Cinquant’anni fa, nel 1972, con il film Il Padrino, il regista Francis Ford Coppola faceva riscoprire al mondo la cultura italoamericana. In occasione dell’anniversario, sono state poche, però, le sale a proiettare il film in lingua originale; un peccato, perché proprio il massiccio ricorso all’italiano parlato nella New York del Secondo dopoguerra restituisce uno degli aspetti più interessanti del film. Per riscoprire un po’ di quella cultura, a partire dalla lingua, e gettare uno sguardo a quel che oggi ne rimane, abbiamo rivolto alcune domande a Valerio Massimo De Angelis (nella foto), che insegna Lingue e letterature angloamericane all’Università di Macerata ed è coordinatore del Centro Interdipartimentale di Studi ItaloAmericani.
Professore, nel film di Coppola, ci sono scene nelle quali alcuni attori italoamericani, come Al Pacino, provano a parlare in italiano, ma hanno delle difficoltà e un forte accento americano: che ne pensa?
Penso che il forte accento di Al Pacino non sia un errore: al contrario, è voluto; interpretando il figlio di don Vito Corleone, Michael è quello che si definisce un second generation italian american; la perdita della lingua madre negli immigrati di seconda generazione in favore della lingua della comunità di accoglienza è un fenomeno generale, che risulta però accentuato nelle comunità italiane emigrate in nord America. Michael Corleone, inoltre, è rappresentato nelle prime scene come un eroe di guerra che si accompagna con una donna Wasp, interpretata da Diane Keaton: è perfettamente integrato, dunque. Quando ripara in Sicilia perché ha ucciso alcuni nemici della famiglia, è costretto a ricorrere a degli interpreti; solo lentamente impara l’italiano e, realisticamente, lo impara male.
Ci può dire di più della lingua che parlavano gli italoamericani e della vitalità di quella comunità?
Dei cinque milioni di italiani espatriati negli Stati Uniti, il 70-75% provenivano dalle regioni meridionali, in particolare dalla Sicilia e dalla Campania. Si venne perciò a creare prima di tutto un’interlingua siculo-campana, la quale poi si ibridò con l’inglese, dando vita all’italenglish (di cui l’esempio classico è il cosiddetto Broccolino). Oggi, questo fenomeno ormai è molto ridotto: gli immigrati italiani furono tra le comunità che si assimilarono volontariamente alla cultura mainstream. Questo fenomeno ha una datazione abbastanza precisa, la fine della Seconda guerra mondiale; negli anni della guerra, del resto, il governo americano perseguì una politica di repressione linguistica nei confronti dei nemici bellici, Germania, Giappone e Italia.
C’è da dire che, nei film, l’accento che viene messo in bocca agli italoamericani risulta piuttosto strano alle orecchie di un italofono.
Nei media, la cultura italoamericana storica viene rappresentata in modo abbastanza stereotipato: penso alla cosiddetta Guido culture o al programma Jersey Shore, che rappresenta ragazzotti italoamericani del New Jersey, sfaccendati e intenti a frequentare palestre e discoteche; in generale, si tratta di persone che non parlano l’italiano, bensì un inglese con un accento italoamericano, che – è vero – non è come l’accento che oggi hanno gli italiani quando parlano l’inglese, ma è frutto di una storia a sé. Bisogna ricordare inoltre che, fino alla fine della Seconda guerra mondiale, gli italiani furono fortemente razzializzati e praticamente messi sullo stesso piano dei neri. I loro risultati scolastici erano altresì registrati come i peggiori, tra quelli delle minoranze. Una storia che pochi conoscono è poi quella del Columbus Day. Questa festa nazionale, oggi messa in discussione perché è vista come la celebrazione dell’inizio dello sterminio dei nativi americani, venne istituita per riparare a un grave fatto accaduto ai danni della comunità italiana, il più grande linciaggio della storia avvenuto negli Stati Uniti: il 14 marzo 1891, a New Orleans, una folla di cittadini assalì infatti la prigione locale, facendo strage di undici immigrati italiani.
E oggi come se la cava l’italiano?
