i giochi di montaggio e di recitazione, così come l’appellativo dato ai soggetti rappresentati, chiamati “figurants”, “comparse”. Sono tutti film in piano sequenza e la durata delle riprese corrisponde alla proiezione del film, certo; nondimeno, il loro film più famoso, “L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat”, scrive Paolo Mereghetti, “offrì per la prima volta allo spettatore la possibilità di emozionarsi davvero di fronte allo schermo”. Per non parlare poi di “L’innaffiatore innaffiato”, un cortometraggio in cui un dipendente dei Lumiére e il figlio si prestano a interpretare una piccola gag.

Altri titoli famosi sono “Una partita a carte” e “Demolizione di un muro”, che di fatto contiene il primo effetto speciale della storia: la pellicola, montata al contrario, dà agli spettatori l’illusione che il muro venga ricostruito. Le proiezioni di questi e altri film, vale la pena ricordarlo, avvenne il 28 dicembre 1895 al Salon indien du Grand Café del Boulevard des Capucins a Parigi, alla presenza di Georges Méliès. Jean-Luc Godard scrisse che Méliès fu senza dubbio il primo grande genio del cinema; ma che, senza i Lumière, sarebbe “rimasto al buio”. E tuttavia, i due fratelli, dopo avere inventato il cinema, passarono ad altro: troppo eclettici e curiosi, non ne videro l’incalcolabile potenzialità.

In Italia, esiste un luogo dove poter ripercorrere questa storia, con cimeli, pezzi d’epoca e ricostruzioni illuminanti: è naturalmente il Museo del Cinema di Torino, all’interno della Mole Antonelliana. Da non perdere: proprio come si direbbe di un film.

Federico Pani

Il Piccolo di Cremona, 19 marzo 2022

I conti col toscano, l’intervista a Luciano Giannelli

«Bello, bello da rimanerci, è udire il mi’ lattaio fiorentino a discorrere: e talora lo sto ad ascoltare incantato: e mi dico “impara, impara o ciuco”. Ma una nazione non può ridursi al brio ancheggiante delle sue fanti chiantine (sic), o all’estasi delle madonnine di Valdarno: per quanto vivamente, stupendamente, o miracolosamente parlanti».

Chiunque si occupi seriamente di lingua italiana, compreso l’estensore delle righe qui sopra, Carlo Emilio Gadda, è difficile non incappi nell’aggrovigliata questione della lingua; e, nel tentativo di sbrogliare la matassa, cominci a estrarne i fili che, proseguendo un po’ incoscientemente nella metafora, si rivelano l’ordito prevalente dell’italiano: parliamo della parlata (o della lingua? oppure del dialetto?) da cui l’italiano è nato, ossia il toscano.

Per chi vuole affrontare l’argomento, è davvero difficile trovare una persona migliore con cui farlo di Luciano Giannelli (nella foto) che, tra i diversi ruoli, ha ricoperto per molti anni quello di docente di Glottologia presso l’Università di Siena ed è da molti considerato il massimo toscanologo italiano vivente. Gli ho rivolto alcune domande sul toscano per tentare, come avrebbe voluto Gadda, di chiudere i conti col toscano; posto il fatto che questi conti li si possa davvero chiudere.

A scuola, impariamo che l’italiano non è altro che una forma aggiornata del toscano trecentesco di Dante, Petrarca e Boccaccio. A conferma di ciò, sta il fatto che anche Manzoni, quando volle scrivere il primo grande romanzo in italiano, adottò come modello il fiorentino parlato dei colti. Si sarebbe portati a credere, dunque, che l’italiano sia di fatto una forma di toscano. Come mai, invece, alcuni studiosi parlano di dialetti toscani? Non è una contraddizione parlare del toscano come di un dialetto, dato che si tratta, per i dialetti, di sistemi linguistici imparentati, ma diversi dall’italiano?

La questione sollevata è sottile e riguarda l’ambiguità dell’uso della parola dialetto. In Italia, con il termine dialetto si intende un’entità linguistica ben distinguibile dall’italiano. Più che di lingue minoritarie, parlerei di lingue minorizzate; questa definizione si usa solitamente per le lingue dei nativi americani, del nord e del sud; sono lingue egemonizzate da altre, potenzialmente destinate all’estinzione. Per certi versi, potremmo parlarne anche come lingue “manchevoli”, nel senso di lingue che non si sono sviluppate in riferimento a certi ambiti d’uso.

Nello specifico, è certamente vero che l’italiano è una forma di toscano: nel corso dell’Ottocento c’è chi continuò a chiamare l’italiano semplicemente toscano, al pari di chi oggi chiama castigliano lo spagnolo. Con ciò, è anche vero che c’è una dimensione del parlato toscano che ha caratteri dialettali; è quello che, tradizionalmente, viene detto vernacolo e che, nell’accezione più diffusa, indica il carattere popolare e popolano della parlata. I caratteri dialettali, in questo caso, vanno intesi in un senso ben preciso: quello di uno scostamento dalla lingua standard, ossia di carattere differenziale; nel mondo anglosassone, dove la parola dialetto assume questo significato proprio, il toscano sarebbe tranquillamente definibile come dialect.

In Italia, però, la situazione è complicata: quasi fin dal momento in cui fu introdotto, il termine dialetto assunse, oltre al significato di una lingua distinguibile da quella standard, anche una connotazione negativa; l’etimo greco, dialektos, indicava infatti, semplicemente, le diverse varietà di greco antico. In Italia, a maggior ragione dopo l’Unità, il dialetto cominciò a essere considerato come un ostacolo all’apprendimento della lingua nazionale, uno stigma sociale che poteva accompagnare alcune persone per tutta la vita. Da questo giudizio negativo, e dall’ambiguità di fondo del termine, si spiega il perché, dalle inchieste Doxa, la Toscana risulti come la regione meno dialettalizzata d’Italia: un parlante toscano, semplicemente, non crede di possedere un dialetto e ritiene quasi offensivo rubricare la lingua che parla come un dialetto.

Studi dialettologici sulla Toscana naturalmente, invece, sono possibili: esistono delle parlate con tratti specifici e differenziali rispetto all’italiano; perché è vero che l’italiano deriva direttamente dal toscano trecentesco poi aggiornato; ma non va dimenticato che, da allora, il toscano ha imboccato delle strade proprie, arrivando in certi casi anche a esiti grammaticalmente diversi rispetto all’italiano. Eppure, nonostante questa distanza, molti parlanti non sono in grado di accorgersene. Come mai? La ragione sta nella continuità tra la lingua standard e le parlate locali: i parlanti toscani – ma con loro anche quelli di Roma – non hanno un modo univoco, basato sulla forma, per capire se una parola è dialettale o meno; questo rende la Toscana – e Roma – diverse da tutte le altre aree d’Italia.

