L’italiano e la grammatica, l’intervista a Dalila Bachis

La grammatica. Che noia. E invece no, tutto il contrario: la grammatica è un argomento ricco di sfumature e storia, persino avvincente. Ne parliamo con Dalila Bachis, assegnista di ricerca presso l’Università di Siena e collaboratrice dell’Accademia della Crusca. La studiosa ha dedicato all’argomento un saggio dal titolo “Le grammatiche scolastiche dell’italiano edite dal 1919 al 2018”, pubblicato dall’Accademia nel 2019.

Se, come spiegano i linguisti, la grammatica non è un sistema di regole immutabile, perché in molti di noi resta radicata l’idea che si tratti di un sistema monolitico?

La parola “grammatica” può voler dire almeno tre cose: è la struttura che regola il funzionamento di una lingua, ma anche l’insieme delle regole che la descrivono e, infine, anche il libro di grammatica; come fa notare Luca Serianni, possiamo dire “prendi la grammatica”, riferendoci al libro, mentre non diremmo mai “prendi la storia” o “la matematica”. L’idea di una grammatica monolitica, sempre uguale a sé stessa, riposa sul pregiudizio di una lingua sempre uguale a sé stessa, un fatto che ha delle ragioni storiche: la nostra lingua è indissolubilmente legata alla letteratura; l’italiano nacque come lingua letteraria e scritta, ben prima dello Stato unitario.

Con l’Unità, però, si pose il complicato problema dell’insegnamento dell’italiano, particolarmente arduo anche per gli insegnanti, per la stragrande maggioranza dialettofoni. Per superare la difficoltà, i programmi scolastici furono strutturati secondo una rigida osservanza di quella che veniva chiamata “la buona lingua”: esprimersi in modo corretto voleva dire, di fatto, evitare sia il dialetto sia il registro parlato; insomma, nessuno dei modelli linguistici distanti dall’italiano scritto poteva trovare spazio. Da qui nasce l’idea di un “italiano corretto”, che è scritto e non parlato, che è letterario e non colloquiale, che è fiorentino di base e mai regionale.

Come si svilupparono le grammatiche nel secondo dopoguerra italiano?

Le cose cominciarono a cambiare effettivamente solo tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70. Innanzitutto ci fu una grande rivoluzione, la scuola media unica, entrata in vigore nel 1963: molte più persone proseguirono gli studi; se prima, a farlo, erano quasi solo i giovani delle classi più agiate, anche i figli degli operai e dei contadini, naturalmente dialettofoni, cominciarono a studiare più a lungo. Insegnare una lingua così distante da quella parlata dalla maggior parte degli alunni divenne ancora più difficile.

Proprio nel 1963 Tullio De Mauro pubblicò la prima edizione della Storia linguistica dell’Italia unita, nella quale parlò dell’italiano scolastico come di un “antiparlato”, un italiano che non teneva conto delle diversità della lingua né su base regionale né nelle sue differenze di registro. Alla critica di De Mauro seguì, nel 1971, un’importante analisi delle grammatiche scolastiche. Infine, nel 1975, un gruppo di linguisti e di insegnanti denominato “Giscel” arrivò alla formulazione delle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, una fondamentale critica all’educazione linguistica tradizionale, che denunciava sia la concezione sia la didattica tradizionale della lingua.

Quali furono le conseguenze di queste critiche, arrivando fino a oggi?

Divenne chiaro che insegnare una lingua non significa solo insegnare a classificare e imparare delle definizioni, limitandosi all’analisi logica e grammaticale; significa anche saper produrre una comunicazione efficace. Da questo punto di vista è stato decisivo il contributo della linguistica testuale, la quale ha posto l’accento sulle capacità di comprensione di un testo e di produzione scritta non solo creativa. I programmi che seguirono, del 1979 e del 1983, rispettivamente per la scuola media e la scuola superiore, cominciarono a dare importanza anche a questi aspetti. Da allora fino a oggi, però, si sono susseguite riforme e linee guida che hanno sì provato a modificare l’impostazione classica, ma lo hanno fatto in modo vago e disomogeneo, affidandosi perlopiù al buon senso degli insegnanti.

