«Amo Cremona. La amo anche se, ogni qualvolta ci torno, mi trattano come se fossi l’ultimo della cordata (…). Tremenda, la provincia». Proprio così, diceva Tognazzi. Forse, oggi più di ieri, si sarebbe ricreduto: magari, vedendo la mostra a lui dedicata nel Museo del Violino, La voglia matta. Il cinema di Ugo Tognazzi, o 33t d’autore, o le altre numerose iniziative proposte del comune di Cremona per ricordarlo – tra cui l’esposizione di gigantografie di suoi film, qui e là per le vetrine della città, serate a tema e cicli di retrospettive.
Cremona sembra averlo capito: venticinque anni fa, se ne andava uno dei suoi figli più illustri. E da una presenza quasi ingombrante, si è passati a un crescendo di riconoscimenti e gratitudine, culminate poco dopo la sua scomparsa: nel 1993, a tre anni dalla morte, gli viene dedicato il cinema di via Verdi, poi chiuso nel 2013. Così, alle tre T della città, se ne è aggiunta per sempre una quarta, la sua.
La mostra del Museo del Violino La voglia matta si divide in tre parti: una galleria di locandine, una fotografica, e materiale multimediale dove si trasmette materiale inedito – interviste o retroscena dei festival, così come cammei televisivi, o interpretazione più o meno celebri. 33t d’autore invece è una rivisitazione contemporanea dei cartelloni dei suoi film più celebri. Passeggiare tra le immagini dei film di Tognazzi è molto più di una panoramica sulle avventure di un artista d’avanspettacolo diventato una stella della commedia italiana.
Ma andiamo con ordine.
Ugo Tognazzi nasce a Cremona nel 1922. Figlio di un assicuratore, dopo aver trascorso la giovinezze a seguito del padre per la Lombardia, torna da adolescente nella sua città. Trova un lavoro: impiegato nel salumificio Negroni. A tempo perso, ancora giovanissimo, recita nel teatro del Dopolavoro ferroviario. Poi, la guerra: si trasferisce a Milano, dove viene notato dalle compagnie d’avanspettacolo per l’intrattenimento delle forze armate. Arriva il 25 Aprile, la Liberazione, e l’Italia ha voglia di dimenticarsi dei traumi della guerra; è il successo delle compagnie teatrali di rivista. Con un discreto successo di pubblico, Ugo partecipa alle tournée d’avanspettacolo; e con mezzi di fortuna (per raggiungere la Puglia si imbarca su un carro bestiame) gira un po’ in tutta Italia.
Finalmente, arriva il cinema: notato durante uno spettacolo a Roma, viene chiamato per interpretare “L’inafferrabile 12”, il suo primo film, insieme a Water Chari. Come ricorda Tognazzi, il film, però, dei due lancia solo Chiari. Poi, lo stesso anno (1950), è la volta dei “Cadetti di Guascogna”. Ci sono tutti insieme a Ugo: Walter Chiari, Mario Riva, Carlo Campanini, Riccardo Billi. Il successo è grande, eppure, nel sequel, il suo nome è sparito: «questo Tognazzi, al cinema, – ricorda – sembrava non funzionare».
Nel 1954 la Rai comincia la programmazione ufficiale. Fra i programmi d’intrattenimento c’è “Un, due, tre”, condotto dai collaudati (e, per qualcuno, un po’ dozzinali) Billi, Carotenuto e Riva. Per qualche ragione, i tre lasciano il programma. Al loro posto, vengono chiamati Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi. Il successo della coppia non è immediato, ma cresce senza sosta nel corso delle dodici programmazioni che si tengono ogni anno; e grazie a loro, si sarebbe detto poi, il programma dura più di cinque anni. La coppia supera ogni aspettativa: costruisce sketch solidi, buffi, capaci di cogliere e ironizzare sui tic dell’Italia alla vigilia del «miracolo economico». Certe volte l’ironia si fa pungente. Sicuramente, troppo per l’Italia di allora: l’allusione a una caduta accidentali del presidente di allora Giovanni Gronchi e lo spettacolo viene sospeso.