Mi spiego. Se, facendo violenza al dialetto genovese, dico laurà, anziché travaggià, sono comunque consapevole che in entrambi i casi non si tratta di una parola italiana. A un Toscano, anche di media cultura, può capitare invece di pronunciare una frase come questo è un po’ vinco, senza rendersi conto che vinco è, di fatto, un termine dialettale (è una parola che riferita al pane significa poco cotto e riferita al legno, poco stagionato secondo il Devoto-Oli, ma anche flessibile, molle). Ma prendiamo una frase vernacolare come questa: E’ ritornan quande e’ li pare a loro; bene, su otto elementi linguistici, ben quattro sono dialettali, ma gli altri sono del tutto italiani.

Proviamo a illustrare quanto detto finora con una metafora. Eccettuando la Toscana e Roma, un parlante italiano ha comunemente due abiti linguistici: l’italiano (più o meno) regionale e il dialetto. Al contrario, un toscano ne ha uno solo, l’italiano, benché quell’abito sia, diciamo così, rattoppato: queste toppe, nella metafora, indicano la presenza di parole non italiane all’interno di un tessuto che è italiano. Prescindiamo per un momento dalla questione della pronuncia, che colpisce molto ma è il livello più superficiale di una lingua. Bene, visto a parte subiecti, il toscano è – segnatamente in molte varietà – talmente coincidente con l’italiano che per lunghi brani risulta indistinguibile dall’italiano, tanto più se non si fa ricorso a un vocabolario.

La controprova di quanto detto finora è che il parlante toscano ha, al più, la percezione di forme alte e di forme basse della propria parlata: da un lato mio padre, dall’altro mi pa’. Ora, le forme percepite come particolarmente basse sono ormai nella maggior parte dei casi censurate; nessuno, ad esempio, dice più portonno per portarono. Le categorie distintive, in Toscana, sono tra il parlar bene o il parlar male: se dico la mia mamma ho parlato bene, se dico la mi’ mamma ho parlato male. Il punto è questo: in Toscana non c’è un vero codice alternativo all’italiano.

Un’ulteriore prova? Prendiamo le opere dialettali. Se è possibile costruire un testo coerentemente in dialetto, poniamo, in genovese, in napoletano o in milanese, lo stesso non si può fare con il toscano: si potrà, al più, costruire un testo in italiano nel quale compaiono inserti o elementi dialettali.

Qualcuno ha ipotizzato che l’italiano moderno sia nato non casualmente dal toscano, dal momento che il toscano sarebbe stata la lingua col maggior grado di intercomprensibilità tra i parlanti italiani; si sarebbe trattato, infatti, di un conguaglio tra le parlate del nord e del sud. Ci può dire quanto c’è di vero in questa ricostruzione?

Non c’è nessun motivo per pensare che, in tempi remoti, il toscano dovesse risultare più comprensibile per un bolognese o per un napoletano di quanto il bolognese e il napoletano lo fossero per un toscano. Il punto è che il toscano funse per lungo tempo quasi da lingua franca, o comunque da riferimento. Ignazio Baldelli sottolineava che, dai testi della poesia siciliana, giunti tramite copie pisane, fino ai primi testi prosastici bolognesi, la letteratura italiana nacque già sotto il segno di una qualche toscanizzazione.

Detto ciò, è vero che il toscano non è una forma di parlata romanza d’Italia del tutto a sé stante, come la voleva tra gli altri Gian Battista Pellegrini; analizzandola attentamente, emerge con chiarezza la sua natura di mediazione fra le parlate del nord e del centro-sud (escludendo i dialetti meridionali estremi, che fanno gruppo a sé stante). Certo, all’apparenza, la facies è di una parlata peninsulare: la struttura delle parole è la stessa del centro Italia, ci sono le consonanti doppie, le affricate e la pronuncia rafforzata della zeta. Tuttavia, la Toscana è anche il luogo degli esiti doppi; linguisticamente, è ambigua. Vediamo, di seguito, alcuni casi di questa ambiguità.

Il nord (e non solo) è caratterizzato dalla sonorizzazione delle consonanti latine intervocaliche sorde; la Toscana, invece, talvolta sonorizza, talaltra no. In Toscana, ci sono toponimi come Fontaccia o Fontazzi, con lo sviluppo in -accio e in -azzo. Allo stesso modo, ci sono le varianti borragine e borrana, saggina e saina, calcio e caio. Ancora: si dice gente, come si direbbe al nord (che poi si è evoluto in zente), e non iente, come si dice anche a pochi chilometri da Roma; lo stesso vale per barca, che al sud diventa varca. In Toscana, poi, come al nord, c’è l’uso dei pronomi soggetto clitici: l’è lui, l’e lei, gli è che, e così via. Un tempo, tra i più anziani, però, si sentiva dire la variante del sud robba, anziché roba. C’è la conservazione delle vocali finali, che al nord cadono, è vero; eppure si dice vien bene, vin santo, bel giovane (un tratto che viene persino “esagerato”, nel romano: da torre abbiamo il troncamento tor, come in Tor Bella Monaca, Tor Pignattara e così via).

Questo fenomeno di scorrimento tra nord e sud passa anche sulla fascia adriatica, intendiamoci, sebbene quella zona sia molto ridotta rispetto alla Toscana. Detto questo, è anche vero che ci sono dei caratteri toscani esclusivi, come ad esempio il suffisso -aio, al posto del quasi pan-italiano -aro o la mancanza del fenomeno dell’apofonia, cioè l’alternanza di suoni vocalici in alcuni passaggi morfologici, come tra il singolare e il plurale, o tra il femminile e il maschile.

Anche la Toscana, poi, non è esclusa da fenomeni di variazione interna: penso all’apertura e alla chiusura di alcune vocali; si sente dire méttere o mèttere, tanto che c’è la leggenda che si distinguesse così il contado fiorentino (che apriva la vocale) dagli abitati della città (che la pronunciavano chiusa); allo stesso modo, c’è chi distingue tra la esse sonora di chie[z]e (plurale di chiesa) e quella sorda di chie[s]e (passato remoto di chiedere).