Rimane, dunque, ancora molto lavoro da fare. In primo luogo, la norma grammaticale continua a essere ritenuta intoccabile, mentre in realtà varia sulla base del contesto. In secondo luogo, la lingua non viene ancora percepita come un organismo in evoluzione. Così, la lezione di grammatica resta spesso quella nella quale si insegna“come si deve dire qualcosa”. Ed è ancora lontana l’idea che un quesito grammaticale possa prevedere più risposte giuste, proprio sulla base del contesto.

Potresti fare qualche esempio della distanza tra l’italiano scolastico e quello parlato?

Prendiamo il caso del pronome soggetto “egli”, praticamente uscito dal parlato e, in molti casi, evitato anche nello scritto. Bene: aprendo le grammatiche scolastiche, compare invece nella sezione teorica, negli esercizi e soprattutto è usato regolarmente nella coniugazione dei verbi. Un altro esempio è “codesto”, un dimostrativo limitato all’uso burocratico e adoperato dai parlanti solamente in Toscana: nelle grammatiche, invece, compare come parte integrante del sistema tripartito dei dimostrativi; talvolta, è persino richiesto di adoperarlo nelle attività. Un altro esempio, più generale, è la richiesta di sostituire parole comuni come “fare” con sinonimi più ricercati come “eseguire” o “svolgere”. La stessa sorte tocca spesso anche alla parola “cosa”, da sostituire con parole meno generiche. Ora, tutto questo non è un problema di per sé, ma lo diventa se non si specifica il contesto in cui è meglio usare una parola o un’espressione piuttosto che un’altra: se si insegna che è meglio non usare mai parole come “fare” o “cosa”, si stanno praticamente negando due delle parole in assoluto più usate della nostra lingua.

Questo atteggiamento inerziale nell’insegnamento dell’italiano interessa anche gli esercizi, che sono ancora per la maggior parte di natura classificatoria. Non c’è da stupirsi: la maggior parte di questi esercizi dipende dalla proliferazione dei complementi e, più in generale, delle categorie con cui si possono definire i nomi, le parti del discorso e le proposizioni. Questa impostazione proviene, in parte, dalla didattica del latino: ma se in quel caso è utile distinguere tra i diversi complementi, nell’italiano non lo è altrettanto. Meglio sarebbe, allora, concentrarsi su altri aspetti legati alla lingua, intesa come strumento di comunicazione, segnatamente sulla comprensione e sulla produzione orale, così come sulla comprensione e sulla produzione scritta.

Fermiamoci per un momento sulla produzione scritta, ossia sulla capacità di produrre dei testi efficaci. Bene: non solo è possibile farlo, ma ci sono anche sistemi ben rodati per esercitarsi: la pratica del riassunto, per esempio, può essere davvero utile, dato che proprio il riassunto è uno dei testi efficaci per eccellenza (deve condensare in poche righe le unità informative più importanti di un altro testo). Un altro esercizio a cui è possibile ricorrere è il cosiddetto “cloze”, che prevede di togliere da un testo delle parole che l’alunno deve poi reinserire: il cloze aiuta molto bene a capire cosa fa funzionare un testo, oltre a favorire l’aumento delle capacità lessicali, spesso trascurate in nome delle prescrizioni e di esercizi che sono, piuttosto, lo specchio di un’ansia classificatoria.

Esistono altri modi che credi potrebbero migliorare l’impostazione della didattica?

