Se volete saperne di più su cos’è stato il Novecento, la mostra “Magnum-Life, il fotogiornalismo che ha fatto la storia” fa per voi. La mostra fa parte di un progetto più ampio riguardante la nota agenzia fotografica Magnum, fondata nel 1947, tra gli altri, da Henri Cartier-Bresson; siamo, infatti, quest’anno, al suo 70° anniversario e l’allestimento organizzato al Museo del Violino a Cremona è solo una delle iniziative pensate, qui in Italia, per l’occasione. Le altre esposizioni coinvolgono Brescia, con Magnum First, e Torino, che con ospita i più importanti fotoreportage di Magnum in Italia; il titolo: L’Italia di Magnum: da Henri Cartier-Bresson a Paolo Pellegrin. A Cremona, la mostra è dedicata al sodalizio tra la notissima rivista americana Life e i reportage fotografici forniti dall’agenzia.
Veniamo all’esposizione. Ad accogliere il visitatore, ci sono le copertine di Life realizzate da Philippe Halsman, e alcuni dei suoi pezzi più famosi, legati a personaggi celebri: Alfred Hitckok, Salvador Dalì, il pugile Muhammad Alì e Marlyn Monroe. Oltre a farci ricordare la curiosa idea, avuta molto probabilmente da Halsman per primo, di ritrarre i propri soggetti intenti a saltare, gli scatti, frutto di composizione molto laboriose, restituiscono bene l’aura di divismo che attornia le celebrità.
Con Werner Bishoff si cambia decisamente passo: i reportage della carestia in India e dei campi di rieducazione durante la Guerra in Corea sono foto dure, ritratti di un’autentica disperazione. Molto dure sono anche le immagini di Bruno Bardeby sulla Guerra in Vietnam. Curiosamente, la maggior parte della sezione è dedicata al drammatico dietro le quinte della guerra, in particolare alla tossicodipendenza provocata all’uso di eroina che colpì, come una piaga, l’esercito americano e ne contribuì a spezzare il morale. Eroina che gli stessi Vietcong – vale la pena ricordare – facevano arrivare nei campi americani a prezzi bassissimi.
Il reportage bellico per eccellenza, però, è legato al nome di Robert Capa, che proprio in Vietnam, fu ucciso dall’esplosione di una mina. Di Capa, è riportato, naturalmente, lo scatto del miliziano morente, uno scatto contraddittorio – fu Capa a realizzarlo o, come alcuni sostengono, una sua collaboratrice? – che resta la testimonianza più impressionante della Guerra Civile spagnola. Ancora più impressionanti, forse, sono le foto del D-Day, lo sbarco in Normandia. Furono scattate ad Omaha Beach, spiaggia dove gli americani restarono, per ore, inchiodati dal fuoco tedesco sulla battigia, rischiando di compromettere l’intera operazione. Lo spavento e l’incubo della carneficina si trasmettono anche nella mano di Capa, tremante nelle fredde acque normanne. Capa definì quelle fotografie “leggermente fuori fuoco” e la definizione divenne poi il titolo di una sua biografia.
A Dennis Stock è legato il più bel servizio fotografico probabilmente mai realizzato su Jeames Dean, che qui viene giustamente riproposto. Tra le foto più belle, c’è lo scatto che lo ritrae sotto la pioggia, a Times Square, e che resta una silloge del suo mito, la rappresentazione migliore di una generazione, la sua, tormentata e ambiziosa. Ma Stock non si ferma qui: il reportage sul protagonista di Gioventù bruciata lo portò nel paese natale e rurale di Dean: le immagini sono quelle di un’America fatta di fattorie e campi arati a perdita d’occhio, quell’America destinata – proprio come Dean – a perdere la propria innocenza, venendo a contatto con la società di Hollywood e dello spettacolo. La morte dell’attore, a bordo della sua auto da corsa, fece il resto per costruirne il mito.
Il culmine della mostra, però, è la sessione di foto scattate da Henri Cartier Bresson e Eve Arnold durante le riprese del film “Gli spostati”, di John Huston, del 1961. Gli scatti del set non sono solo una testimonianza di una gestazione filmica difficile – nella foto di gruppo, suggeriscono gli organizzatori, ognuno posa per sé –, ma costituiscono, in qualche modo, il presagio di qualcosa di ben più tragico: sul film aleggia, infatti, il tramonto delle due stelle protagoniste del film, Clark Gable e Marilyn Monroe, il primo ucciso da un infarto il giorno dopo la fine delle riprese e la seconda, al suo ultimo film.
Le immagini ritraggono una Marilyn nervosa, stralunata alle prese con un copione che non sembra entrarle in testa e un matrimonio al suo capolinea: quello con Arthur Miller che, guarda caso, proprio con John Huston firma la sceneggiatura del film. Ma oltre a riprendere uno dei momenti più cupi della carriera di Marilyn, finita in tragedia l’anno successivo, a restare impresso c’è il sorriso rassegnato di Gable, già incrinato – inevitabilmente, se lo si guarda con gli occhi di chi già sa – dalla morte imminente. Per chi vuole, si può già intravedere la fine di quella Golden Age, terminata in modo traumatica con l’assassinio di Kennedy.
Uscendo dalla mostra, ci si lasciano alle spalle immagini tra loro diversissime, tutte accomunate da uno sguardo che è capace di restituire, più che dei soggetti, un’immagine complessiva del Novecento: un secolo mai così violento e spettacolare, dove i sogni della più grande fama – che, se si vuole, in fondo, è desiderio di immortalità – coabitano e si avvicinano pericolosamente con il fantasma della morte. Davanti all’obiettivo è ritratta, insomma, una società di massa inchiodata alle proprie paure, ai propri miti, ai propri orrori, ai propri sogni.