L’ultima edizione di Basta poco per sentirsi soli di Grazia Cherchi risaliva al 1991, l’ultima ristampa al 1995. La raccolta di racconti è ora riedita dalla casa editrice e libreria “Papero Editore”, piacentina come l’autrice e come il sodale Piergiorgio Bellocchi con il quale, insieme a Goffredo Fofi, fu redattrice dei “Quaderni piacentini”. Ma non è della sua nativa Piacenza, né della militanza nella celebre rivista che la raccolta tratta, bensì dell’esperienza di consulente editoriale a Milano, dove Cherchi si spense nel 1995. O meglio: di piccoli fotogrammi esistenziali, personali e umorali del dietro le quinte di un’attività che l’aveva portata a essere una rispettata e temuta (molto temuta) professionista del mestiere, ma che non le aveva fatto perdere la sua profonda umanità.
Del resto, è l’autrice stessa in queste pagine a ritrarsi come una donna premurosa, ingenua, un po’ sbadata, senz’altro generosa, con tratti di una femminilità – come una certa fragilità e un bisogno d’attenzione – trascurati dai suoi interlocutori, prevalentemente maschi. Un esempio, sotto forma di conversazione telefonica:
“Grazie comunque”, aggiunge, “tutto bene anche a te?”
“Sono stata borseggiata, però… Pronto?”
“Sì ho capito. Sei stata corteggiata. E allora?”, chiede annoiato.
“No, ho detto: borseggiata.”
“A me hanno rubato quattro giorni fa la radio dell’auto. Non te l’ho raccontato? Una jella maledetta. Stavo uscendo di casa…”
Basta poco per sentirsi soli.
Ma non bisogna fraintendere: gli apparenti accenni di vittimismo nel brano citato (il comprensibile contraccolpo provocato dalla risposta) fanno emergere soprattutto l’autismo emotivo dell’interlocutore. Il bersaglio prediletto è, infatti, il sottobosco sbruffone ed egoista dell’industria culturale degli anni del disimpegno: narcisi insicuri, forse dotati di qualche talento, ma sempre col rischio di sembrare degli inetti. Insomma: se Cherchi si trova a dover fare non solo da sponda professionale, ma anche un po’ da mamma ad alcuni poeti e scrittori in preda a crisi d’identità, il lettore non potrà che vederla come lei.
Cherchi non concede troppi sconti alle persone per le quali prova affetto e forse rispetto; figurarsi quindi per chi non le suscita nulla di tutto ciò. Si legga, allora, l’esilarante racconto sul giornalista che, riluttante (preferirebbe farlo al telefono), si reca a casa sua per un’intervista su un autore lanciato da Cherchi, di cui il giornalista non sa nulla: quando lei chiede cosa conosce dell’autore, lui risponde: “In tutta franchezza: la narrativa la pratico poco”. E che prende appunti sui mobili della casa, perché riportare il mobilio di contorno all’intervista è il suo stile. Oppure, il racconto sulla fatica di qualsiasi editor che abbia a che fare con scrittori improvvisati. Parlando dei quali inserisce, in chiusura, una frase che di per sé è anche una piccola lezione di critica letteraria:
“Hai notato che adesso scrivono soprattutto i non addetti ai lavori?” dico chiedendo un caffè.
Nell’ultimo mese ho letto i romanzi di un giudice, un medico, due avvocati, un sociologo…”
“E le donne dove le metti? Io la scorsa settimana mi sono fatto una contessa, un’attrice, una psicanalista e un’assistente sociale”.
(…)
“Sarà l’influenza dei telefilm americani, ma da qualche tempo i romanzi rassomigliano a copioni cinematografici”, dico.
“C’è più plot di prima, è vero, ma l’azione non è mai mozzafiato. Ci pensa a mozzarla lo scrivente, che tra una rapina, un agguato, uno stupro infila i suoi monologhi, con rievocazione di infelicità infantili, domestiche ed esistenziali di cui non importa un accidente a nessuno”.
“Già, il vice di Le Carré cede sempre il passo alla controfigura di Molly Bloom”.
Se proprio si deve trovare un difetto in questa raccolta – che, lo avrete capito, aiuta a sentirsi un po’ meno soli – è lo sbandamento momentaneo nel sarcasmo o, come negli ultimi racconti, in alcune requisitorie contro la maleducazione, motivate, ma non all’altezza della penna degli altri racconti. Come aveva scritto, centrando il punto, Vittorio Spinazzola: “Il cipiglio che la Cerchi esibisce nel maltrattare i suoi interlocutori in realtà è la maschera di un’inquietudine malinconica. Si sente sola e fragile, questa donna all’apparenza così aggressiva (…). E proprio il bisogno di comprensività affettuosa le si estroflette in umore sarcastico”.