Questi inventari di parole con fonemi distinti variano in certi casi da paese a paese, sia per quanto riguarda le coppie minime con la s sorda o sonora (la coppia minima che lei citava vale solo in certe zone della Toscana), così come per l’apertura o meno delle vocali. Tra un attimo, parleremo delle differenze interne del toscano, ma vale la pena dirlo subito: il motivo del perdurare di queste divergenze fonologiche, anche nel parlato meno vernacolare, sta nel fatto che i modelli scolastici e ortografici li consentono. Nella città di Firenze si sente dire véndo, mentre nel contado si può sentire dire vèndo, ma in entrambi i casi l’errore non sarebbe segnalato a scuola (nello scritto nemmeno sarebbe percepibile). Se, invece, dico arto, anziché alto, l’errore viene immediatamente sanzionato e corretto, perché diventa un errore ortografico. Questo in linea di massima: per altro verso, chi dice perzona per persona non si corregge e non ne è solitamente consapevole

Passiamo allora alla suddivisione linguistica della Toscana. Stando alla carta di Pellegrini, la Toscana linguistica non corrisponde a quella amministrativa. C’è anzitutto la valle del Magra e il carrarese, zone nelle quali si parlano dei dialetti settentrionali. Nella zona meridionale, Pellegrini segna poi un confine linguistico arretrato rispetto al confine amministrativo col Lazio. Sul confine orientale, le parlate invece sono più sfumate, diventando quasi di transizione. C’è poi qualcuno, in rete (la pagina di Wikipedia dedicata alla lingua toscana, ad esempio), che vorrebbe che il dialetto còrso sia una lingua imparentata col toscano e persino il sardo settentrionale una lingua toscanizzata. Quanto c’è di vero in questa suddivisione?

Cominciamo col dire che non esiste toscano al di fuori della Toscana: il còrso è una parlata a sé stante e il sardo non c’entra nulla col toscano. Certo, ci sono esempi di toscanizzazioni, ma decisamente isolati: un abitante di Cagliari, in sardo Casteddu, è un casteddaiu, con il tipico suffisso toscano in -aio. Ma a questo proposito non bisogna dimenticare il ruolo che in questa città ebbe Pisa. La Toscana linguistica, con qualche variazione di cui darò subito conto, corrisponde grosso modo ai confini del Granducato di Toscana, e comunque non li oltrepassa.

Una delle zone che fanno eccezione, e che Firenze controllava dal Medioevo, è la cosiddetta Romagna toscana, entrata a far parte quasi per intero dell’Emilia Romagna per volontà degli abitanti stessi. In quest’area, si parlano dei dialetti piuttosto strani, non classificabili come toscani, più vicini al romagnolo, anche in base a ciò che ha dimostrato, con le sue ricerche sul campo, uno studioso come Daniele Vitali. Oggi, solo in un paio di comuni della provincia di Firenze si parla romagnolo; inoltre, nel comune di Firenzuola, accanto al fiorentino puro e a un toscano con tratti romagnoli, è giunto sino a noi una forma di romagnolo toscanizzato.

Le zone addizionali di maggior rilievo, rispetto al Granducato di Toscana, corrispondono grossomodo alla vecchia provincia di Massa e Carrara che difatti, nelle carte del 1861, facevano ancora parte dell’Emilia Romagna. Quest’area si componeva di tre parti: la Garfagnana, la Lunigiana e la zona attorno a Massa e Carrara. Le analizziamo ora rapidamente.

La Garfagnana, fino all’Unità d’Italia, ha fatto parte del Ducato di Modena. Tuttavia, salvo qualche area carrarese, il dialetto che si parla lì è tranquillamente classificabile come toscano; è un toscano debordante, certo, ma anche molto conservativo: lo è per ragioni storiche, dato che è sempre stato in opposizione alle lingue che si parlavano al di là dell’Appennino; del resto, i garfagnini chiamavano lombardi coloro i quali provenivano dal di là dei monti. La Garfagnana è poi tornata nel territorio lucchese. La Lunigiana, invece, è sempre stata una zona caotica; sebbene alcune sue parti siano state a lungo sotto la dominazione di Firenze. Queste zone sono in generale alloglotte rispetto al resto della regione: salvo qualche espressione, i dialetti che si parlano in quelle zone sono chiaramente alto italiani. Carrara ha, per così dire, il posto che dovrebbe avere: è una realtà di transizione, tra Emilia, Liguria e Toscana. A Massa, la parlata è mista, e mi sentirei di classificarla come una parlata toscana anomala.

Per quanto riguardo il confine meridionale, la questione è presto detta: la carta di Pellegrini recide una parte di Toscana a sud di Grosseto che invece appartiene all’area linguistica toscana, sia pure con qualche carattere debordante. Il confine linguistico, dunque, corrisponde al confine amministrativo. A est, invece, la situazione è un po’ più complessa. Sono presenti diverse varietà: l’aretina, la sansepolcrese e la cortonese, così come le parlate dell’area subito a occidente della piana della Chiana: di fatto, si tratta di forme di transizione tra il toscano senese e il perugino.

Entriamo allora nel cuore del toscano classico: che cosa distingue tra loro le diverse parlate?

Cominciamo eliminando le zone marginali: a sud, l’orbetellano e l’amiatino, che cominciano a essere dialetti di transizione; va poi esclusa anche l’isola d’Elba, dati i forti influssi còrsi, genovesi e persino napoletani; infine (come accennavo) non inserirei l’aretino nel toscano classico, dati i forti influssi che subisce dal perugino. Bene, il toscano classico si compone delle seguenti parlate: lucchese, pistoiese, fiorentino (e pratese), pisano (e livornese) e senese.

Per quanto possano essere variegate anche al loro interno, ci sono entità ben individuate, anche territorialmente, come il fiorentino, che conta circa un milione di parlanti e una vasta area di diffusione. C’è poi il toscano occidentale, all’interno del quale si possono raggruppare il pisano-livornese e il lucchese, sebbene solo in parte, dal momento che il lucchese ha dei tratti più conservativi che lo differenziano dagli altri. Il territorio del pistoiese è abbastanza ridotto e non coincide nemmeno con l’intera provincia. Anche il territorio di Siena è piuttosto ristretto, in quanto include oltre al capoluogo non più di quattro o cinque comuni. Infine, ci sono delle zone grigie, per così dire, che si distinguono più per mancanze o per caratteri conservativi, come quella grossetana, scarsamente tipizzata.

