Prepariamoci: ad ottobre, se il sì vincerà, entreremo a tutti gli effetti nella «vera Seconda Repubblica» (titolo del libro). Eccola qua, la chiave di lettura del libro presentato ieri da Nadia Urbinati, filosofa e presidente di Giustizia e Libertà, nella sala della chiesa di San Vitale, affollata nonostante il caldo. Ad organizzare l’incontro l’associazione 25 Aprile Cremona. Il volume, scritto a quattro mani insieme a David Ragazzone, è stato presentato, insieme al coautore, dal cremonese Ernesto Bettinelli, ordinario di diritto costituzionale presso l’Università di Pavia.
Veniamo al libro. Il libro di Nadia Urbinati ha un merito: fa chiarezza su cosa si debba intendere con l’espressione Seconda Repubblica. Innanzitutto una questione formale: per parlare di una nuova repubblica servirebbe una modifica dell’assetto costituzionale che ancora non c’è stata. Dunque, normalmente, viene usato in modo scorretto. Il discorso, però, non si ferma qui: senza insterilirsinella polemica lessicale, il libro prende sul serio il termine e lo ricolloca all’interno di un nuovo contesto di significato.
L’espressione Seconda Repubblica, infatti, non è semplicemente un termine della vulgata giornalistica; e non è nemmeno soltanto – come ha fatto notare Ernesto Bettinelli – un omaggio a forme di neo gollismo all’italiana,malcelata tentazione del caudillo di turno di fregiarsi del titolo di fondatore di una nuova repubblica.
C’è di più: la Seconda Repubblica è l’espressione di un’ideologia, di un desiderio strisciante di anti-pluralismo parlamentare. In altre parole: la voglia di semplificare, di scavalcare e oltrepassare il dibattito in parlamento. In nome di una struttura più funzionale ed efficiente, si invoca allorail vero passaggio cruciale della nostra storia costituzionale, lo si voglia chiamare Seconda Repubblica o meno, come per primo fece Giorgio Almirante, pensando proprio a De Gaulle: l’adozione di una forma di democrazia diretta, presidenzialista e plebiscitaria, il cui margine di scelta si esaurisce nei termini del bipolarismo tra leader. O con me o con chi sta contro di me: è qui che, ridotta all’osso, si giocherebbe la partita della politica; un comitato elettorale permanente, per dirla in una battuta.
Se le cose stanno così, a voler ricostruire una genealogia dell’idea di Seconda Repubblica, Almirante a parte, i precedentinella storia italiana non mancano. Non solo Berlusconi e Renzi, ma – primo fra tutti – Alcide de Gasperi: proprio lui, il mite leader della Democrazia Cristiana, sarebbe stato il primo ad immaginare, con la Legge Truffa,un’investitura plebiscitaria, sotto l’egida del suo partito. Poi ci sono state le ambizioni represse di Fanfani, sono emerse personalitàcome Craxi,Cossiga e D’Alema. Tutti quanti accomunati da tentazioni di presidenzialismo. A sfiorarlo più di tutti è statoBerlusconi, la cui capacità di spaccare il paese in due è provata, tra le tante cose, dall’effimera ascesa diWalter Veltroni: un rivale uguale e contrario, sorto in perfetta antitesi al leader del Centrodestra.
Potremmo dire allora cheil ventennio appena passato, di fatto, ci ha reso più familiare la politica dei leader di partito, sostituendosi alla politica dei partiti. La legge Renzi-Boschi sarebbe dunquesolo un atto formale per sancirne il passaggio. Ma per gli autori del libro – che costituisce un sostanziale endorsement al «no» al referendum di ottobre – bisogna tener ben presente almeno due questioni. Primo: quali sono le forze che hanno spinto finora nella direzione della Seconda Repubblica? E ancora: è proprio vero che l’avvento di un modello bipolare e presidenzialista si convertirà in una salutare forma di decisionismo?
Su questo punto i tre relatori sono d’accordo: il modello consociativo – quando non soffocato dal clientelismo e dalla corruzione – era in grado di mettere a frutto l’arte del compromesso. E non si può dire che la cosiddetta Prima Repubblica non abbia portato grandi risultati. Gli esempi non mancano: lo Statuto dei lavoratori, l’obbligo scolastico fino ai 14 anni e il sistema sanitario gratuito, per citare soloalcuni dei grandi risultati delturbolento periodo degli anni ’70. Il bipartitismo imperfetto, insomma, sapeva funzionare.
La forza di questo modello ha un nome ed è pluralismo, cioè la capacità non di far lottare le idee in maniera esclusiva, ma di sommarle in modo virtuoso.Certo non si può negare che la contrattazione, o meglio la costruzione di uno spazio politico condiviso costi fatica e dibattiti estenuanti. Ma per il mantenimento del sistema parlamentarista non ci sono alternative: è nel dialogo – qualche professore direbbe: nella dialettica parlamentare – che la democrazia trae la sua linfa.
E poi c’è la vera forza, sotterranea e decisiva, che per Nadia Urbinati spinge nella direzione di un presidenzialismo senza contraltari:l’ideologia neoliberista. Il criterio efficientista vince sulla rappresentanza, vince sulla seconda parte della Costituzione – quella che si vuole modificare – e che rappresenta il potere politico dei cittadini. Quasi a voler dire che trattare uno Stato come un’azienda massimizzerebbe il benessere e la libertà dei cittadini. Per la Urbinati, invece, si tratta di una forma di semplificazione brutale e anti-democratica.
Se poi si esaminano con attenzione i risultati dei «governi del fare» – e non ci si riferisce soltanto a quello in carica – viene meno anche la forza degli argomenti a favore dei sostenitori della Seconda Repubblica; le idee e i proponimenti della nuova classe dirigente, infatti, si sfarinano e non trovano terreno nei risultati concreti. In fondo, sostiene la presidentessa di Libertà e Giustizia, è il Parlamento che gestisce ancora con vitalità ed efficacia le sorti del paese, piaccia o meno. Anche se lo fa con ben maggiore modestia.
Federico Pani
Il Piccolo di Cremona, 25 giugno 2016