“Cactus. Meditazioni, satire, scherzi”, di Alfonso Berardinelli

Si potrebbe scrivere a braccio di Cactus, il libro di Alfonso Berardinelli da poco riedito, ampliato, da Castelvecchi (Cactus – meditazioni, satire e scherzi, pp. 154), una miscellanea di articoli di critica a sua firma comparsi su alcune testate, fra loro eterogenee. A braccio, però, si finirebbe per fare un lavoro da intellettuale-ruspa, imitando con trasporto le gocce più sulfuree della sua prosa, e trascurandone bensì la finezza e le sfumature. Accostarlo a Montaigne e a Molière, alle stroncature di Prezzolini, alla satira di Flaiano e Longanesi, all’epigramma di Kraus e al dictionnaire di Flaubert, beh non c’è che dire, ci farebbe subito riconoscere: banali tritacarne. Fare l’intellettuale apriscatole non avrebbe senso: il libro funziona anche da ottimo apriscatole. E il frullatore si incepperebbe subito nel tentativo di rendere fluide e dolci le contraddizioni che fa emergere. Perciò, passati in rassegna i quattro prototipi d’intellettuale coniati da Berardinelli (ruspatritacarne,apriscatole e frullatore), lasciamogli dire sul primo capitolo, macché, sulla prima frase del Pendolo di Foucault di Umberto Eco:

«Fu allora che vidi il pendolo». Mi ero sbagliato a sottovalutare quell’inizio. In verità non si può leggere una frase simile senza sfregarsi le mani, in veste di lettori. Ah, come mi sento interamente lector in fabula. Quel «fu»! Quell’«allora»! Quel «vidi»! Quel «pendolo»! Tutto è così… così remoto, così naturale, così visivo, così scientifico, così fallico.

Fu. Allora. Che. Vidi. Il. Pendolo. Il mistero e la forza evocativa del passato remoto («fu»). La perentoria determinazione dell’avverbio di tempo («allora»). La vivida presenza della rivelazione diretta in prima persona («vidi»). E infine la cosa che dà il nome al libro, quell’ineffabile oggetto sferico in oscillazione, lucente e implacabile come una legge assoluta installata nel cuore di ciò che è transitorio e relativo: il mondo terrestre. Mondo terrestre percepito nella sua collocazione celeste.

Con un’ironia strepitosa, ecco l’immagine del professor Eco che, scrivendo un romanzo, ne glossa ogni frase col suo sapere enciclopedico, quasi a voler ridurre proprio lei, la storia (“s” minuscola), a un’occasionale nota a piè di pagina, inserendo cultura di massa e teologia medievale, modernismo e romanzo giallo, cabala e geografia fisica: tutto quello che sa, che ci sta, che riesce a dire, senza mai buttare via niente.

Segue il ritratto di Pietro Citati e la galleria dei suoi scrittori, fantasmi, forme evanescenti, ectoplasmi, forse simulacri di Citati stesso. E anche qui torna Eco, ma solo per ricordare che «Non si tratta di due contrapposte visioni del mondo (il mondo non esiste, né per l’uno né per l’altro: tutto è segno o tutto è sogno), ma due tipi di salsa, la piccante e la dolce, entrambe da tenere in casa». Citati, sfacciato ma efficace, riscrivere e racconta la letteratura; soltanto, lo fa a modo suo: smussandola e frullandola – si perdoni il riferimento intertestuale –, pronta per essere digerita dai lettori di un grande quotidiano; nel giro di cinque o sei minuti; ecco a cosa si riduce, senza nessuna offesa, la critica culturale.

E poi, ancora: irrinunciabili foto segnaletiche di autori alla moda: Severino, Vattimo, Cacciari e Asor Rosa; altri bestiari di scrittori; una personale idea di scuola; riflessioni su alcuni aspetti della vita, come la fretta, la bruttezza, gli animali e il generico e astratto conversare su Dio. Cactus: per i giudizi spinosi, certo; ma forse anche per far scoppiare i palloni gonfiati; senza mai cedere alla boria, alla consapevolezza che si può fare molto di buono, in questo senso, ma che è sempre troppo poco: come Berardinelli  lascia intuire parlando del critico Giulio Ferroni che, dopo aver enumerato nel suo La Scena intellettuale 66 maschere di letterati, gli fa constatare che: «Più ne uccide con le sue definizioni e più ne rinascono, secondo la logica del trasformismo, del pentimento e del riciclaggio. Alla fine il critico è esausto, l’Idra non è stata decapitata».

Café Golem, 19 dicembre 2018

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