Ora, fatto salvo che il pisano-livornese si distingue dalle altre parlate soprattutto per i caratteri intonativi, direi che all’interno delle parlate toscane classiche si potrebbe anche operare una distinzione più generale che vede, da un lato, il fiorentino e, dall’altro, le restanti parlate. Il fiorentino, infatti, è una varietà che ha caratteri propri: ci sono caratterizzazioni morfologiche e sintattiche come i’ cane, d’i’ mmettere (di mettere), gli è lui, l’è lei. A fronte di questi caratteri propri, molti pensano che il toscano più simile all’italiano non possa essere il fiorentino; una certa vulgata vorrebbe, per esempio, che la parlata senese sia la più affine all’italiano. Ma non è così. L’alta frequenza delle espressioni dialettali fa apparire il fiorentino distante dall’italiano più di quanto non lo sia. Se si lo si analizza in termini quantitativi, il fiorentino è invece la parlata toscana più vicina all’italiano; negli altri casi, come il senese, l’elemento dialettale o è di minor frequenza nel discorso o è di natura meno vistosa.

Detto ciò, vorrei completare il quadro giusto accennando a un ultimo fatto: in Toscana, la differenza non è solo tra queste aree, ma anche all’interno dei territori, in particolare tra i grandi centri urbani e quelli più rurali.

Una curiosità: in Toscana, la g si pronuncia in modo fricativo; ma è davvero, come si legge anche in qualche libro, un vezzo a imitazione del francese?

Per prima cosa, va detto che con questa pronuncia il francese non c’entra nulla. È verissimo che in Toscana le consonanti intervocaliche affricate italiane c e g si realizzano con le fricative, rispettivamente sorde e sonore, [ʃ] e [ʒ], sia all’interno di parola, sia tra parole diverse, come la [ʃ]enere, la [ʒ]ente, la pa[ʒ]ina; beninteso che si tratta di fenomeni di derivazione interna, dunque non importati. La pronuncia [ʒ] deriva direttamente dal latino, dallo sviluppo della successione della consonante s e della semiconsonante j, che può avere come esito anche la pronuncia [ʃ]: dal basjum latino si ha il centro-italiano ba[ʃ]o, ma anche ba[ʒ]o, così come accade per le varianti bra[ʃ]e e bra[ʒ]a, anche toscane. Diverso, invece, è il caso di parole come re[ʒ]ina, un latinismo che presenta anche varianti con la i, come reina.

Questa pronuncia, un tempo, occupava tutta l’Italia centrale e andava dalla costa tirrenica fino a quella adriatica, dalla Garfagnana fino a Macerata. Questa continuità, però, si è interrotta, quando i perugini hanno esteso la pronuncia affricata della g a inizio assoluto di parola anche tra le vocali: Pero[ʒ]a o Pero[ʃ]a, in volgare, è diventata, da allora, Perugia [perudʒa]. Allo stesso modo, anche il fiume Chiascio, ad esempio, nel dialetto perugino diventa Chiagio.

Parlando di toscano, non si può non citare il fenomeno più caratterizzante dal punto di vista della pronuncia, la spirantizzazione, meglio noto come gorgia: ce ne può dire brevemente qualcosa?

Sulla gorgia toscana, ci sono polemiche dal XVIII secolo. Più d’uno hanno cercato di attribuirla a una pronuncia etrusca, ma si tratta di una ricostruzione poco credibile, dato che l’etrusco foneticamente distingueva tra la c velare e la ch aspirata. Ci sono zone della Toscana, peraltro, dove non si sente dire solo la hasa, ma anche la gasa, con una sonorizzazione tipica di ampie zone italiane centrali e di Roma. Il motivo della coesistenza di queste forme è che entrambe queste varietà, gorgia compresa, rispondono a una tendenza dell’italiano centromeridionale a indebolire i suoni intervocalici.

Mettiamola, in questi termini, se si vuole un po’ scherzosi, ma non troppo: l’Emilia, mi si passi l’espressione, se la prende con le vocali, salvo poi reintrodurle in modo arbitrario (dice lèder, anziché ladro); in Toscana (e nel centro-sud), ce la si prende con le consonanti, indebolendole o rafforzandole. Dal punto di vista tipologico, lo sviluppo toscano è molto specifico e piuttosto raro. Fiorentino, senese e pistoiese non conoscono vie di mezzo: o la consonante si indebolisce o si rafforza; si dice o la hasa o a ccasa. Solo se è iniziale assoluta, si riproduce il suono soggiacente: casa.

Aggiungo una constatazione rilevante per avvalorare quanto detto sulle ragioni della spirantizzazione. Spoleto, così come ci si aspetterebbe, ha una pronuncia sonorizzante tipica del centro Italia e del romanesco: la gasa (la casa), li gani (i cani), le vere (le pere); ma, sempre a Spoleto, si sente dire anche, la hasa, i hani, le phere: alla sonorizzazione si sostituisce, insomma, la spirantizzazione; altra varietà nella pronuncia, questa volta nella parola patate: da un lato le badade, dall’altro le phathathe. Bene: questa è un’abitudine fonologica che gli abitanti di Spoleto non possono certamente avere importato dalla Toscana, che è troppo lontana. Il motivo è un altro: deriva dall’abitudine a consumare quei suoni che come esito, tra i possibili, ha portato alla spirantizzazione. Quello che probabilmente è accaduto nella parte centro-settentrionale della Toscana qualche secolo fa. Il  fenomeno deve essersi cominciato a sviluppare a Firenze tra il XV e il XVI secolo, a partire da una pronuncia molto variabile indebolita; ed è proprio a partire dal Seicento che cominciano a essercene delle attestazioni. Insomma, Dante con tutta probabilità non aveva questa pronuncia.

Come si immagina il toscano futuro: quali saranno i tratti che probabilmente resteranno e quali quelli destinati a sparire?