Oltre a insistere sul testo, un altro modo per migliorare l’efficacia della didattica potrebbe consistere nel ricalcare più da vicino l’insegnamento dell’italiano come lingua seconda (L2). I manuali d’italiano per gli stranieri sono strutturati in modo graduale, cosa che non accade nella didattica per gli italiani di lingua madre. Non solo: i volumi per le scuole medie sono praticamente identici ai libri per le superiori: si comincia dalle lettere (i suoni della lingua) e si prosegue poi con le parole, le frasi brevi, i periodi complessi, e così via; lo stesso percorso viene poi riproposto, di nuovo, solo in modo più approfondito, nella scuola secondaria di secondo grado. La verità, però, è che quando si impara una lingua la prima cosa che si affronta non è né il singolo suono e nemmeno la singola parola: è già il testo. Per questo sarebbe molto utile partire subito con l’analisi di frasi di senso compiuto, ancora meglio se tratte dall’uso reale della lingua, proprio come accade nei manuali di italiano L2. Peraltro, quelle frasi avrebbero un aspetto meno artificiale, “in provetta”, e ne scaturirebbe più naturalmente l’interesse non solo per la correttezza (sempre da valutare sulla base del contesto), ma anche per l’efficacia. Verrebbe più spontaneo chiedersi: che cosa permette alla comunicazione di funzionare?

Nella tua analisi hai riscontrato dietro questo insegnamento, all’apparenza imparziale, delle intenzioni ideologiche?

Nelle grammatiche meno recenti, in effetti, all’educazione linguistica si affiancava anche un discorso di educazione etica e morale:molte frasi degli esercizi e degli esempi indicavano come si sarebbe dovuto comportare un buon cittadino, un buono scolaro, un buon figlio; i genitori, al contrario, erano spesso ritratti nell’atto di sacrificarsi – secondo delle dinamiche simili un po’ a quelle del libro “Cuore”. Dal 1919 a oggi, ho notato che la retorica riferita alla patria, alla religione e alla famiglia è andata, però, progressivamente perdendosi. Quello che resta – come dicevo – è la presenza di frasi inventate, magari un po’ retoriche o che hanno un aspetto un po’ artificiale (il classico “Marco mangia la mela”), frasi che si capisce sono state costruite ad hoc. Forse, oggi, l’aspetto “ideologico” rimasto indietro riguarda l’inclusività: negli esempi compaiono più referenti maschili che femminili; i nomi sono quasi sempre italiani e difficilmente di origine straniera; molto raramente compaiono delle persone diversamente abili. Tutto ciò deriva, credo, dalla rappresentazione corrente della società, spesso stereotipata e che non ne rispetta fino in fondo la composizione reale.

Le grammatiche di oggi, insomma, non portano avanti delle ideologie come in passato: restano però ancora inerzialmente legate al passato. Proprio come accade anche in merito alle nuove acquisizioni in materia di linguistica e didattica. Faccio un esempio: anziché ristrutturare le grammatiche per intero con le acquisizioni della linguistica testuale – cosa che richiederebbe uno sforzo ben maggiore –, si è pensato, semplicemente,di aggiungere un volume che trattasse, appunto, di linguistica testuale. 

Non vorrei, però, sembrare pessimista: finora, e per fortuna, mi pare si possa dire che la scuola sia soltanto migliorata. Ancora oggi il tasso di abbandono scolastico resta molto alto, ma parliamo di cifre imparagonabili a quelle che si registravano all’inizio anche solo della scuola repubblicana. E non si può nemmeno dire che gli italiani non sappiano l’italiano: la dialettofonia esclusiva è praticamente sparita, e lo stesso vale anche per l’analfabetismo. Certo, oggi la società è più complessa e ci sono altre questioni da affrontare: l’analfabetismo funzionale, l’insegnamento dell’italiano ai ragazzi stranieri e agli studenti che soffrono di disturbi cognitivi. Queste sfide, però, possono aiutare la scuola a migliorarsi ancora di più. Prendiamo la questione dei bisogni educativi speciali: è dimostrabile, ma anche intuitivo, come la ricerca in questo campo abbia migliorato la didattica, massimizzandone l’efficacia. La tendenza che registro, insomma, è quella di un costante miglioramento.

Federico Pani

Una versione ridotta è comparsa sul Piccolo di Cremona del 20 novembre 2021

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