Che fine ha fatto la scuola di una volta? L’intervista ad Anna Marcocchi

Perfino l’Ocse si è spinto a dirlo: bocciare è inutile. Tutti promossi, allora? Sì: ma nel mare magnum della scuola e delle normative che la riguardano, per ora, sono le opinioni a dominare. Meno, i fatti. Meglio fermarsi a riflettere. Per farlo, chiediamo un parere alla professoressa Anna Marcocchi, docente in pensione di greco, latino e italiano. Per chi ha frequentato il Liceo Classico Daniele Manin” a Cremona, la figura della professoressa, incredibilmente preparata, molto esigente e giusta, ha lasciato un ricordo indelebile. Agli altri si può citare la sua competenza straordinaria e una carriera quarantennale nell’insegnamento.

Professoressa, che è successo alla scuola? Come ha fatto a perdere la sua autorevolezza?

Sarò chiara fin da subito: sono gli insegnanti ad aver perso autorevolezza. Devono studiare, devono tornare a essere in grado di fare quello che è richiesto loro facciano in classe. E che cosa fanno invece di impegnarsi e tenersi aggiornati? Assecondano la direzione in cui va la società: quella della comodità. La difficoltà viene vista con diffidenza. Prendiamo il caso del liceo classico: ecco, togliere la traduzione (dal latino o dal greco, ndr.) durante l’esame di maturità significa togliere l’unica vera difficoltà cui si va incontro. Detto ciò, gli insegnanti bravissimi e preparati non mancano.

Come mai succede?

Succede perché la maggioranza è spaventata dalle cose difficili. La volontà di lavorare è l’unica forza che permette di superare le difficoltà. Se si è in pochi a possederla, si resta indietro. Ad aggravare il fenomeno c’è il fatto che, con la rete, agli studenti è accessibile tutto in poco tempo. Le ricerche che fanno i ragazzi non saranno perfette, ma sul web si riescono a trovare informazioni rapidamente e non per forza sbagliate. Nella mia carriera, devo dire la verità, mi sono imbattuta in traduzioni copiate dal web abbastanza buone.

Che ne pensa della questione dell’abolizione delle bocciature?

Se pensiamo che la promozione sia un diritto ci sbagliamo: è una conquista. Così funzione quella che chiamano la meritocrazia. Qui a Cremona, poi, mi è capitato di vedere un fenomeno particolare: il nome conta più dei buoni risultati quando c’è da decidere una promozione. Non nel senso che i genitori, per quanto influenti siano, non esercitano poi direttamente pressioni sui docenti: basta il nome.

Colpa dell’Italia?

Può darsi. Anche se a Milano, dove ho studiato, nessuno si scandalizzò quando bocciarono due miei compagni di scuola, figli di importanti politici (la professoressa cita i nomi, ndr.). Più in generale, all’estero, le cose vanno molto diversamente. Faccio un esempio. Una mia alunna viene presa a Cambridge. All’aeroporto trova ad aspettarla nientemeno che il suo docente. Con lei, però, è venuta anche la famiglia. Il professore non si lascia sorprendere: dice che se non sanno dove alloggiare, per qualche giorno, possono contare sulla sua ospitalità. Ma non ce n’è bisogno. Poi, prima di salutarli, il professore tira fuori un plico di fogli scritti fitti fitti in latino. Glieli dà e dice: “Vanno tradotti entro venerdì. Se non ce la dovesse fare, e quindi rifiutasse il posto, vi posso riaccompagnare io in aeroporto”.

Nella sua carriera ha notato un calo nell’impegno scolastico in generale?

Sì, ed è una tendenza che si è affermata soprattutto negli ultimi anni. L’aspetto educativo della conquista dei voti, della promozione e del diploma sta svanendo. La colpa è anche degli insegnanti: promuovere anziché bocciare è meno faticoso. Secondo voi cosa sta dietro l’atteggiamento da “amiconi” che hanno ultimamente certi professori? Di sicuro niente di educativo.

E per quanto riguarda l’educazione intesa come buone maniere?

Anche in quel caso si è andati in peggio. Un giorno, un alunno della mia scuola insulta volgarmente una collega. Lei non reagisce. Noi insegnanti sì: convochiamo tutti i genitori, gli spieghiamo quello che è successo e loro che fanno? Ridono. Sì, ridono. Se considero l’insulto di quel ragazzo un gesto grave, la risata di quei genitori mi spaventa e basta.

Cosa si può fare?

Bisogna intervenire in anticipo. Permettetemi un altro aneddoto. Un’insegnante delle scuole elementari che conosco decide di cambiare metodo di insegnamento: legge tutti i giorni ad alta voce delle storie, usa parole difficili per bambini di quell’età, ma gliele spiega con pazienza e precisione. Risultato: dopo due anni i bambini sanno leggere benissimo. Sapete che succede? Riceve una nota di demerito: troppa lettura e troppi pochi giochi in classe. Ecco, se non si interviene fin da subito, poi non si riesce più a fare molto. Io dico: agiamo sulle elementari. Le medie sono caotiche. E nei licei e nelle scuole professionali è già troppo tardi.

Professoressa, Lei per molti è il volto che il latino e il greco hanno avuto durante il ginnasio al liceo Manin. E questo per molti anni. Per chi però non l’ha avuta come insegnante di italiano, un rimpianto: non aver assistito alle sue lezioni sui Promessi Sposi. La cattedra su cui sedeva era il palcoscenico, i timbri di voce prestati ai personaggi, gli attori in scena e gli alunni, un pubblico incantato. Come ci riusciva?

Merito del testo: è tradotto e studiato in tutto il mondo. E poi, diciamo la verità, bisogna essere innamorati di quello che si fa: di quello che si è studiato e di quello che si riesce davvero a trasmettere. Bisogna continuare a studiare. E bisogna anche avere coraggio. Insegnare non può essere un lavoro riempitivo. Bisogna avere coraggio, e volontà di impegnarsi e di lavorare bene.

Federico Pani

Il Piccolo di Cremona, 1° ottobre 2016

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