È una domanda a cui è davvero difficile rispondere, sebbene già nel corso della mia vita abbia potuto assistere a una progressiva sdialettizzazione del toscano. Posso dire che la morfologia verbale dialettale viene sempre più decantata, dato che (come si diceva) scolasticamente è sistematicamente sanzionata: non si può scrivere anderebbono, voi avevi, portonno, e così via. A Prato, si sente ancora dire eglino, che fa’ tu?, o a Pescia e a Lucca è ‘n troppi per dire sono troppi, ma sono ormai usi sempre più limitati. Come ha scritto Daniele Vitali, si sta assistendo, insomma, alla “banalizzazione del toscano”. Non voglio però fare previsioni, anche perché un tratto davvero caratterizzante dal punto di vista regionale come la gorgia è da tempo in espansione, come già nel 1954 notava un linguista tedesco; si è affermato, per esempio, fuori di Toscana, a Città della Pieve, conquistandosi dunque lo status di pronuncia regionale di prestigio. Un linguista di origini australiane e slovene si era spinto nel prevedere il momento in cui – con una estrapolazione puramente chilometrica – la gorgia sarebbe arrivata a Bologna. Ma questo, direi, è decisamente troppo.

Federico Pani

Le strategie di correzione nelle classi di italiano di L2, l’intervista a Elena Monami

Come si corregge uno studente straniero che commette un errore quando parla italiano? È una questione decisamente individuale, che diventa però un aspetto cruciale per chi ha scelto di fare dell’insegnamento dell’italiano la sua professione. Ne parlo con Elena Monami, che dopo una assegno di ricerca all’Università per Stranieri di Siena, si occupa di formazione e certificazione in Didattica dell’italiano a stranieri presso il Centro DITALS. Monami ha affrontato molto presto il tema: la correzione dell’errore è stata infatti oggetto della sua tesi di dottorato, poi pubblicata da Edilingua con il titolo Correggere l’errore nella classe di italiano L2 e inserita nella Collana DITALS Formatori, nel 2021.

Prima di parlare delle strategie di correzione dell’errore, puoi raccontare come si fa a fare ricerca su questo tema? Detto in altri termini: da dove arriva il materiale che sta alla base del tuo libro?

Ho potuto scrivere questa monografia grazie alle ricerche che ho fatto sul campo, basate su videoregistrazioni in classi di italiano per stranieri, sia in Italia sia all’estero. Per la raccolta di dati, mi sono avvalsa della disponibilità di alcuni colleghi: entrare in una classe con una videocamera non è sempre facile, per ragioni di privacy, certo, ma anche per una certa reticenza da parte degli stessi informanti. Ho raccolto un corpus di videoregistrazioni di oltre quindici ore, con dodici docenti diversi, il che significa stile e metodo d’insegnamento molto differenti tra loro. Da questo corpus ho creato un sottocorpus con focus specifico sugli interventi di correzione dell’errore. Preciso che i partecipanti alla ricerca sono stati apprendenti adulti, visto che registrare classi di minorenni sarebbe stato ancora più difficile.

Dove si sono svolte queste registrazioni? Nei centri linguistici di ateneo, nei dipartimenti di italianistica nelle università internazionali, e negli istituti italiani di cultura, all’estero: una rete diversa ed eterogenea nella tipologia di studenti e di docenti – questi ultimi con una formazione glottodidattica eterogenea. Una volta trascritto il materiale audio, ho esaminato le occorrenze delle strategie di correzione, quelle che in ambito tecnico vengono definiti feedback correttivi. Per analizzare questo corpus è stato preso come modello di riferimento scientifico la tassonomia di Lyster e Ranta, due studiosi dell’Università McGill di Montréal, Canada, già conosciuta e sperimentata in contesti didattici internazionali.

Per adattare il corpus raccolto a uno schema teorico di riferimento, un unico modello però non bastava: mi sono dovuta servire di più modelli, aggiungendo perciò categorie che fossero adeguate per definire le occorrenze riscontrate nella mia banca dati. In particolare sono stati aggiunti la correzione negativa e tutte le strategie di ambito non verbale; insegnando italiano, infatti, i docenti madrelingua utilizzano volentieri la gestualità e la mimica facciale. Mi sono ritrovata, dunque, ad analizzare una serie di correzioni espresse o accompagnate da gesti e smorfie del viso; non di rado infatti si sgranano gli occhi di fronte a qualche errore e si muovono le braccia all’indietro per indicare un verbo al tempo passato. Ecco perché le videoregistrazioni, e non delle semplici registrazioni audio, sono state fondamentali per svolgere la mia ricerca.

Quali sono i risultati a cui sei arrivata nel corso delle tue ricerche?

Nel lavoro di ricerca che ho condotto ho notato due macrotipologie di correzioni orali. Le prime risolvono l’errore, e sono perciò dette risolutive: il docente corregge l’errore, riformulando la parola o la frase sbagliata in modo corretto. Ci sono poi le strategie sollecitative (in inglese, prompt), che invitano lo studente a riformulare la frase, grazie a indizi che dovrebbero condurlo all’autocorrezione; è facile immaginare che si tratta di tipologie di feedback più impegnative, sia per i docenti che per gli apprendenti. Le strategie sollecitative sono però le più efficaci dal punto di vista neurolinguistico: se lo studente riformula correttamente la frase, è verosimile che abbia capito la regola e che non ripeterà l’errore quando sarà chiamato ad applicarla di nuovo. Certo, gli errori possono essere molto diversi tra loro. Volendo, anche qui è possibile individuarne due macroaree. Da una parte ci sono gli errori di “superficie” dovuti a stanchezza, distrazione, ansia…  Dall’altra parte, invece, ci sono gli errori sistematici, quelli che derivano dalla mancata o errata comprensione della regola. Tutto ciò rientra a pieno titolo nel processo di acquisizione della seconda lingua, in quello che si definisce sistema interlinguistico; un sistema instabile, che partendo dalla lingua materna procede in direzione della lingua target e può presentare errori “fisiologici” dovuti alla compresenza di più lingue.

Quali sono gli errori più frequenti che commettono gli apprendenti di italiano?

Tra gli errori più frequenti ci sono quelli morfologici. La morfologia dell’italiano, del resto, è complessa: prevede l’accordo del maschile e del femminile, del singolare e del plurale, per non parlare dei verbi e del complicato sistema di coniugazioni; se il verbo è composto, serve poi il giusto accordo con l’ausiliare, essere o avere (e con l’ausiliare essere, per dire, va accordato il participio passato); e poi ancora, c’è la questione del sistema pronominale, articolato com’è di pronomi diretti, indiretti, riflessivi e composti. Altri errori molto frequenti sono quelli legati alla pronuncia (gli errori fonetico-fonologici): anche un parlante straniero esperto può trovare difficoltà nella realizzazione di alcuni suoni (l’apparato fonatorio tende a irrigidirsi già dopo il periodo critico, nella fascia di età adolescenziale); c’è poi il problema della pronuncia delle consonanti doppie che in alcuni casi creano ambiguità e non per ultima la posizione dell’accento tonico (es. bàtteri anziché battèri).