Il successo della televisione non tarda a trasmettersi anche al cinema; a dieci anni dal suo esordio, Tognazzi è già protagonista di oltre quaranta film. L’attore è uscito in maniera definitiva dall’anonimato. Eppure, la sua carriera non sembra progredire. L’acume nel riconoscere la mediocrità negli altri, la parodia del reale in qualche gesto, la brillantezza dell’intuizione comica di Ugo vengono sfruttati, piuttosto che valorizzati: in un periodo dove Totò gira tra i sette e gli otto film ogni anno, Tognazzi sembra doversi accontentare della risata facile, di un macchiettiamo improvvisato – e lo si nota nei toni poco seri di certi manifesti di alcuni film di allora.
La svolta arriva nel 1961, quando Luciano Salce gli affida ne “Il federale” il ruolo di graduato fascista; è il suo primo ruolo “drammatico”. Dalle piatte interpretazioni imposte dall’industria cinematografica di allora, Tognazzi fuoriesce con il suo «primo personaggio a tutto tondo» (Morandini). Da questo momento in poi, cominciava a dischiudersi il personaggio Tognazzi, il più difficile da classificare tra i grandi della commedia italiana. Eppure, a ripercorrere la galleria delle locandine del Museo del Violino, le idee si fanno più chiare. La sua straordinaria capacità espressiva si stampa sempre, infatti, sul suo riconoscibilissimo «volto padano»; e senza mai farsi macchietta, ripercorre il passaggio cruciale dell’Italia prima e dopo il «Boom» economico.
C’è un filo conduttore, infatti, che lega i suoi film maggiori: a Tognazzi è affidato il compito di ritrarre la parabola di una generazione arricchita dal miracolo economico e le sue contraddizioni, un’Italia traffichina e godereccia, perbenista e immorale, goliardica e spaventata dalla morte – basti pensare all’industriale de “La voglia matta”, al personaggio-satiro di “Venga a prendere il caffè da noi”, al conte Mascetti di “Amici miei”. Di più; Tognazzi è chiamato a farsi carico del lato sociologicamente meno pregevole dell’arricchimento nostro paese: dall’istinto di sopravvivenza di una civiltà contadina e arcaica, divenuta troppo presto urbana – fanno scuola, insieme a “I mostri” con Gassman, i film di Marco Ferreri e il ritratto di un’umanità sincera quanto sgradevole (l’impresario di “La donna scimmia”, che espone i corpi impagliati dei suoi familiari) – fino all’esplosione bulimica e fatale della società intera nella “Grande abbuffata”.
Mai macchietta, la maschera dell’attore è molto spesso riconducibile alle sue origini «settentrionali»: per certi versi rappresenta quella tensione, che nella sua città, Cremona, rimane però inespressa, a cavallo tra la Lombardia e l’Emilia. Qui, come notano Vittorio Attolini e Guido Fava, si concentra la riconoscibilità del personaggio: cinico, furbo, sornione, piccolo borghese, da una parte; istintivo, sensuale, quasi volgare contadino dall’altra. Tutte caratterizzazioni che vengono restituite sempre con la plasticità del performer d’avanspettacolo che era stato.
E poi esiste l’uomo Ugo Tognazzi, la sua celeberrima passione per la cucina e per le donne, la sua umanità e l’insofferenza per un certo tipo di normalità – basti pensare alla sua numerosa e allargata famiglia. Da questo punto di vista, l’esposizione non restituisce la complessità dell’uomo: la galleria fotografica è, piuttosto, un piccolo e affettuoso sopralluogo dietro le quinte del cinema di Tognazzi. Forse, però, è giusto così: meglio concentrarsi sulla sua grande carriera di attore, guardando per così dire di sottecchi il resto.
Usciti dalle mostre o dalle sale del cinema, viene da pensare a Tognazzi con gratitudine: alla bravura con cui, in bilico tra le sue radici regionali e il respiro di un’intera generazione, ha dato corpo ai difetti dell’Italia intera. A ciò, subentra, poi, una specie di amarezza: si pensa alla parabola discendente dell’attore – culminata nell’interpretazione «stralunata» di “La tragedia di un uomo ridicolo” – alla sua difficoltà nel trovare posto nel cinema di un’Italia che cambiava. Anche l’attore, tornando al teatro negli ultimi anni della sua carriera, sembrò averlo compreso: non avrebbe più potuto dare voce alla generazione che sarebbe venuta. Così, la generazione che è arrivata dopo di lui si è sentita orfana. Quella attuale, invece, se lo è proprio dimenticato.
Il Piccolo di Cremona, 31 ottobre 2015