Il 4 gennaio 1960, sulla strada statale 4 che da Sens, Francia, porta a Parigi, l’editore francese Michel Gallimard perdeva il controllo della sua Facel Vega e si schiantava contro uno dei platani che ancora oggi costeggiano quel rettilineo di strada. Sarebbe morto una decina di giorni più tardi per le ferite riportate; lo scrittore e premio Nobel Albert Camus, compagno di viaggio di Gallimard in quella fatale circostanza, invece, morì sul colpo di frattura cranica. La circostanza sembrò del tutto casuale. Ma dietro quell’incidente d’auto potrebbe esserci di più. A sostenerlo, è un libro del poeta e scrittore cremonese Giovanni Catelli, “Camus deve morire”, uscito nel 2013, ma tornato oggi al centro della scena, in occasione della pubblicazione in Francia, arricchita di un nuovo capitolo contenente una preziosa testimonianza. L’edizione francese – di cui già il Guardina e i media francesi hanno trattato – vanta, tra l’altro, una quarta di copertina firmata dallo scrittore Paul Auster.
Tutto nasce in un pomeriggio vagabondo per le librerie di Praga. Catelli scova un voluminoso libro bianco, il diario postumo dello scrittore ceco Jan Zàbrana. Sarebbe stato impossibile immaginarsi di leggere, in quelle oltre 2mila pagine e in quel momento, queste righe: “Hanno danneggiato uno pneumatico dell’auto grazie a uno strumento tecnico che con l’alta velocità ha tagliato o bucato la gomma (…). Ci sono riusciti, e in modo così perfetto che il mondo fino a oggi ha creduto che Camus sia morto a causa di un banale incidente stradale, come può succedere a chiunque”. C’è di più: “L’ordine di liquidazione è stato dato personalmente dal ministro degli esteri Šepilov, come “ricompensa” per l’articolo pubblicato sul Franc-Tireur nel marzo 1957 nel quale Camus, in relazione ai fatti di Ungheria, ha attaccato il ministro, nominandolo pubblicamente”. Parole di seconda mano, confessate da una fonte molto vicina ai servizi segreti russi, il famoso KGB.
Da queste righe avrebbero preso avvio le ricerche di Catelli, aiutato dalla solerte vedova dello scrittore; ricerche tradotte poi in una narrazione che intreccia le vicende personali di Camus e di Zàbrana – ma anche di Pasternak, di cui il ceco era stato traduttore – sullo sfondo della Guerra Fredda. Nel 2014, il secondo avvenimento, a metà tra l’indizio e la prova: durante la presentazione del libro, interviene l’avvocato Giuliano Spazzali, il quale riferisce di una conversazione avuta con il collega Jacques Vergès, militante contro il terrorismo durante la Guerra d’Algeria. La sua versione combacia con quella di Zàbrana: per Vergès, Camus è stato ucciso dal KGB. E, aggiunge, l’omicidio ha avuto il benestare dei servizi segreti francesi. Camus era di certo inviso al potere di Mosca: per restaurare la monocrazia comunista in Ungheria, nel 1956 l’Armata Rossa aveva scatenato una guerra contro la quale Camus aveva firmato un appello, rivolto alle Nazioni Unite, ripetendo i suoi attacchi contro il governo sovietico. Che anche i servizi segreti francesi fossero conniventi è reso plausibile dalla porosità della loro struttura d’intelligence, che Catelli descrive permeata di ingerenze sovietiche.
Cosa significa scrivere oggi di questa storia?
Nonostante il tempo, resta una vicenda suggestiva ancorché tragica. Del resto, ho sempre avuto il sospetto che la morte di Camus non fosse stata un incidente. Ma, come diceva Pasolini, pur sapendo, non avevo le prove. Era altresì impossibile per me identificare qualsiasi potenziale sospetto, perché Camus aveva nemici feroci in molti ambienti: i rivoluzionari algerini, l’Unione Sovietica, i comunisti francesi, i reazionari e l’OAS (l’organizzazione francese paramilitare antialgerina): tutti avevano dei motivi per volergli fare la pelle. Poi, è arrivato il libro di Zàbrana. Da allora, ho solo voluto cercare la verità. Camus era odiato nell’URSS per i suoi discorsi pubblici, così come non va dimenticata l’opera di pressione che gli rese possibile fare assegnare a Pasternak il Nobel; ma anche l’intellighenzia francese di allora, composta perlopiù dal sistema di potere attorno a Jean-Paul Sartre, non lo aveva per nulla in simpatia, non perdonandogli il suo anti-stalinismo. In pochi si rendevano conto di quanto le posizioni di Camus, vicine all’anarchismo, fossero ben più di sinistra delle loro.
Parlare di queste cose resta anche oggi pericoloso?
Spero di no: del resto, sono fatti lontani nel tempo. Certo molti francesi faticano a fare i conti col loro passato. La morte di Camus è avvenuta in un periodo di palese avvicinamento della Francia all’URSS. Guarda caso, proprio quel fatidico 1960 fu l’anno della visita a Parigi e nel resto di Paese di Krusciov. Camus avrebbe senz’altro rilanciato le sue accuse. Per quanto riguarda la questione dello spionaggio, nel 1962 perfino Kennedy avvisò De Gaulle: i servizi segreti francesi erano zeppi di infiltrati. Nel 1966 il processo di avvicinamento coi sovietici toccò poi il suo vertice; De Gaulle, infatti, fece uscire il suo Paese dalla Nato.
Nel libro, Catelli alterna una prosa poetica al resoconto giornalistico, ricostruendo la plumbea atmosfera della cortina di ferro. Varrebbe la pena leggerlo solo per immergersi in quell’epoca, dove gli omicidi – e qui lo stile è quello di Jan Fleming – avvenivano coi spray velenosi che non lasciavano tracce, o con microproiettili letali sparati da manici di ombrelli. L’alone di mistero, però, non avvolge solo il passato: “La vedova Zàbrana – dice Catelli – ha ricominciato a sentire degli strani scatti e rumori durante le telefonate, proprio come quando venivano intercettati dalla polizia. Suggestioni? Può darsi, ma potrebbe anche darsi che il governo attuale stia di nuovo allungando la sua ombra sui cittadini”. “Camus deve morire” non offre una prova definitiva: offre piuttosto il ritratto di un’epoca dove sembra del tutto plausibile che un intellettuale potesse venire ucciso per le sue idee. Ma offre anche il ritratto di un uomo, Camus, che amava la libertà e che anteponeva gli uomini alle loro ideologie.
Federico Pani
Il Piccolo di Cremona, 14 dicembre 2019