Come si dovrebbe correggere, dunque, un parlante straniero nel corso di una lezione?

Non esiste una strategia universalmente valida – magari fosse così! –  per la correzione degli errori. Le strategie sono molte e con scopi di vario tipo, come si può vedere anche dai risultati della ricerca che ho condotto. E lo stesso si può dire a propositi del timing: Ci sono errori corretti nel momento stesso in cui vengono prodotti, altri rivisti in seguito, magari al termine dell’attività didattica. Certo, se si tratta di un problema di incomprensione che compromette il livello comunicativo, è necessario intervenire subito per ristabilire la giusta comunicazione; altri errori, invece, li si possono riprendere in un secondo momento, magari in modo più strutturato dal punto di vista metalinguistico. Nella gestione del feedback correttivo è fondamentale inoltre capire qual è il focus dell’attività: l’attenzione può essere rivolta infatti a una determinata forma linguistica (focus on form) oppure l’obiettivo può essere il contenuto (focus on content). Se in quest’ultimo caso il docente interviene ogni volta, il rischio è quello di interrompere il flusso comunicativo e creare uno stato di frustrazione nel parlante non madrelingua. Mentre se l’attenzione è rivolta ad aspetti più strutturali della lingua, il docente sarà chiamato a correggere per evitare un’eventuale fossilizzazione delle forme errate. 

Un’altra cosa che mi sento di aggiungere è che le correzioni vanno adeguate al livello di competenza linguistico-comunicativa: se parliamo di un livello A1, cioè elementare, un errore sul periodo ipotetico di terzo tipo o sul congiuntivo è certamente ammissibile. Allo stesso modo, non bisogna mai dimenticarsi di una cosa: gli errori non vanno sanzionati; sono tutti indizi del percorso interlinguistico dell’apprendente. L’interlingua, a cui accennavo prima, è un concetto chiave: come abbiamo detto si tratta di quel sistema linguistico intermedio, frutto di un percorso ancora incompleto, che porta il parlante dalla propria lingua madre alla lingua che vuole apprendere. Di norma, più lingue si conoscono, più il processo interlinguistico dovrebbe svolgersi velocemente, nonostante si debba mettere in conto il caso di possibili, talvolta frequenti, interferenze provenienti dalle lingue che già si conoscono.

Non da ultimo, va menzionata la sfera emotiva. Si tratta di un aspetto talmente soggettivo e vario che rimanda al carattere e all’esperienza dei docenti, da un lato, e alla personalità, all’età degli apprendenti, dall’altro. A rendere la questione ancora più interessante c’è poi la diversità culturale: difficile non tenere conto di alcune culture spesso più chiuse e suscettibili all’intervento del docente mentre altre sono più disposte a mettersi in gioco e, per certi versi, a premiare un po’ d’intraprendenza senza “filtri”.

Per concludere, e per quanto ovvio, è importante ricordare chela preparazione, la competenza e l’esperienza didattica sono aspetti fondamentali per fare sì che il docente, quando corregge (e non solo) sia il più chiaro possibile per  produrre così un intervento efficace.

Federico Pani

Una versione ridotta è comparsa sul Piccolo di Cremona del 26 febbraio 2022

“Le mute infernali”, l’intervista a Debora de Fazio

Si intitola “Le mute infernali. Dante e le donne” (Besa Muci editore) ed è un libro davvero sui generis, uscito l’anno scorso e curato da Debora de Fazio (a destra, nella foto), professore associato di Linguistica italiana presso l’Università degli Studi della Basilicata, e da Maria Antonietta Epifani (a sinistra, nella foto), musicologa, autrice di saggi e docente. Per presentarlo, abbiamo rivolto alcune domande a una delle due curatrici, la linguista Debora de Fazio.

Piccola premessa: questo libro è un esempio di come non serva trattare Dante sempre in modo accademico per dire qualcosa di interessante. Quanto pensa sia utile trattarne l’opera anche in chiave pop?

Che la Divina Commedia, e in particolare l’Inferno, si presti anche a usi pop è ormai da tempo un fatto assodato. Del resto, come ricordava qualche anno fa Nicola Gardini sul “Sole 24 Ore”, Dante è per così dire un “business”, dato che quasi ogni giorno, nel mondo, viene pubblicato qualcosa su Dante; ed è prima di tutto il pubblico a volerlo; Dante è diventato un’autentica icona pop, direi persino social. Dante compare in alcune parodie della Disney, ma ci sono eco dantesche anche in fumetti come Dylan Dog, Martyn Mistère, Dago, ma pensiamo anche al libro Inferno di Dan Brown (poi diventato un film con Tom Hanks), così come al videogioco Dante’s Inferno. Parliamo di un fenomeno che non è per nulla recente: le letture di Dante in pubblico cominciarono addirittura con Boccaccio, replicate fino ai nostri giorni peraltro da interpreti del calibro di Carmelo Bene, Vittorio Gassman, Giorgio Albertazzi, fino naturalmente a Roberto Benigni.

Aggiungo una nota personale: qualche mese fa nell’àmbito di una rubrica sui modi di dire che curo con altri cinque colleghi (accademici di diverse università, Alessandro Aresti, Antonio Montinaro, Rocco Luigi Nichil, Rosa Piro e Lucilla Pizzoli) per la sezione “lingua italiana” dell’Enciclopedia Treccani abbiamo dedicato una sezione proprio ai modi di dire che provengono da Dante. Bene, molti dei modi di dire che provengono dalla Commedia sono tutt’altro che sconosciuti dalla gente comune. Molti di questi modi di dire si trovano anche sui social, magari sotto forma di meme, nei quali capita di leggere frasi celeberrime di Dante, che tutti conosciamo, spesso e volentieri modificate: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”, “Stai fresco” (scritto da Pierluigi Ortolano), “Galeotto fu il libro”, “Lasciate ogne speranza voi ch’intrate”, e altre ancora.

In un suo libro recentemente pubblicato, “Parola di Dante” (Il Mulino), Luca Serianni segnalava la provenienza dantesca di un modo di dire che a molti sarà capitato di usare: “Dico un’ultima cosa e poi mi taccio”; bene, anche questa è un’espressione che arriva da uno dei canti più noti dell’Inferno, quello di Farinata Degli Uberti. È proprio Farinata a scandirlo, indicando le altre anime dannate con cui condivide la pena: “Dissemi: «Qui con più di mille giaccio: / qua dentro è ’l secondo Federico, / e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio». Tutti quanti la usiamo o la abbiamo usata senza sapere che di fatto si tratta proprio di una citazione dantesca.