Oggi, negli Stati Uniti l’italiano parlato non gode di buona salute: sebbene sia la quinta più studiata, tra le lingue straniere parlate è quella che sta morendo più rapidamente. Ciò, nonostante da qualche tempo la migrazione italiana nel paese sia ricominciata. Tuttavia, anche negli Stati Uniti c’è un ritorno di orgoglio per certi aspetti legati alla cultura italiana, in particolare alla moda e al cibo. L’italiano, dicevo, resta una lingua di studio: negli ultimi anni, a livello universitario sono fioriti gli Italian American studies, che fanno attività di recupero e di lettura critica della cultura italoamericana, così come numerose iniziative all’interno della public culture, la cultura libera diffusa, con iniziative aperte a tutti. In fondo, il motivo per cui la nostra lingua non è più parlata dagli italoamericani è perché la loro è una success story: sono riusciti a conquistare un riconoscimento nella cultura di massa, nel mainstream.
A tale proposito, faccio un esempio particolarmente mainstream: per riprendersi da una crisi dell’identità nazionale senza precedenti, dopo la sconfitta nella Guerra del Vietnam, lo scandalo Watergate e la crisi energetica della metà degli anni Settanta, il sistema cultuale, attraverso Hollywood (che tantissimo deve agli italoamericani, non solo a Coppola, ma anche a Scorsese, De Palma, Ferrara, Cimino, Tarantino e Zemeckis) costruì un personaggio italoamericano di enorme successo interpretato da Sylvester Stallone, Rocky Balboa, che divenne, assieme a John Rambo (che però non è un personaggio italoamericano) il simbolo della revanche americana. Quella cultura, insomma, ha acquisito una riconoscimento e una popolarità che le permettono di non avere quasi più la necessità di conservare un’identità linguistica.
Dal punto di vista cinematografico, in effetti, la presenza degli italoamericani è sorprendente.
In realtà, non è così sorprendente che una parte consistente della cultura cinematografica americana sia stata colonizzata dagli italoamericani: prima del 1861, l’immigrazione italiana verso gli Stati Uniti era composta in buona parte da artisti; ad emigrare in America era già stato, tra i molti, anche Lorenzo Da Ponte, librettista di Mozart. Non solo attori, poi, ma anche gli artigiani dello spettacolo, come scenografi e costumisti; si venne insomma a creare una cultura dello spettacolo, influenzata soprattutto dalla tradizione napoletana della musica e dello spettacolo. Del resto, le prime due grandissime star dello show business americano furono due italiani, Rodolfo Valentino ed Enrico Caruso.
E per quanto riguarda la vitalità dell’italiano scritto?
Esiste ancora un giornale, il vecchio Progresso italoamericano, che ha cambiato nome in America Oggi. Un tempo, questo panorama legato alla stampa era più variegato: il tasso di alfabetizzazione degli immigrati italiani era mediamente superiore a quello dei loro connazionali in patria – parliamo di circa il 50%, mentre agli inizi del Novecento in Sicilia e in Campania l’analfabetismo toccava punte dell’80%. Tuttavia, il loro linguaggio orale era costituito soprattutto dai dialetti. Aggiungo, poi, tra i periodici di una certa importanza ancora in vita la Voce di New York, quotidiano online. Per quanto riguarda la letteratura, sono pochi i testi che comparvero scritti interamente in italiano; tra i pochi, mi viene in mente Bernardino Ciambelli e la sua raccolta I misteri di Mulberry Street di fine Ottocento, centro della mitica Little Italy di Manhattan, nonostante la Little Italy di maggiori dimensioni si trovasse, allora, ad Harlem. Invece, un grande autore italoamericano, ma già di seconda generazione, come John Fante, in Ask the dust (Chiedi alla polvere) presenta come protagonista-narratore un aspirante scrittore italoamericano che vuole essere riconosciuto esclusivamente come autore americano, e non italoamericano. Per trovare oggi un’autrice contemporanea americana che scriva in italiano, bisogna parlare di Jhumpa Lahiri, una scrittrice di origine indiane, che è nata negli Stati Uniti e si è poi trasferita in Italia, e che adesso scrive anche nella nostra lingua.
Federico Pani
Il Piccolo di Cremona, 16 aprile 2022