23/11/1889 • La prima apparizione nel 1889, l’anno d’inaugurazione della Tour Eiffel
Si dice che la prima frase registrata nella storia, quella che Edison recitò nel 1877 al suo fonografo, fu “Mary had a little lamb”, la strofa di una filastrocca. Non passò molto tempo da quella originaria incisione al momento in cui l’invenzione venne monetizzata. In ogni senso. Il 23 novembre del 1889 (ma per alcuni si tratta dell’anno successivo) nel Saloon Palays Royal di San Francisco fu messo a disposizione del pubblico una cassa in legno di quercia contenente un fonografo Edison classe M. Lo strumento era in grado di riprodurre musica. Alla cassa erano attaccati quattro stetoscopi da cui era possibile ascoltare alcune registrazioni, inserendo una monetina o, meglio, un nichelino. Si scrisse che l’apparecchio era riuscito a far guadagnare, nei soli primi sei mesi dalla messa in funzione, ben mille dollari al Saloon. A realizzarlo era stato Louis Glass insieme a William S. Arnold della Pacific Phonograph Company i quali, da allora, sarebbero stati considerati gli inventori del jukebox.
Lo strumento era certamente passibile di qualche miglioria, come il ricorso allo stetoscopio, per esempio; agli ascoltatori infatti veniva fornito, nei primi tempi, un asciugamano per pulire gli antenati dei nostri auricolari, ad ascolto terminato. Nel giro di una manciata d’anni, gli altoparlanti a corno li sostituirono e nel 1906 arrivò la funzione di selezione musicale dei pezzi, nella forma di dischi da grammofono: merito della John Gabel Company, che presentò un giradischi a moneta, il Gabel Automatic Entertainer, con cambiadischi automatico. Il tutto da caricare, però, ancora a manovella. Solo nel 1920 il jukebox raggiunse pressappoco la sua foggia moderna, con l’arrivo dei dischi registrati e riprodotti con la corrente elettrica.
Da allora, le maggiori case produttrici americane fecero a gara per adottare e copiare, di volta in volta, i migliori sistemi di cambio dei dischi. Ma anche le novità estetiche predilette dagli acquirenti. La Wurlitzer rimase l’indiscussa padrona del mercato fino agli anni ’60, rendendosi protagonista di un’imponente campagna pubblicitaria, che accostava lo svago e il divertimento dei giovani al jukebox. Anzi, che lo rendeva indispensabile. Il suo prodotto di punta, il 1015 Wurlitzer, riempì riviste e spot pubblicitari, tanto da imporsi nella memoria collettiva come uno dei simbolo di quegli anni ruggenti. Ne furono costruiti ben 50.000 esemplari. Vi starete chiedendo, forse, se uno di quelli è lo stesso che duetta con Fonzi. No: quello di Happy Days è un Seeburg HF100G che, a dispetto della probabilità inferiore che avreste avuto in quegli anni di incontrarne uno, si è imposto nell’immaginario collettivo come il jukebox per eccellenza dei “fifties”. Certo, in quanto a funzionalità rimase imbattibile: fu il primo, e rimase il solo, a contenere 100 dischi a fronte dei 24 degli altri esemplari.
Ma che significa la parola jukebox? Forse nulla, o meglio: del significato originario si è persa l’origine precisa. La parola, secondo alcuni, deriverebbe dalle “juke houses”, cioè i postriboli dell’anteguerra, all’interno dei quali veniva spesso suonata musica senza sosta. Altre versioni lo vorrebbero derivare dalla corruzione della parola “jook”, un termine che nello slang dei neri americani significava danzare. Il termine sarebbe comunque diventato invalso solo dopo la Seconda guerra mondiale.
Il jukebox, che aveva brillantemente superato la sfida lanciata dalla radio, nonché la terribile crisi del 1929, sembrava destinato a superare, come in effetti fece, le tumultuose rivoluzioni tecnologiche che si susseguirono dopo il 1945, adeguandosi prima ai dischi, passati dai 78 a 45 giri, poi all’hi-fi, al disco microsolco e, infine, allo stereo. Godendo di una diffusione pressoché ubiqua fino alle soglie degli anni Ottanta. I primi segni di cedimento del mercato arrivarono proprio allora. Nel 1982 il New York Times riportava un articolo dal titolo già nostalgico: “Il jukeboxe, una hit del passato, a quanto pare”. Il numero di esemplari presenti negli Stati Uniti si era più che dimezzato, nel giro di pochi anni, passando dai 700mila degli anni ’50 ai meno dei 300mila di quegli anni, rimpiazzati negli angoli dei locali dai flipper e dai videogiochi, ma anche dalle musiche di sottofondo. Nonché dalle discoteche, fonti di musica già allora molto affollate.
Non solo la TV ma anche il cinema ha flirtato molto con i jukebox, dalla scena del ballo di “Giungla d’asfalto” di John Huston (1950) a quella di “V per vendetta” di James McTeigue (2005) con Natalie Portman, passando per “Grease” (1978). Ma basterebbe fare un piccolo esperimento e vedere nei prossimi 5 film che vedrete se ne compare uno. Per un censimento sorprendente – con link analogo a piè di pagina sui flipper – rimandiamo alla teutonica precisione del sito tedesco jukebox-world.de, che ai film associa i modelli che compaiono, e in molti casi anche i fotogrammi, in una specie di pornografico modernariato. C’è qualche mancanza, è vero: come il modello che compare nel film di Martin Scorsese “Mean Streets” (1973), epico perché riproduce allo stesso tempo i Rolling Stones (erano gli anni ’70) e il tenore Giuseppe Di Stefano. Ma anche, per esempio, quello di “Mystic river” (2003), come ha notato casualmente chi scrive, riguardando il film su Netflix qualche sera fa.
Con la scomparsa dei jukebox, rimasti in qualche bar molto nostalgico o nei mercatini di antiquariato, finiva più che un epoca un costume: quello di partecipare alle colonne sonore delle serate, battagliando o convergendo sui brani da riprodurre. Un tempo in cui la competenza musicale non era facoltativa ma necessaria: come selezionare i brani se si ignorava l’artista e il titolo? Ora nei bar è possibile fare al massimo qualche richiesta, spesso accolta di malavoglia dai gestori, perché non in linea con la play-list preparata su Spotify. Ma ora che ci pensiamo, ci sono ancora apparecchi che riproducono musica in molti bar quando si inseriscono delle monetine: i video slot. Anche se, in quel caso, la musica è sempre, tristemente, la stessa.
Il Piccolo di Cremona, 23 novembre 2019