Arriviamo al libro, che nasce da un’idea originale: restituire la voce ai personaggi femminili a cui Dante nell’Inferno non dà la parola; per farlo, avete affidato la scrittura a donne del vostro territorio, la Puglia. Possiamo vedere questa idea un po’ più da vicino?

L’idea di base che ha guidato me e l’altra curatrice, la prof.ssa Maria Antonietta Epifani, è stata quella di intraprendere una strada, forse non troppo battuta, della vastissima letteratura sul grande Trecentista: il rapporto tra Dante e le “sue” donne. Studiosi e commentatori si sono a lungo soffermati sulla presenza esigua di figure femminili nell’opera magna del Poeta. Secondo uno studio, su un totale di 364 personaggi riconoscibili, soltanto una quarantina sono donne. Se scendiamo a verificare a quante di esse venga “concesso” di parlare, il numero scende drasticamente. Sono soltanto cinque: Francesca da Rimini nell’Inferno, Pia de’ Tolomei e Sapìa nel Purgatorio, Piccarda Donati e Cunizza da Romano nel Paradiso (escludendo, per ovvi motivi di status, Beatrice). Scopo del saggio è quindi di ridare voce a queste donne, renderle in grado di parlare e di raccontare/rsi. Non è un caso, infatti, che la grande esclusa di questo libro sia volutamente Francesca da Rimini (che dialoga con Dante nel canto V).

A ridare voce e vita a queste figure sono le voci e le penne di altrettante donne, tutte pugliesi, diverse per età, formazione, cultura, vita. Ne è venuto fuori, con una felice formula che ha utilizzato il linguista Marcello Aprile, uno spin-off della Commedia, tutto in rosa, tutto al femminile.

Lei e Maria Antonietta Epifani avete restituito la voce a Taide, personaggio inventato dal commediografo latino Terenzio, che compare nell’opera Eunuchus: perché proprio questo personaggio e quali sono gli altri personaggi che hanno colpito il vostro immaginario? 

Taide è un personaggio che è stato sviluppato nelle sue diverse sfaccettature e, quasi fosse un serpente, si è insinuato in molte pieghe della cultura, dall’immaginario letterario fino al cinema. Il fascino per questa figura è però sorto soprattutto nel momento in cui me ne sono occupata, in particolare quando ho redatto la breve biografia storica e culturale del personaggio – una simile scheda correda tutte le “mute infernali” di cui le coautrici si sono occupate. In generale, questo lavoro mi ha fatto “riscoprire” personaggi e loro sfaccettature che in alcuni casi conoscevo poco e anche interessanti loro “riletture” dai toni più vari, sia per figure più famose e note (come Didone e Circe), sia per personaggi che, per continuare ad usare metafore cinematografiche, sono poco più che delle comparse (Le fiere, Medusa, le Arpie, Isifile, Taide, Manto, Ecuba, la moglie di Putifarre).

Federico Pani

Il Piccolo di Cremona, 19 febbraio 2022

Perché domani sorgerà il sole? Il dilemma “risolto” da Kant

12 Febbraio 1804 • Muore a Königsberg, dove era nato e da dove non si era mai spostato, il grande filosofo tedesco

Che cosa pensereste se sulla fascetta di un vostro ipotetico saggio comparisse la frase “il libro più difficile che sia mai stato scritto”? Una trovata pubblicitaria niente male, vero? Sennonché, è proprio quello che un filosofo inglese scrisse della Critica della ragion pura, opera del collega tedesco Immanuel Kant. Senz’altro un’esagerazione: in fondo, nel libro compaiono giusto qualche formula matematica e un disegno geometrico; vuoi mettere con un libro di fisica teorica? Senza dubbio, l’opera di Kant, dal punto di vista della chiarezza e della semplicità, non gode di buona stampa. Ma quello che esprime è davvero così difficile? Proviamo a tracciarne i contorni, in occasione dell’anniversario della sua morte, avvenuta a Königsberg questo stesso giorno del 1804.

Königsberg, oggi Kaliningrad, è l’avamposto militare russo in Europa, un luogo che ha ancora il sapore della Guerra fredda. Tra Sette e Ottocento, invece, era un’elegante e un po’ sperduta città di provincia tedesca dalla quale Kant non sentì mai il bisogno di spostarsi. Si badi, non trasferirsi: spostarsi. Sì, non se ne andò mai, nemmeno un viaggio o una gita fuori porta, fatto salvo un piccolo periodo trascorso come precettore nelle campagne limitrofe. Figlio di un sellaio, Kant trovò nello studio il suo riscatto sociale: dopo l’esperienza da insegnante privato e da vicebibliotecario, vinse il concorso come docente ordinario presso l’università di Königsberg, nella quale lavorò per tutta la vita. Com’era prassi allora, Kant insegnò le più diverse discipline: logica, metafisica, morale, teologia naturale, fisica, meccanica, geografia, antropologia e diritto naturale. Ci fosse stata allora, avrebbe insegnato anche informatica.

Un suo celebre biografo scrisse che la vita di Kant, quasi priva di eventi, si potrebbe ridurre alla sua opera. L’abitudinarietà del suddetto è nota, tanto che si diceva che gli abitanti di Königsberg regolassero i loro orologi in base a quando il professore compiva la sua metodica passeggiata. La sua giornata cominciava molto presto: sveglia alle cinque, colazione e primi lavori di scrittura; poi, dopo le otto, lezioni in università fino all’ora del pranzo, sempre accompagnato da due bottiglie di vino (un rosso e un bianco) e qualche ospite; poi ancora, riposino postprandiale, passeggiata pomeridiana e tardo pomeridiane letture; infine, una cena frugale e a letto prima delle dieci. Della sua vita sentimentale non si sa nulla: mai si sposò e condivise la casa col suo cameriere fino al matrimonio di quest’ultimo.

Eppure, a dispetto di questo polveroso ritratto, Kant era in giovinezza un brillante professore, conversatore da salotto molto apprezzato, persino vanitoso nel vestiario, lettore vorace delle ultime novità filosofiche e scientifiche dell’Europa illuminista. Se fosse morto prima dei quarant’anni, sarebbe stato ricordato come un filosofo di secondo piano ma brillante nello stile. A cambiare tutto ci si mise in mezzo la lettura di un brano dell’amato David Hume e una domanda semplice semplice, ma presa terribilmente sul serio: che cosa mai garantiva che il sole sarebbe continuato a sorgere l’indomani? In altre parole: che cosa stava a garanzia dell’immutabilità delle leggi naturali? La risposta arrivò dopo più di dieci anni di lavoro e il titolo del libro fu La critica della ragion pura.

