Sembra quasi impossibile leggere di una figura retorica come l’ipotiposi in una recensione dedicata a Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire, romanzo giovanilista, provocatorio e in parte pornografico uscito qualche anno fa a firma della catanese Melissa Panarello. Eppure, tra le righe del testo in questione (“Le spazzole di Melissa P.”), ci sono affondi critici degni di un libro capolavoro letterario: “i riecheggiamenti di una letterarietà poeticistica orecchiata a lezione”; “una campionatura di rappresentanti del sesso maschile variata con estrosità policroma”; “un grossolano armamentario goticheggiante”.
Se ne è andato da poco l’autore di queste righe, Vittorio Spinazzola (Milano 1930-2020). Di origini venete e siciliane, Spinazzola era nato e cresciuto a Milano, insegnava da sempre all’Università Statale, il suo cavallo di battaglia accademico era Antonio Gramsci e aveva avuto il merito impareggiabile di aver fatto riscoprire all’Italia I Viceré di De Roberto. Lo si ricorda ora però per il suo estro critico rivolto non solo ai libri entrati nel canone letterario italiano, ma anche a quelli premiati dal successo di vendite. Troppo tecnicamente preciso, teorico, per un pubblico vasto ed eccessivamente modesto l’oggetto del suo interesse per un pubblico snob, Spinazzola non ha goduto del successo ancora più ampio che avrebbe meritato.
La recensione citata prima fa parte di un saggio memorabile (Alte tirature) che si apriva con delle pagine dedicate ai libri su Fantozzi di Paolo Villaggio e prendeva in esame, poi, i successi di Susanna Tamaro, Giorgio Faletti e Federico Moccia, ma anche di Roberto Saviano e altri bestsellers. Nella raccolta di scritti “Tirature ‘91”, Spinazzola dava l’avvio a un percorso editoriale sulla letteratura del presente che conobbe alterne fortune. Il libro resta mirabile, almeno per i suoi due pezzi programmatici, dove scrive:
Naturalmente, parlare di questi libri non significa affatto parlarne senz’altro bene. Ci mancherebbe. Vuol dire soltanto discuterli con attenzione, nel merito, senza pregiudizi, proprio come si fa con quelli destinati all’uso esclusivo dei lettori più esigenti. Ci sono due presupposti, però. Occorre essere d’accordo che la letteratura non è fatta soltanto delle opere che ottengono il consenso delle persone smaliziate ma anche di quelle che vengono preferite dalle persone ingenue: la funzione che assolvono è la stessa, cioè di appagare a livelli diversi i bisogni dell’immaginazione.
Ma c’è un altro presupposto che, sempre nel giro di quelle poche righe, Spinazzola invitava ad accettare: e cioè le regole del mercato applicate ai libri. “Notoriamente l’editore non è un benefattore: è un imprenditore, che giustamente persegue il suo vantaggio economico, per il buon motivo che altrimenti fallisce”. Non certo il mondo ideale, ma il migliore tra quelli possibili. È qui che Spinazzola inseriva il lavoro cruciale del critico, volto a limitare gli effetti negativi dell’industria culturale, il cui interesse non poteva coincidere – come lui stesso ammetteva – con “lo sviluppo culturale collettivo”. La critica, dunque, come quarto potere culturale dopo l’accademia, l’editoria e le vendite. E, come ha ricordato Stefano Salis, con un fine preciso: mettersi al servizio del lettore.