“Il paese della sceneggiata”, di Goffredo Fofi

A spingere Goffredo Fofi a scrivere “Il paese della sceneggiata”, edito nel 2017 dalla milanese Medusa, è stata – come ammette lui stesso a poche righe dall’inizio del libro – la «nostalgia di un’epoca e di un popolo definitivamente scomparsi». Di più: la nostalgia «di quando quel popolo esprimeva una propria cultura, in dialettica opposizione a quella borghese e all’industria culturale da essa voluta per condizionare coloro che voleva supini ai modelli consoni al mantenimento della sua egemonia». Nel giro di poche righe, prima ancora di fare la conoscenza della sceneggiata napoletana, siamo già immersi nella prosa tipica di Fofi, della sua militanza, della sua ideologia.

Ma superata la diffidenza suscitata dalle prime righe, che fa da sfondo al piccolo libretto – e il lettore obiettore non potrà che farne la tara anche per le restanti pagine – Fofi stupisce non solo per la conoscenza sterminata della cultura napoletana (e basterebbe leggere il primo capitolo, che arriva a lambire la musica di Pino Daniele); ma anche perché in poche pagine definisce i contorni sociali della sceneggiata, forma di intrattenimento teatrale e musicale messa in scena dal sottoproletariato urbano dei vicoli di Napoli; e del suo pubblico, poveri contadini, diremmo oggi pendolari, che prima di tornare in campagna si fermavano a vederla nelle sale allestite nelle vicinanze della Ferrovia a Porta Capuana.

La sceneggiata stessa, del resto, imponeva al suo pubblico riflessioni sociologiche, morali e perfino moralistiche, mitigate com’erano da quei lieti fine «paternalistici» con lo scopo di rinfrancare e fidelizzare il pubblico. Da una parte, i mali di quella società, dall’altra i loro rimedi, i loro antidoti benché amari: le perdizioni a cui porta il desiderio, incarnati dal maschio dominatore e dalla «guappa», categorie dello spirito o veri personaggi in carne ed ossa addomesticati dai vincoli di rispettabilità o da qualche matrimonio riparatore; la famiglia come cappa benché legame irrinunciabile, salvifico; il vicolo come mondo e come trappola; ma anche il rapporto con la Storia e la Legge (maiuscole di Fofi); in particolare lo scarto tra legge (del vicolo) e Legge (dello Stato), quelle piccole effrazioni necessarie, magari per sbarcare il lunario, che – a scanso di equivoci – nulla hanno a che fare con la criminalità organizzata camorrista.

La sceneggiata, per Fofi, finisce con i Sessanta e i Settanta, con la proletarizzazione industriale del contado e l’avanzata della classe media, dunque per l’esaurimento del suo pubblico di riferimento e della dialettica vincente che l’aveva tenuta in piedi. O meglio: finisce il suo ruolo di «strumento di conoscenza», restando sommersa dalla cultura e dall’intrattenimento di massa; fatta salva una tardiva ripresa d’interesse, «neopopulista» – curioso che, pur en passant, si citi il sociologo De Masi – dalla cui tentazione, posticcia e strumentale, Fofi, tuttavia, mette in guardia.

Cafè Golem, 22 gennaio 2018

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