Per ancorare le leggi della natura a qualche certezza, Kant costruì un complicato sistema filosofico che concepiva le forme del sapere fenomenico come le loro condizioni di pensabilità. Esatto: detta così, non si capisce nulla. Mettiamola in questi termini: Kant pensava che il materiale grezzo della nostra conoscenza arrivasse dai sensi, d’accordo; tuttavia, le forme che assumeva (ad esempio, la legge di gravitazione universale) erano dettate del pensiero. Sarebbe dunque il nostro modo di pensare a dare la forma al mondo? Inutile girarci intorno: la risposta, per Kant, era sì.

La sola lettura della Ragion pura potrebbe portare a credere che, per Kant, l’uomo sia una complessa macchina pensante, ma soltanto una macchina. Il colpo di scena arriva con La critica della ragion pratica. In questo libro, Kant afferma che l’uomo non è solo carne, ossa e leggi scientifiche: l’uomo ha dentro di sé il seme della libertà; può coltivarlo, disinfestandolo dalla malerba degli impulsi sensibili e degli interessi personali; e rispondere solo alla propria legge morale sentendosi, unico tra le creature, davvero libero. Tra le opere di Kant, La critica della ragion pratica è certamente una delle più citate, anche grazie ad alcune frasi ad effetto (giustamente preda di centinaia di meme in rete) come queste: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale” e “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me”.

Il trittico delle critiche – da cui per fortuna nessun regista ha mai pensato di trarre una trilogia filmica – si chiude con quella alla Capacità di giudizio. No, Basaglia non c’entra: è un libro sull’estetica, sul “bello e sul sublime”, come scriveva Kant. Che cos’è il bello? È quell’ordine non finalizzato ad alcuno scopo pratico ma che ammiriamo in sé. Un bel quadro, un libro ben scritto e così via. E il sublime? È la sensazione di meraviglia che si prova davanti all’immensità di una scogliera o di una montagna, che altro non è se non una proiezione di come si sente l’uomo di fronte alla natura: un essere finito ma che contiene in sé l’infinito, in quanto libero. Proprio così: è quello che il Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich rappresenta, la stessa immagine che scorrendo sulla rubrica WhatsApp troverete ad almeno un paio di vostri amici particolarmente romantici.

Vale la pena di citare altre due opere di Kant. La prima è Per la pace perpetua, in cui il filosofo tedesco si immagina, con una certa visionarietà, una sistema federale sovranazionali a cerchi concentrici che, secondo alcuni, prefigura le attuali organizzazioni internazionali. Infine, un piccolo libro: Che cos’è l’Illuminismo?. Già: che cos’è? Ecco che l’austero filosofo, anche qui, riesce a essere chiaro e conciso: “È l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso”. Bene, prima di avventurarsi nelle Critiche, forse si potrebbe cominciare a leggere proprio queste due opere di Kant: vi si scoprirebbe che quel monumento alla “pedanteria teutonica”, come fu detto, in realtà, era un uomo di straordinaria intelligenza, così come di un buon senso rassicurante.

Federico Pani

Il Piccolo di Cremona, 12 febbraio 2022

“Istria – Quarant’anni nella tempesta che ha sconvolto tutti e risparmiato nessuno”, di Virgilio Iacus

C’era un tempo in cui, lungo la costa che da Trieste va fino alle Bocche di Cattaro, oggi Montenegro, avreste potuto fare tappa in città dall’insolito aspetto familiare, sentendo parlare molti dialetti, ma tutti simili al veneto. Oggi, quel mondo non esiste più. Questo fenomeno, scrive lo storico Raoul Pupo (di cui in rete si trovano ottimi interventi di divulgazione), “Lo possiamo chiamare «la catastrofe dell’italianità adriatica», intendendo con questa definizione – certamente un po’ drammatica, ma tutt’altro che eccessiva – la scomparsa dalle sponde adriatiche della forma specifica di presenza italiana che lì si era costituita come ultimo atto di una vicenda storica iniziata all’epoca della romanizzazione: una scomparsa quasi totale, poiché oggi di essa rimangono solo alcune reliquie, fatte di pietra – molte – e di persone, assai meno numerose, che configurano un tipo diverso ed inedito di presenza italiana”.

Il discorso sulla fine di quel mondo, in particolare dell’italianità istriana, è ben più complesso della facile strumentalizzazione che ne fa oggi una certa politica. Certamente, a partire dalla fine della Prima guerra mondiale, la storia cominciò decisamente ad accelerare e, purtroppo, anche a diventare più violenta. Lo evidenzia bene l’esule istriano Virgilio Iacus nel suo libro “Istria – Quarant’anni nella tempesta che ha sconvolto tutti e risparmiato nessuno”, edito dalla casa editrice tarantina Antonio Mandese. Il libro esce, non casualmente, negli stessi giorni in cui si celebra il “Giorno del ricordo”, che ha sempre di più il sapore di un’occasione mancata, quantomeno per inquadrare le vicende di allora nell’ottica delle conclusioni a cui è giunta la storiografia. Giusto, dunque, ricordare le vittime delle Foibe e il dolore di un popolo costretto ad abbandonare la sua terra, ma rifiutando, lo scrive Iacus, brutali semplificazioni, come la leggenda della pulizia etnica voluta dal maresciallo Tito.

Per ricostruire le vicende – che vanno dall’inizio della guerra, nel 1915, all’anno in cui Trieste tornò all’Italia nel 1954 – Iacus fa ricorso sia alla propria biografia di esule, sia alla ricerca compiuta sulla documentazione del “Centro di ricerche storiche di Rovigno”, in collaborazione con l’Università Popolare di Trieste. Lo scopo del libro è ben riassunto dalle parole dell’autore: “La verità va sempre ricercata, non certo per sete di rivalsa, ma perché rappresenta l’unico serio modo per favorire la riconciliazione delle persone e dei popoli, spesso dimentichi di vivere in uno stesso condominio e portatori di storie indissolubilmente intrecciate tra loro”.

Federico Pani

Il Piccolo di Cremona, 12 febbraio 2022