L’italiano in tv, l’intervista a Giuseppe Patota

Giuseppe Patota non è solo Accademico della Crusca e Professore ordinario di Linguistica italiana presso l’Università di Siena-Arezzo: è anche uno dei massimi specialisti della lingua italiana; lo testimoniano, tra i tanti, il suo passato ruolo di direttore scientifico del Dizionario Italiano Garzanti e quello attuale di condirettore del Nuovo Treccani. E sì, dietro moltissime voci dei vocabolari Treccani o Garzanti che così spesso abbiamo consultato c’è proprio la sua mano. Dallo scorso anno conduce insieme alla collega linguista Valeria Della Valle e all’attrice e conduttrice Noemi Gherrero “Le parole per dirlo”, un programma di divulgazione linguistica in onda ogni domenica mattina su Rai Tre.

Professore, ci spiega com’è costruita la trasmissione, qual è il grado di preparazione e il margine di improvvisazione?

Il copione di ogni puntata è sempre preparato: nell’allestimento, le autrici e gli autori non lasciano nulla al caso; ma questo non vuol dire che non ci sia spazio per l’improvvisazione, cioè per un’interazione spontanea tra l’ospite, Valeria Della Valle e me. Ogni puntata è preceduta da una o più riunioni, in cui gli autori ci danno conto della conversazione che hanno avuto con la ospite o l’ospite del programma, che sono dei rappresentanti a vario titolo della cultura italiana: giornaliste e giornalisti, attori, comici, scrittori, studiosi e personalità legate al teatro o alla televisione (da Paolo Mieli a Corrado Augias, al linguista Giuseppe Antonelli). Le conversazioni tra gli autori e gli ospiti di cui parlavo prevedono delle sollecitazioni soprattutto su questioni linguistiche: per esempio, le parole dell’italiano (ma anche del dialetto) a cui gli ospiti sono più affezionati. Ecco, questa specie di testo della puntata diventa un pretesto che Valeria Dalle Valle e io usiamo per fare delle piccole lezioni di italiano semplici e, speriamo, chiare, dando anche qualche indicazione grammaticale e risolvendo qualche dubbio linguistico.

La trasmissione, dalla chiara vocazione pedagogica, è nata da un’idea del Direttore di Rai Tre, Franco di Mare. Quando ci ha proposto di farla, Di Mare pensava proprio a un programma in continuità con la grande tradizione pedagogica della Rai, cominciata con “Non è mai troppo tardi” dell’indimenticato maestro Manzi. La spinta all’insegnamento della lingua, nel corso della trasmissione, peraltro, è aumentata: sono state inserite delle rubriche all’interno delle quali gli autori, in giro per le strade, fanno domande alla gente comune su parole, forme, collocazioni di accenti, costruzioni, sollecitando risposte e dubbi, a cui io e Valeria Della Valle, in studio, ci impegniamo a dare una risposta. Il buon andamento della puntata, poi, è anche merito della conduttrice Noemi Gherrero, attrice e donna di cultura (si è laureata alla prestigiosa Università Orientale di Napoli): sa gestire bene la conversazione tra noi, la ospite o l’ospite e gli studenti in collegamento; durante la puntata, infatti, sono sempre presenti da remoto degli studenti delle scuole superiori e dei primi anni dell’università, che rispondono alle nostre domande, ma che sono anche sollecitati a farne.

Oggi, il pubblico della televisione è ben più scolarizzato rispetto all’epoca d’esordio dei programmi pedagogici, quando il problema più urgente era ancora l’analfabetismo. Come dosate il vostro contributo linguistico?

La situazione della società e della scuola italiana è davvero molto diversa rispetto ai tempi del maestro Manzi e della sua storica trasmissione degli anni Sessanta. Ciononostante, l’Italia è comunque caratterizzata da un fenomeno di analfabetismo di ritorno, ossia la condizione di chi ha frequentato la scuola dell’obbligo, ma che poi, con il passare degli anni, ha dimenticato le conoscenze e perduto le competenze acquisite allora. Oltre a questo pubblico, ci rivolgiamo anche a chi ha interesse per la lingua italiana: la sensibilità e l’attenzione che la comunità degli anziani, dei giovani e dei nuovi italofoni ha nei confronti della nostra lingua è altissima; il dubbio e la curiosità linguistica continuano ad affascinare e, qualche volta, persino a preoccupare le persone, indipendentemente dalla loro estrazione socioculturale. Non abbiamo, dunque, un pubblico privilegiato. Sappiamo di essere seguiti anche da molti colleghi e colleghe insegnanti, che capita facciano della puntata oggetto di discussione in classe. Alcuni ci seguono anche dall’estero: abbiamo ricevuto delle mail da alcuni insegnanti di italiano in Argentina, ma anche in altre parti del mondo.

Può regalarci qualche indicazione linguistica?

La prima raccomandazione che faccio, in omaggio al mio illustre maestro Luca Serianni, è indicare sempre l’accento acuto sul pronome , anche quando è accompagnato dalla parola stesso: sé stesso, sé stessa e sé stessi. La seconda raccomandazione è evitare l’abuso, non l’uso, delle parole straniere. Che cosa intendo? Né io né Valeria Della Valle siamo dei puristi: non suggeriremmo mai di seguire l’esempio degli spagnoli e dei francesi, che chiamano il computer ordenador e ordinateur; secondo noi, parole come mouse e computer vanno benissimo. Anzi, per quanto mi riguarda, io inviterei a scriverle secondo la grafia italiana, compiuter e maus; così queste parole diventerebbero davvero italiane, come è accaduto alla parola beefsteak, da cui proviene la parola italiana bistecca. Quali sono i prestiti dalla lingua inglese che rifiutiamo? Quelli che potremmo definire dei “prestiti di lusso”. Detto in altri termini: perché ricorrere a una parola inglese quando già ne esiste una italiana, se non per ossequio, o per far vedere di essere alla moda o competenti? Un esempio clamoroso di abuso l’abbiamo sotto gli occhi in questi giorni: la parola booster per indicare la terza dose di vaccino; eppure, avremmo una parola, richiamo, che andrebbe benissimo per indicarla, in quanto chiara e trasparente per tutti. Su tutti, infatti, rifiutiamo i forestierismi che sono usati dalle istituzioni e nei contesti pubblici, contesti nei quali la comprensibilità garantita dovrebbe essere massima.

D’altra parte, proprio il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione dell’apertura dell’anno accademico dell’ateneo presso il quale lavoro, l’Università degli Studi di Siena, scherzosamente (ma dietro lo scherzo c’era un condivisibile fondo di verità), ha invitato il Rettore a promuovere uno studio sull’effettiva necessità dei tanti acronimi, ossia delle tante parole sigla, presenti nella nostra lingua. Un esempio: perché i giornalisti e i politici devono sempre parlare di Dpcm? Non sarebbe più corretto parlare di un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri? E perché bisogna per forza dire PNRR anziché Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza?, naturalmente spiegando poi opportunamente che cosa significhi una parola come resilienza.

Un ultimo suggerimento: evitate un linguaggio violento, inutilmente volgare e aggressivo, il cosiddetto “linguaggio dell’odio”: anche questa è educazione linguistica. Alcuni personaggi pubblici che intervengono nei talk show o che lasciano i loro messaggi sulle reti sociali, certo, non aiutano: questi personaggi – di cui non faccio i nomi perché credo che siano riconoscibili al pubblico – sono degli esempi da non seguire.

Federico Pani

Il Piccolo di Cremona, 11 dicembre 2021

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